Le cose intorno a noi – 3 Il Paesaggio

Nota: questo post fa parte di un sottotema molto di nicchia che riguarda una ricerca personale dell’autore. La prima parte è uscita QUI, offrendo un’introduzione al tema. La seconda QUI, cercando di offrire una concettualizzazione più elaborata. In questa terza parte dirigo lo sguardo sull’ambiente che ci circonda. Trattandosi di una ricerca in corso è prevedibile che ci siano altri contributi.

Gli oggetti sono attorno a noi, sono – in senso simbolico, culturale e psicologico – dentro di noi (di ciò ho iniziato a scrivere nei precedenti due articoli) ma sono ovviamente massicciamente presenti fuori di noi. Occorre partire dal fatto che gli oggetti sono lo snodo fra Noi (l’umanità) e il Mondo (che è il “fuori di noi”). L’Uomo primitivo, il selvaggio, l’Emilio di Rousseau, Walden di Thoreau, il contadino idealizzato del bel tempo che fu, e altri miti della semplicità del rapporto fra uomo e natura segnalano in ogni caso la necessità umana di intervenire sull’ambiente utilizzando via via utensili più sofisticati (dalla selce scheggiata all’aratro tirato da buoi) ma sempre, in un certo senso, prossimi: prossimi all’Uomo in quanto parte della natura sulla quale intende intervenire. La selce scheggiata è una pietra locale che l’uomo ha raccolto, modificato, e usato per meglio sopravvivere in quel medesimo ambiente; l’aratro antico è prodotto col legno locale, poi ammodernato con rinforzi di ferro battuto dal fabbro dei dintorni, e usato per smuovere il terreno e prepararlo per la semina in quella comunità. La natura fornisce i materiali all’Uomo affinché li usi per intervenire sulla natura e meglio adattarsi e sopravvivere (Fig. 1 più avanti). Sia pure in maniera semplificata si potrebbe dire che in questo mitico momento storico (le cui propaggini raggiungono ampiamente l’epoca moderna e in piccola parte quella contemporanea) Uomo e Ambiente rappresentano (sotto un profilo sociologico) il dentro e il fuori del medesimo Essere (sostantivo e verbo, assieme).

L’evoluzione tecnologica, come vertice fondamentale della spinta evolutiva “cosista” umana, mostra in maniera molto evidente i risultati di un processo iniziato chiaramente con la rivoluzione industriale del ‘700 e con elementi prodromici assai evidenti nei secoli precedenti. Ciò che accade è che 1) l’Uomo non costruisce più utensili semplici tratti dall’ambiente circostante, ma strumenti complessi, assemblati per componenti che, separatamente, non avrebbero più senso, 2) per intervenire in maniera massiccia su ambienti (plurale) anche distanti, 3) non più per cercare adattamenti ma per creare surplus, ricchezza, potere, dominio, servaggio, sia attraverso le funzioni d’uso degli oggetti prodotti sia, sempre più spesso e in epoca moderna e contemporanea, attraverso funzioni simboliche. Le modifiche sull’ambiente sono devastanti sia come sfruttamento di risorse sia come ricettacolo di rifiuti. Si costituisce quindi una frattura visibile, chiara, senza continuità, fra Uomo e suo ambiente (Fig. 2).

Gli strumenti/oggetti/cose non sono più mezzi di relazione fra Uomo e Natura, ma elementi estranei ai due Enti, utilizzati dall’Uomo per ragioni simboliche nell’ambito delle sue relazioni sociali (primi due articoli di questa serie) a scapito dell’Ambiente, o più semplicemente con indifferenza rispetto all’Ambiente.

Il discorso sul paesaggio si innesta a questo punto della riflessione. ‘Paesaggio’ è un concetto confuso non coesteso con Ambiente:

L’uomo l’ha inventato [il concetto di ‘paesaggio’] per parlare di se stesso attraverso immagini. Siamo noi stessi il nostro paesaggio (Giuliana Andreotti, Il senso etico ed estetico del paesaggio, https://www.slideshare.net/fabiocremascoli/esteticapaesaggio)

Il Paesaggio è un’invenzione umana. È l’Uomo che “scopre” l’Ambiente come Ente, diverso e distaccato da Sé, e lo interpreta. Lo idealizza, lo idealtipizza, lo dipinge e lo declama in poemi. Col suo stile graffiante e aforistico ne tratta magistralmente Oscar Wilde nel saggio La decadenza della menzogna, dove scrive, fra l’altro:

Guardare una cosa è molto diverso dal vederla. Non si vede niente finché non se ne è vista la bellezza. Allora, e soltanto allora, la cosa comincia ad esistere. Al momento la gente vede delle nebbie non perché vi siano delle nebbie, ma perché poeti e pittori le hanno insegnato il misterioso incanto di tali effetti […]. Non sono esistite, finché non le ha inventate l’Arte. Oggi, bisogna riconoscerlo, con le nebbie si sta esagerando. Sono diventate niente di più del manierismo di una conventicola, il cui realismo esagerato del metodo fa venire la bronchite alle persone ottuse. Là dove l’uomo colto coglie un effetto, chi non è colto si busca un raffreddore (Oscar Wilde, La decadenza della menzogna).

Wilde, affermando paradossalmente che la nebbia è un modo col quale la Natura imita l’Arte, ci spalanca un universo poco sufficientemente esplorato nell’attuale dibattito sulla crisi ambientale, vale a dire sul rapporto fra Estetica (come l’Uomo vede il mondo) e Etica (come l’Uomo agisce nel mondo). Ciò che Wilde intende dire è che il tema del nostro rapporto con l’ambiente è talmente filtrato dalle nostre lenti culturali (ciò che mostra, invero, il nostro distacco dalla [ex] Madre Natura) che solo ciò che è concettualizzato diviene reale. Ma – parte conclusiva della precedente citazione – il dandy che è in lui precisa: c’è un modo “alto” per realizzare questa concettualizzazione, che si traduce appunto in arte, nei giardini all’italiana, nei vicoli dei borghi di pescatori nella costiera amalfitana, nei vigneti toscani, nell’intrusione di un elemento in sé disarmonico come l’orrida torre Eiffel nel contesto monumentale di Parigi, riuscendo purtuttavia a creare un’euritmia (“affinità tra l’uomo, il materiale che usa e le tradizioni che lo sorreggono” – Giuliana Andreotti). E c’è un modo “basso”, volgare, dove le persone non vedono le nebbie ma buscano il raffreddore ovvero – fuor di metafora – non vedono un paesaggio, ma un luogo; funzionale oppure no; da sfruttare; da agire; sempre con un rapporto separato, senza sentirsene parte.

Si arriva così ai junkspace descritti da Koolhaas: i luoghi brutti, costruiti con materiali alienati e alienanti, mal tenuti, che sono inevitabilmente diventati non solo i luoghi del nostro vivere, ma anche i suoi modi.

Noi pensiamo che il Junkspace sia un’aberrazione, una soluzione provvisoria, ma è un errore. Il Junkspace è la realtà. Lo ha elaborato il Ventesimo secolo, e il prossimo secolo ne sarà l’apoteosi (Koolhaas).

Il brutto che dilaga è l’estetica di un paesaggio devastato che rivela un’etica malata. Parlare di paesaggio devastato significa quindi interrogarsi sull’abuso dell’ambiente da parte dell’uomo. Il problema del clima (per dirne uno, quello più di moda [sic!]) è successivo; quello dell’interramento dei veleni nella Terra dei Fuochi, è successivo; come quello dei ghiacciai che si sciolgono, della diossina trovata nell’Artico, delle isole di plastica nei mari… Queste sono le conseguenze visibili, drammatiche, nella nostra dispercezione del corretto rapporto con l’ambiente e di una distorta relazione col paesaggio.

Considerare il paesaggio diventa, in sostanza, un modo per capire il rapporto Uomo-Natura. Il paesaggio è una chiara e splendida mappa di indicatori, se solo vogliamo leggerla.

Proviamo allora a immaginare questa “lettura”. Al parco c’erano dei cestini rossi,  cilindrici, installati… boh? Io li ho sempre visti lì.

Il colore rosso, in un parco, è chiaramente voluto e giusto, sotto un profilo paesaggistico, un po’ come la tecnica del kintsugi giapponese, che non nasconde le fratture del vaso.

O come l’ammasso di ferro della già citata torre Eiffel… Bene; col tempo la maggior parte di questi cestini è andata distrutta, o si è usurata. In parte il parco è costellato di altri cestini, di altro formato e colore per distinguere i vari assessorati che hanno dato ai cittadini tali stratificazioni, e in parte sono rotti, ammaccati, sfondati, arrugginiti. Hanno i loro sacchetti, sono giornalmente svuotati, sono ancora funzionali sebbene morenti, ma soprattutto sono orrendi. Io passo, getto i miei rifiuti, e probabilmente non vedo il vulnus estetico di quel cestino arrugginito. Poiché non lo vedo, quindi ne sono parte. Sono parte di quel brutto che offende il parco e me lo fa  godere meno.

Per la strada di casa, poi, se solo abituo l’occhio a vederli, trovo decine di pali e paletti, di colori diversi, lasciati da autorità diverse: il Comune, la società del gas, quella dei trasporti.

Ognuno ha una funzione o, spesso, l’aveva, e oggi – senza più indicazioni – continua a ergersi abbandonato a sancire il nostro graffio fatto al paesaggio. Spesso non servono neppure più, ma nessuno li va a togliere; restano lì, si accumulano, arrugginiscono nella nostra distrazione, prima ancora che nella loro materia.

Ecco: questi mille e mille piccoli orrori formano un mosaico di antiestetica, e quindi di antietica ambientale. E siamo noi a farla.

(Tutte le foto e i disegni sono dell’Autore)