Dopo l’articolo in cui ho approfondito alcuni aspetti della situazione della nostra editoria a partire dalla “fotografia” offerta dal Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2019 pubblicato dall’AEI, vorrei ora concentrare l’attenzione su un settore che in quella fotografia appare emblematico della crisi che tutti sappiamo (vero?) affliggere l’editoria: il romanzo. Il romanzo per adulti è infatti contemporaneamente il principale prodotto di quest’industria e quello in cui ritroviamo tutti i segni della malattia: declino delle copie vendute, inflazione di autori e titoli, crollo delle tirature, discesa dei prezzi unitari. Diamine, direte voi: possibile che di fronte a questo panorama gli addetti ai lavori non cerchino soluzioni?
Una risposta cinica sarebbe: in un sistema in difficoltà ciascuno difende la propria piccola rendita di posizione, anziché tentare iniziative rischiose che porterebbero beneficio a tutti, inclusi i suoi concorrenti. Piuttosto, si fanno azioni di “razionalizzazione” (ad esempio, fusioni tra editori, o integrazioni “verticali” della catena editore-distributore-libraio). Ma sarebbe sbagliato non riconoscere i segnali di ricerca di trasformazione interni al mondo editoriale; pur senza farne parte, proverò a indicarne qualcuno.
Innanzitutto, in presenza di un settore industriale stagnante, con il suo principale segmento (la narrativa per adulti) in declino, la trasformazione può nascere da (almeno) due fattori:
– l’innovazione di prodotto;
– l’innovazione del modello di business e di processo;
Entrambi sono fronti aperti nell’industria editoriale, dove peraltro è naturale che siano presenti intelligenza e creatività e ci si dovrebbe anzi attendere un dinamismo superiore a quello di altri settori (anche se mi pare che l’editoria sia invece semmai in ritardo).
L’innovazione di prodotto significa soprattutto riesaminare criticamente il “prodotto-romanzo”, tenendo presente che la narrazione è molto più antica del romanzo, ed è verosimile che continuerà a esistere dopo che di romanzi non se ne scriveranno più. Interessante, da questo punto di vista, il dibattito suscitato da un evento organizzato dalla Feltrinelli presso la Scuola Holden, dal titolo Olî esausti: qual è il posto di un romanzo?, cui ha appunto fatto seguito una discussione “polifonica” sul sito Il Tascabile, sul tema Il destino del romanzo, niente meno, con interventi molto validi che vi invito a leggere.
Dal punto di vista del prodotto, l’osservazione che mi viene più naturale è che questa fase di declino del romanzo si colloca nel periodo che a mia personale memoria segna il massimo successo, soprattutto in termini economici, della narrazione. Intendiamoci, le storie sono sempre state molto popolari, in letteratura, teatro, cinema e così via, ma da qualche tempo sono uscite dai confini dell’intrattenimento più o meno colto e hanno colonizzato il mondo del business e quindi quello della società e della politica. Oggi la narrazione, o meglio lo storytelling, è una tecnica fondamentale di ogni forma di comunicazione, e la comunicazione è la chiave delle strategie aziendali e politiche (ne abbiamo parlato anche qui su Hic Rhodus). La narrazione, potremmo dire, ha conquistato il mondo, eppure (o forse appunto per questo) mostra segni di logorio proprio là dove ha la sua sede naturale.
In quest’era dello storytelling ubiquitario, serve ancora il romanzo, e ha tuttora un suo specifico, una sua funzione unica e non surrogabile che ne definisce il senso? Il dibattito su Il Tascabile, che è, per così dire, tutto interno all’establishment, non può che rispondere sì, ma nel farlo offre ugualmente spunti di riflessione da non ignorare.
Il modello di business e di processo è però l’area dove ci si può attendere di trovare le trasformazioni più radicali. Come ho già scritto nel precedente articolo sull’argomento, di fatto una trasformazione “silente” si è già verificata: al modello tradizionale, incentrato sull’editore, s’è affiancato e in una fascia piuttosto ampia di mercato praticamente sostituito un modello che sposta una quota importante degli oneri economici e operativi sull’autore, senza che a questo corrisponda però un analogo riorientamento dei flussi economici (insomma, l’autore non incassa un soldo lo stesso, e il suo investimento di fatto serve solo a sostenere il sistema che scarica su di lui il rischio d’impresa). Questo squilibrio, assieme alle possibilità offerte dalla tecnologia e dalla rete, è la tipica situazione in cui può verificarsi una disruptive innovation, ossia un’innovazione “dal basso” che inneschi un’inarrestabile transizione verso un diverso modello, in questo caso uno incentrato realmente sull’autore-imprenditore, nel quale gli altri soggetti diventino dei fornitori di servizi ma senza più monopolizzare la funzione di intermediazione che oggi garantisce le loro rendite di posizione.

E gli editori che attualmente dominano il mercato? Non si rendono conto di questo? Direi che se ne rendono perfettamente conto, se consideriamo che molte case editrici, incluse le maggiori, hanno già da tempo cominciato a offrire servizi agli autori, a partire dalle piattaforme di self-publishing per continuare con i servizi di editing, distribuzione e così via, fino alle scuole di scrittura creativa: non è un caso che la Feltrinelli sia l’azionista di maggioranza della più famosa di esse, appunto la Scuola Holden, e non è un caso neanche che la Scuola Holden includa tra i suoi servizi un’offerta di Corporate Storytelling dedicata alle aziende. La stessa Feltrinelli gestisce una delle principali piattaforme di self-publishing, ilmiolibro.it. Chi difende una rendita di posizione insomma non sempre è miope, e alcune case editrici ci vedono benissimo; ma non saranno le case editrici a rinunciare al loro posizionamento, al massimo si attrezzano per cogliere nuove opportunità difendendo la propria centralità.
In conclusione, mi sembra che una vera disruption dell’industria editoriale basata sulla narrativa non possa che investire entrambe le dimensioni di prodotto e di business model. Può l’attuale prodotto-romanzo, spessissimo (parlo del prodotto “medio”) frutto dell’applicazione di tecniche narrative standardizzate, essere rinnovato profondamente senza in qualche modo incidere sulla catena agente-editor-editore-distributore-libraio che quegli standard impone? E, per converso, uno scrittore che volesse imporre la propria centralità anche commerciale in quanto autore del 90% del valore (o disvalore) dell’opera, come farebbe a rendersi visibile se i suoi romanzi fossero indistinguibili da tutti gli altri? Probabilmente, le due leve di trasformazione possono essere più efficaci se agiscono in sincronia su tutto il “terreno di gioco”.
Come tentativo di disruption end to end del processo editoriale del romanzo segnalo volentieri quello proposto dai cosiddetti Imperdonabili, un movimento spontaneo che, nato come ribellione al monopolio culturale “dei soliti noti”, si pone l’ambizioso obiettivo di «salvare la civiltà del libro», affrontando esattamente i problemi di cui ho parlato in questo articolo e nel precedente. Sul sito Wildworld, già nato intorno alla casa editrice indipendente Transeuropa, hanno pubblicato un loro manifesto letterario, deliberatamente lontano dalle best practice dell’editoria mainstream, e hanno lanciato un concorso per racconti “imperdonabili”; chi si sentisse in vena di imperdonabilità e volesse cimentarsi, troverà le istruzioni qui. Per quanto mi riguarda, continuerò a seguirli con interesse e partecipazione; vorrei però chiudere questo post con un passo di un’intervista all’ideatore del concetto di disruptive innovation, Clayton Christensen, recentemente scomparso (la traduzione è mia):
«Le forze che concorrono a provocare una disruption sono come la gravità, sono costanti e sempre in azione […] Secondo la mia esperienza, sembra che i top manager s’accorgano più facilmente delle disruption che si verificano in altri settori che nel proprio, dove la profonda conoscenza che hanno di tutti i dettagli può impedire loro di accorgersi di ciò che è fin troppo evidente»