Devo confessare di sentirmi profondamente a disagio, un disagio crescente, di fronte a quello che accade in Italia e, anche se ne siamo meno a conoscenza, anche nel resto del mondo occidentale. Se qui su Hic Rhodus l’amico Bezzi è più esplicito nel rappresentare a tinte plumbee il panorama che si prospetta guardando verso il futuro di questo paese, anch’io sono acutamente consapevole del circolo perverso che si è attivato, e che, proprio per la sua natura “autorinforzante”, sembra impossibile da spezzare nonostante i danni che sta provocando e quelli, autenticamente disastrosi, che promette. il cortocircuito che si è stabilito tra “la gente” e alcune élite “antielitarie” in nome di esaltazione dell’incompetenza, violenza verbale e fisica, negazione della complessità, attribuzione di qualunque problema a un “nemico” vero o presunto, rifiuto della razionalità in ogni campo, arroganza nella superficialità, è un tossico da cui non è detto che il nostro paese (e non solo) sappia riaversi.
Lasciando quindi alla vostra lettura gli articoli più “prognostici” che abbiamo pubblicato su questo tema (uno per tutti, il recente La guerra-civile è convocata alle 14.00 (venite già pranzati)), vorrei soffermarmi su un diverso tipo di analisi, che si potrebbe sinteticamente riassumere nella domanda ma perché diavolo sta succedendo tutto questo?
Intendiamoci: non vivo sulla Luna, e conosco tutti i motivi, obiettivi e razionali, di preoccupazione e di insoddisfazione dei cittadini italiani, e in particolare dei giovani, i precariamente occupati, gli esclusi dalle cerchie dei privilegiati, in un mondo dove le disuguaglianze crescono continuamente. Anche di questo abbiamo parlato più volte come di un’ingiustizia strutturale che in un vecchio post definivo “una bomba sociale a tempo”. Posso dunque sorprendermi? Un po’ sì, secondo me, perché il dissenso verso questo stato di cose si è coagulato nella forma di un sostegno popolare prima ancora che elettorale a favore delle “analisi”, le proposte, le azioni più grossolane, irrazionali, cialtrone e, in ultima analisi, dannose anche per coloro che sono oggi in posizione di svantaggio. Quello che emerge non è un movimento di opinione rivendicativo, che esiga una anche radicale redistribuzione di risorse e opportunità, come poteva essere una volta quello della sinistra comunista, ma un movimento vendicativo, tutto concentrato in un “muoia Sansone con tutti i Filistei”. Non un piano d’azione foss’anche rivoluzionario, frutto di un’analisi accurata della realtà, ma un’agitazione caotica il cui tratto essenziale sono il rancore e il desiderio di rivalsa, che siano contro i politici che godono di privilegi ingiustificati (vero) o contro gli immigrati che si godono il lusso di una pacchia grazie a Soros, alle ONG o al PD (folle). Insomma, a quelli che chiamavo i “motivi obiettivi e razionali” vengono sovrapposte una rappresentazione e una reazione irrazionali e irrealistiche, ai limiti della patologia. E, quindi, rimane la domanda: perché succede questo?
Negli ultimi tempi, sono circolate parecchie analisi, che a mio avviso talvolta colgono elementi importanti della situazione ma non sono sufficienti. Pensare che le manipolazioni dell’opinione pubblica sui social (certamente esistenti e pesanti, che si voglia attribuirle ai russi, a soggetti esperti di big data analytics come Cambridge Analytica o a entrambi) siano sufficienti a dar conto di questo scenario è assurdo, così come anche un’analisi acuta come questa, che “destruttura” la comunicazione politica attuale individuandone i caratteri archetipici (sia pure in un modo che fa probabilmente storcere il naso agli psicoanalisti).
La risposta che sto cercando di elaborare, e che vi proporrò sebbene sia solo abbozzata e sicuramente lacunosa, prende la forma di un intreccio di tre fili: quello socioeconomico, quello comunicazionale e quello psicologico. La mia tesi, infatti, è che guardando da solo ciascuno di questi “fili” sia impossibile cogliere la complessità del nodo in cui siamo intricati. Purtroppo, questo significa che sarò terribilmente lungo, e me ne scuso.
Uno: il Filo Rosso, quello socioeconomico, che è quello forse più facile, anche perché è quello che abbiamo più frequentemente trattato su Hic Rhodus. È un dato di fatto che i quarant’anni abbondanti che ci separano dagli anni Settanta, con la creazione di mercati sempre più allargati e globali, hanno pesantemente spostato la distribuzione e la percezione del benessere nei paesi occidentali e specialmente in Italia. Se nella lunga parentesi diadica DC – PCI entrambe le ideologie dominanti avevano una matrice “di riferimento” egualitaria (evangelica per la DC, marxista-leninista per il PCI), e chi era ricco e potente tendeva spesso a dissimulare entrambe queste qualità (ricordate Andreotti, ad esempio? Fu l’uomo più potente d’Italia, e sembrava un impiegato del Catasto), a partire dagli anni Ottanta potere e denaro sono definitivamente diventati status symbol ostentati, e in parallelo le differenze sociali, dopo aver subito un fortissimo calo nel periodo 1960-1980 (v. qui sotto il grafico dell’indice di Gini, che è tanto maggiore quanto più è disuguale la distribuzione del reddito), dal 1990 sono di nuovo cresciute e si sono polarizzate a tal punto che oggi si può dire che chi fa parte di una ristretta cerchia dei più privilegiati vive in una società a parte (ne abbiamo parlato a suo tempo in un post ispirato dai Rich kids of Instagram).
A questo si aggiungono le ingiustizie intergenerazionali, e il risultato è che oggi, in un mondo in cui tutti sanno tutto di tutti, la coesione sociale che dovrebbe fondarsi sul sentimento di trovarsi in fondo “tutti sulla stessa barca” è ormai ben fragile.
Due: il Filo Giallo, quello comunicazionale. A differenza del precedente, riguarda qualcosa di meno agevolmente quantificabile, ma piuttosto facile da comprendere una volta che se ne osservi la pervasività nelle nostre vite. Tutto nasce di fatto dal marketing (e personalmente sono convinto che molte trasformazioni della nostra società che noi attribuiamo a fenomeni socioculturali abbiano invece una radice prettamente economica, anzi consumistica), e in particolare dalla “scoperta” che gran parte delle nostre decisioni sono dettate dalle emozioni e non dalla ragione. In un certo senso non è una gran scoperta, ma teniamo conto che la teoria economia “neoclassica”, che di fatto è alla base dei modelli economici capitalisti, ha al suo centro la nozione di agente economico razionale, ossia di un soggetto che compie scelte (ad esempio acquisti) ottimizzando rigorosamente l’utilità che da queste scelte deriva (questa sintesi è necessariamente grossolana, rinvio per una migliore descrizione alle voci di Wikipedia su Neoclassical economics e Rational choice theory). Conseguentemente, l’idea “primitiva” del marketing commerciale consisteva nel sottolineare le caratteristiche di utilità di un dato prodotto, per convincere i consumatori che comprarlo fosse appunto una scelta razionale.
Non c’è però voluto molto agli economisti per comprendere che l’idea di un agente perfettamente razionale che compie sempre la scelta più utile è un’astrazione che può far prendere grandi cantonate nel prevedere il comportamento delle persone reali (v. ad es. questo articolo apparso qualche anno fa sull’Economist). E ancora meno c’è voluto agli esperti di marketing per capire che contando solo sull’utilità dei prodotti per venderli sarebbe stato impossibile “imporre” ai consumatori la bulimia necessaria per mantenere in piedi una società dei consumi che ogni anno deve vendere più del precedente. Sono così rapidamente emerse forme di marketing che fanno appello all’emotività del consumatore, e una delle tecniche dimostratesi più efficaci è quella dello storytelling, della narrazione di una storia, nella quale il consumatore possa immedesimarsi. L’efficacia di questa modalità di marketing è stata studiata anche “sperimentalmente” già diversi anni fa; nell’articolo The Role of Narratives in the Advertising of Experiential Services, pubblicato nel 2000 da Anna Mattila sul Journal of Service Research, si mettevano a confronto due tipi di pubblicità: uno basato su un elenco di qualità distintive del servizio che si pubblicizzava, l’altro centrato sul trasmettere con una tecnica narrativa la qualità dell’esperienza offerta ai consumatori. I risultati sono, a mio parere, ancora oggi interessanti:
- La pubblicità “narrativa” veniva preferita rispetto a quella “descrittiva”;
- La pubblicità “narrativa” stimolava nel consumatore uno stato emotivo positivo, mentre quella descrittiva no;
- I due effetti precedenti erano molto più accentuati per i consumatori poco preparati che per i consumatori esperti.
Questi effetti sono bene illustrati da due grafici ripresi dall’articolo, quello a sinistra sull’apprezzamento e quello a destra sulle emozioni generate:
Piuttosto chiaro, no? Chi non è competente sul “prodotto” pubblicizzato trova noioso un elenco di caratteristiche di cui non è probabilmente in grado di cogliere gli elementi qualificanti, mentre è più ricettivo, e gratificato, se la pubblicità racconta una storia emotivamente coinvolgente. Per chi è competente, invece, le due pubblicità sono equivalenti, e comunque l’effetto emotivamente gratificante di quella “narrativa” compensa la minore informazione che fornisce. Pensiamo a due spot per pubblicizzare un’automobile, uno che ne elenchi le caratteristiche tecniche e un altro che racconti una storia con il prodotto al centro: qual è il più efficace, e quale è il tipo di pubblicità che oggi è largamente più comune? Vediamo qui sotto due spot che ho trovato su YouTube, uno per ciascun tipo (e vi assicuro che trovare quello con la lista di caratteristiche distintive è stato molto più difficile).
Beh, ve ne sarete già accorti: lo storytelling funziona, così bene che dal puro marketing si è diffuso in ogni attività in cui si debba convincere qualcuno, anche nei casi in cui ci sarebbe più bisogno di un approccio analitico ai problemi. Io lavoro in un’azienda, e ormai anche nel mondo aziendale pensare di vendere un prodotto elencandone i pregi è un errore clamoroso. Persino i manager che devono prendere una decisione non sono più disposti ad addentrarsi in un’analisi puntigliosa di pro e contro: vogliono che si racconti loro una storia di successo, e come possano ottenere lo stesso successo prendendo la decisione A anziché quella B.
Figuriamoci quindi se la politica poteva sfuggire allo storytelling. In fondo, in cosa consiste la narrazione? Si tratta di un argomento studiato da tempo a partire ovviamente dalla letteratura. Quanto alle applicazioni della “narrativa” alla comunicazione politica, consiglio la lettura di un interessante articolo apparso su Nature, che suggerisce che per comunicare ai cittadini le politiche pubbliche si faccia uso di uno schema narrativo “classico” che includa:
- Un ambiente (setting), che descriva situazioni e idee rilevanti per il tema prescelto;
- Dei personaggi, che ricoprano uno o più dei ruoli “canonici” (Eroe, Amante, Mago, Ribelle, Saggio…), o, come la critica letteraria ha compreso già parecchi decenni fa, archetipici. Un archetipo ha caratteristiche immediatamente riconoscibili, e, secondo C. G. Jung che ne ha sviluppato la nozione all’interno della psicologia analitica, fa parte del nostro inconscio collettivo, ossia di un “minimo comune denominatore” riconoscibile in praticamente tutte le culture umane. Un buon elenco di archetipi a fini letterari si trova qui;
- Una trama (plot), che espone il problema facendo interagire i personaggi con l’ambiente, e che ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Il problema ha spesso una struttura che prevede una vittima ingiustamente danneggiata e un colpevole, umano o impersonale (v. Deborah Stone, Causal Stories and the Formation of Policy Agendas);
- Una morale, che costituisce il senso della storia. Se la storia espone un problema politico, naturalmente, la morale può consistere in una (proposta di) soluzione per il problema, come una legge o una specifica azione di governo.
In genere, sia nella comunicazione commerciale che politica, una storia si inquadra in una più ampia narrazione (narrative), che non ha un inizio e una fine, e che fa parte dell’identità del marchio o del partito che la propongono.
Ormai la comunicazione politica basata sulla narrazione è un dato acquisito, al punto che la nostrana Agenzia per l’Italia Digitale ha pubblicato recentemente le Linee Guida per la promozione dei servizi digitali che raccomandano esplicitamente l’uso dello storytelling nella comunicazione della Pubblica Amministrazione verso i cittadini. Quanto ai partiti, hanno imparato bene la lezione, e ormai la narrazione archetipica è onnipresente; come fa acutamente osservare l’articolo Ribelli cinquestelle contro Saggi PD, che ho già citato sopra, ogni leader o partito tenta di “impadronirsi” di un archetipo, che sia quello del Ribelle (M5S), del Mago (Renzi), dell’Eroe Guerriero (Salvini) o del Sovrano (Berlusconi). L’attuale crisi vede il PD mentre, perso il suo Mago, tenta forse di riesumare l’archetipo del Saggio, che comunque oggi è sicuramente meno attraente di altri. Quello che è certo è che tutte queste narrazioni non aggiungono nulla alla cultura politica dei cittadini, anzi fanno leva, come vedevamo, sull’impreparazione del cittadino medio, che meno sa e più è sensibile alla narrazione. Giungiamo quindi al…
Tre: il filo viola, quello psicologico. Come abbiamo visto, non solo la narrazione funziona, ma siamo arrivati al punto che ciascuno di noi, quando deve prendere una decisione, esige di essere sollecitato emotivamente, e meno capisce dell’argomento più esige una comunicazione narrativa, anche se questa non fornisce nessuna informazione reale. Anzi, semmai le nuove frontiere del marketing puntano su una comunicazione ancora meno razionale e più emotiva, scavalcando addirittura il livello conscio e puntando direttamente a interagire con l’inconscio dei consumatori (Neuromarketing, v. ad es. qui).
Tutto questo però, a mio avviso, non basta a spiegare la violenza e l’ottusità di tanti “atti comunicazionali” che rendono quasi irrespirabile l’aria di Internet, né basta a spiegare perché, qui e oggi, a riscuotere consenso (inevitabilmente acritico) siano certi archetipi, declinati in chiave politica, e non altri. Teniamo infatti presente che il fatto che le emozioni svolgano un ruolo fondamentale nei nostri processi decisionali non è un’anomalia ma un importante fattore che contribuisce normalmente in positivo alla qualità delle nostre decisioni. Lo illustra molto chiaramente Antonio Damasio nei suoi libri (e se non volete leggere i suoi libri ascoltatelo ad esempio in questo video): l’astrazione di un agente puramente razionale non solo è falsa, ma non corrisponde a un modello desiderabile. Le emozioni sono da sempre determinanti nelle nostre valutazioni, quindi perché adesso l’emotività negativa è diventata ingovernabile (posto che sia così, e io credo di sì)? E perché sto collegando questo fenomeno con il marketing (politico) basato sulla narrazione?
Il problema è che gli elementi costitutivi della narrazione non sono emotivamente neutri, proprio perché si basano su archetipi. Il motivo per cui la narrazione è così efficace è appunto che fa appello a, e mobilita, energie emotive inconsce che non solo noi non controlliamo ma che ci sono del tutto sconosciute. E dato che ogni archetipo ha una diversa relazione con la nostra psiche, l’effetto di una data comunicazione potrà essere più o meno potente a seconda della sua consonanza con le aree più profonde della nostra psiche. Infatti, nella teoria di Jung, gli archetipi sono al centro dei complessi a tonalità affettiva, strutture di organizzazione di energia psichica capaci, se sollecitati, di trasferire questa energia nel comportamento della persona, senza che l’io cosciente sia in grado di comprendere e controllare questo processo.
Senza voler insomma invadere il terreno degli psicologi analisti (ma temo che un analista mi criticherebbe appunto per la mia arroganza intellettuale), quello che credo è che la violenza, l’aggressività, l’irragionevolezza, la radicale sfiducia verso istituzioni, esperti e anche in generale verso il prossimo siano tutte manifestazioni di questa energia psichica finora confinata nell’inconscio. Credo che questa violenza si spieghi solo con un potente complesso, che potrei chiamare il complesso della vittima. La chiave di lettura che sto proponendo, insomma, è che nel cittadino medio dell’Occidente progredito si sia sviluppata una profonda e inespressa convinzione di essere una vittima, e che per questo siano così efficaci le narrazioni e gli archetipi (Ribelle, Eroe Guerriero) che “risuonano” con questa convinzione. E d’altra parte i sentimenti tipici di una vittima sono innanzitutto la paura, il risentimento, la diffidenza verso i potenti, il desiderio di vendetta, l’ansia di trovare un Eroe che appunto la vendichi e protegga.
Ma perché tanti dovrebbero sentirsi vittime? Qui ovviamente intervengono anche ragioni obiettive, alcune delle quali abbiamo visto costituire il Filo Rosso di questo intrico: la perdita di centralità sociale delle classi medie, il crescere delle disuguaglianze, le incerte prospettive soprattutto dei giovani, e in una parola il senso di precarietà cresciuto enormemente negli ultimi 30-40 anni. In parallelo con l’obiettiva precarietà economico-sociale, però, la rapidità “liquida” delle trasformazioni e la globalizzazione hanno reso il nostro mondo troppo grande e complesso per essere realmente sentito proprio da ciascuno di noi. Noi non ci riconosciamo più nel mondo in cui viviamo, abbiamo perso quella relazione di intima appartenenza che potevamo avere in un mondo, certo più limitato, di cui comprendevamo l’orizzonte e che aveva una “solidità” sufficiente a consentirci una relazione stabile con esso. Di questa perdita siamo le vittime, e in ultima analisi aver perso il nostro ubi consistam è la condizione psichica che avvertiamo come un’ingiustizia irrimediabile, di cui cerchiamo un colpevole, e vendetta.
Provo a riassumere questo lunghissimo e temo un po’ confuso discorso:
- Il Filo Rosso: l’economia globalizzata, l’innovazione tecnologica e, in particolare in Italia, una politica inetta e parassitaria hanno posto ampie fasce della popolazione (specie giovane) in condizioni oggettive di ingiustizia, precarietà, vulnerabilità sociale.
- Il Filo Giallo: l’onnipresente marketing (commerciale, e poi politico, personale, ecc.) ha “educato” tutti noi a spostare i nostri processi valutativi e decisionali dall’analisi razionale rischi-benefici alla sollecitazione immediata di emozioni e di processi inconsci di attribuzione di valore. In particolare in politica, lo storytelling archetipico punta a raggiungere e sollecitare emozioni primarie e condivise, bypassando completamente il livello razionale.
- Il Filo Viola: il sentire profondo di essere una vittima, costruito (anche) dal Filo Rosso, e sollecitato dal Filo Giallo, attiva violente energie psichiche, che invadono lo spazio della riflessione razionale e dominano le nostre reazioni e giudizi, alla ricerca di colpevoli da punire e di nemici da sconfiggere.
Ok, e allora? Dopo tutto questo lungo e complicato discorso quali contromisure dovremmo adottare? In realtà, è difficile da dire; se si trattasse di una questione individuale, forse la soluzione migliore sarebbe una psicoterapia, ma qui parliamo di una condizione diffusa, più o meno, in interi popoli. Un suggerimento interessante può forse essere ritrovato in un articolo pubblicato sul blog del Solutions Journalism Network e intitolato Complicating the Narratives. In pratica, l’articolo pone il problema di come “disinnescare” la polarizzazione che rende di fatto impossibile un reale dialogo su questioni politiche fondamentali, evitando il classico “muro contro muro” fatto di reciproche accuse, insulti e tutta la casistica di diffusa violenza verbale e rigetto delle argomentazioni razionali che è la premessa di questo mio ragionamento. L’articolo racconta un interessante esperimento svolto alla Columbia University, nel quale si organizzavano discussioni tra due persone di opinioni opposte su un argomento controverso, chiedendo loro di cercare di arrivare a un testo condiviso. Inutile dire che molte discussioni si riducevano a un inutile scontro; alcune però erano meno scontate e i due partecipanti in qualche modo finivano per ascoltare con meno rigidità le argomentazioni dell’interlocutore, stabilendo un dialogo reale. Ebbene, i ricercatori hanno scoperto che queste discussioni più aperte e costruttive aumentano se prima dell’incontro ai due partecipanti viene fatto leggere un articolo su un argomento completamente diverso, ma che ne presenta le sfumature di complessità anziché riportare l’una o l’altra delle posizioni estreme e semplificate tipiche del “muro contro muro”.
The lesson for journalists (or anyone) working amidst intractable conflict: complicate the narrative. First, complexity leads to a fuller, more accurate story. Secondly, it boosts the odds that your work will matter — particularly if it is about a polarizing issue. When people encounter complexity, they become more curious and less closed off to new information. They listen, in other words.
[La lezione che può trarre un giornalista (o chiunque altro) che si trovi a doversi occupare di un conflitto insanabile: complicate la narrazione. In primo luogo, la complessità rende la storia più completa e accurata. In secondo luogo, innalza la probabilità che il vostro lavoro risulti importante, specialmente se riguarda un argomento che suscita posizioni radicalmente opposte. Quando la gente incontra la complessità, diventa più curiosa e meno chiusa a recepire nuove informazioni. In altre parole, ascolta.]
Complicare la narrazione: introdurre elementi di realtà che contraddicono le storie stereotipate. Porre davanti alle persone informazioni non predigerite a favore di una tesi o di quella opposta. Ricercare le cause non ovvie delle opinioni proprie e altrui. Allargare la visuale da uno specifico episodio controverso al più ampio problema di cui quell’episodio è solo una sfaccettatura. Questi e altri (molti illustrati nell’articolo) possono essere modi per reintrodurre la riflessione nel dibattito politico e civile, spezzando il circolo vizioso della narrazione stereotipata che innesca le nostre energie psichiche. E se complicare la narrazione è la risposta, spero che mi si perdoni il fatto che questo articolo sia un bell’esempio di complicazione!