…non merita né libertà né sicurezza”.
I lettori di HR mi vorranno scusare se inizio con questo vecchio aforisma di Benjamin Franklin, ma per quanto mi sia sforzato, non son riuscito a trovare una frase in grado di riassumere meglio i concetti che proverò di seguito ad esporre, e che riprendono il tema posto da Bezzi nel suo pezzo sulla libertà nel terzo millennio.
Anticipando un attimo le conclusioni, preciso subito che la mia personalissima risposta alla domanda posta in conclusione di quell’articolo (cioè quale dei tre modelli – cinese, russo e occidentale – si preferisca) è che tutto sommato la scelta migliore sia tenersi stretto il caro vecchio e sgangherato modello occidentale, fondato su quell’idea di libertà sulla cui obsolescenza non sono del tutto convinto.
Ancor meno, però, sono convinto di una questione di fondo presente nell’articolo: la maggiore efficacia dei regimi nel garantire ai cittadini la sicurezza (intesa qui in senso lato: dai furti negli appartamenti come dalle epidemie). Come proverò a spiegare, esistono fondati motivi per nutrire quantomeno dei dubbi sulle cifre che Cina e Russia hanno fornito al mondo sul numero di morti e contagiati.
Sulla Russia si è già espresso Bezzi, e non mi pare ci sia altro da aggiungere. Vediamo gli altri.
La Cina
Una prima obiezione (forse banale) che mi sento di fare a quest’assunto, relativamente al COVID-19, è che nel misurare l’efficienza di un Paese (o di un sistema di governo) bisognerebbe tenere presente non solo la capacità di reagire alle crisi, ma anche la capacità di prevenirle.
Nel caso della Cina, è appurato che non solo il COVID-19, ma anche altre epidemie precedenti (tipo la SARS nel 2002) sono nate nei mercati di animali selvatici, non certo luoghi all’avanguardia in quanto a rispetto di norme igieniche. Il COVID-19 si sarebbe trasmesso dal pipistrello al pangolino, e da questo all’uomo, con una dinamica del tutto analoga a quella che fece esplodere la SARS.
Ecco, personalmente credo che, quando si parla di sicurezza, si debba tenere presente anche questogenere di situazioni, e non solo il numero di omicidi e scippi a cui molti guardano. Un regime che sorveglia h24 i cittadini e valuta i loro comportamenti con un distopico ranking sociale, e al tempo stesso lascia loro totale “libertà” di praticare azioni pericolose per la salute, a me sembra un pericolo pubblico.
Al di là di questo, c’è da registrare il fatto che ogni giorno si fa più forte il sospetto che il regime cinese possa aver mentito sul numero effettivo dei morti da COVID-19 (circa 2500, secondo i dati ufficiali). Radio Free Asia ipotizza 40.000; la stima non convince il Sole24, che comunque ammette l’impossibilità di fare previsioni accurate e dà per assodato che il governo abbia mentito.
È davvero la sorveglianza di massa ad aver rallentato il virus in Corea?
Un altro refrain che si sente ripetere spesso in questi giorni è l’idealizzazione del modello coreano, in riferimento al fatto che la Corea del Sud sarebbe riuscita a contenere i contagi e i decessi meglio di altri Paesi, e che un ruolo importante della strategia consisterebbe nel c.d. “contact tracing”, ovvero il rintracciare tutte le persone venute in contatto con i contagiati ricostruendo gli spostamenti con l’aiuto dei telefoni geolocalizzati.
Anche in questo caso, mi pare di capire che in realtà l’elemento discriminante sia un altro, e cioè l’elevatissimo numero di tamponi eseguiti nel Paese asiatico (circa 20.000 al giorno). Ciò ha un effetto anche a livello meramente statistico: il perché lo ha spiegato Alessandro Ferretti:
Immaginiamo due Stati (o anche due regioni italiane) con due strategie di test differenti; la prima è “tanti tamponi”, la seconda “pochi tamponi”. (…)
Lo Stato “tanti tamponi” sin dall’inizio del contagio testa i familiari e il maggior numero possibile di contatti dei primi contagiati, anche se asintomatici. (…) troverà un buon numero di contagiati, e la loro età sarà distribuita in modo (più o meno) casuale, dai giovani agli anziani. Quindi, se fai il test anche agli asintomatici, mediamente dovresti aspettarti di trovare un 80% di contagiati asintomatici o lievi (come da letteratura) e un 20% di seri e gravi. In questo caso è facile avere un buon numero di guariti rapidamente e una percentuale di decessi più bassa, perché i tanti asintomatici guariscono (si negativizzano) facilmente.
Lo Stato “pochi tamponi” lavora invece in un altro modo. Se una persona riporta al medico di avere dei sintomi, il medico la mette in isolamento domiciliare senza prescrivere il tampone e si aggiorna sul progredire dei sintomi. Se la persona guarisce, caso chiuso e il test non viene proprio fatto. Se invece di migliorare peggiora, gli si fa il tampone: ma il tampone non viene poi esteso a familiari o contatti, si fa solo ai sintomatici.
Queste due diverse strategie portano ad un buon numero di differenze, ma la principale è questa: nello Stato “pochi tamponi” non solo si scoprono molti meno casi, ma si introduce un bias: ovvero, a non essere scoperto è proprio l’80% di casi asintomatici o lievi. (…)
Per essere quantitativi: se abbiamo 100 contagiati, di cui 80 lievi e 20 gravi, di cui uno muore, lo Stato ideale “tamponi a tutti” trova tutti e 100 i contagiati e quindi riporterà una mortalità di 1 su 100. Lo stato ideale “pochi tamponi” troverà invece solo 20 contagiati, quelli più gravi, e quindi riporterà una mortalità di 1 su 20, ovvero di 5 su 100: cinque volte tanto!
Il modello occidentale è davvero così disastroso?
Se è innegabile che in Occidente i Paesi stiano procedendo in ordine sparso, e che in Italia e Spagna il virus sta facendo una strage, va anche detto che altrove la situazione appare meno drammatica.
La Germania, per esempio, a fronte di oltre di 50.000 contagiati, ha avuto solo 342 morti (fonte: consultata il 27 marzo alle 22:30). “Eppure” è un Paese liberale, federale e con un sistema sanitario abbastanza diverso da quello italiano. E non risulta che abbia fatto ricorso a sorveglianze di massa. Anche in questo caso, come ha spiegato l’inviato della CNN, il “segreto” sta nel massiccio ricorso ai tamponi su larga scala (160.000 a settimana), e soprattutto con tempismo sconosciuto altrove (hanno iniziato ai primi di gennaio).
È la complessità a rendere indispensabile una riduzione della libertà?
Ho voluto iniziare dal caso specifico del contrasto al COVID, ma credo che il concetto si possa allargare, per arrivare alla tesi posta da Bezzi: la complessità comporta inevitabilmente la perdita di libertà.
La sensazione che ho è che, se si procedesse ad analizzare con metodo scientifico tutte le questioni in cui i vari governi hanno giustificato la restrizione delle libertà, l’assunto che essa sia un ostacolo ad altri obiettivi potrebbe uscire parecchio ridimensionato.
Non c’è ad esempio unanimità sull’assunto che all’aumentare del numero di telecamere corrisponda automaticamente maggior sicurezza (si veda questo paper o quest’altro); e ci sono docenti universitari convinti che il contrasto al contante possa non essere così decisivo nella lotta all’evasione fiscale (vd. qui).
La sensazione che ho è che molti governi, nel mondo, semplicemente vogliano aumentare il controllo sui cittadini, e che cerchino di far credere che sia per il loro bene. E contrappongono la libertà alla sicurezza perché è diventato ormai impossibile sostenere che la scelta sia tra libertà e prosperità economica. Eppure, nel corso del Novecento pressoché tutti i regimi dittatoriali si sono fatti strada promettendo che la restrizione delle libertà individuali avrebbe portato a maggiore benessere materiale per le masse; come siano andate le cose è risaputo da chiunque abbia frequentato la scuola dell’obbligo.
È sufficiente osservare una qualsiasi mappa mondiale di un qualunque indicatore economico (qui c’è quella del reddito pro-capite nominale del 2018) per constatare come i Paesi più benestanti siano, guarda caso, democrazie liberali, che oltre ad avere un mercato più o meno libero hanno anche la stampa libera, libere elezioni e perfino libertà di manifestare, scioperare, opporsi a ciò che si ritiene dannoso. Il perché è intuitivo: se chi governa sa di non poter essere rimosso dal proprio ruolo, non avvertirà nessuna esigenza di governare bene.
Se dunque è pressoché impossibile sostenere che a minor libertà corrisponda maggior benessere economico, ecco allora che il dittatore (o l’aspirante tale) deve trovare un altro argomento per convincere i suoi concittadini a rinunciare alla libertà. E deve essere un argomento assai convincente. Quasi inevitabile, quindi, che la scelta ricada sull’unica cosa che il cittadino medio valuta ancor più del portafoglio: la sicurezza. Propria e dei propri cari.
Ciò che non ho mai capito è quale sia il criterio che i governi utilizzano nel solcare la linea di confine tra libertà e sicurezza. Vogliamo mettere le telecamere negli asili perché potrebbe succedere che le maestre picchino i bambini (come purtroppo spesso è accaduto)? E sia. Ma quindi il criterio è che occorre mettere telecamere ovunque vi sia il rischio teorico che venga commesso un crimine? Se è così, alla luce dei dati che abbiamo a disposizione sulla violenza domestica, occorrerebbe mettere telecamere all’interno di parecchie abitazioni private. Così come, in linea teorica, dovremmo far aprire la posta cartacea alla polizia o agli impiegati delle Poste, per verificare che le buste non contengano materiale pedo-pornografico, istruzioni su come aderire a qualche setta satanica o fabbricare bombe.
Il motivo per cui tutto ciò non accade è che i governi sanno benissimo che questo tipo di restrizioni di libertà non sarebbe tollerato, nemmeno dai securitari più fanatici e i profeti del tanto-non-ho-nulla-da-nascondere. Non verrebbe tollerato per il semplice fatto che ciascuno di noi è consapevole (più o meno consciamente) che il rischio zero non esiste, cioè non esiste un livello “ideale” di sorveglianza raggiunto il quale si ha la certezza assoluta che nessuno ci farà del male.
Sappiamo che ogni volta che ci mettiamo alla guida di una macchina potremmo morire in un incidente stradale. Sappiamo che nei bagni pubblici qualcuno potrebbe tagliare cocaina o praticare violenza sessuale su altre persone. Ma (quasi) nessuno sarebbe disposto ad accettare di mettere le telecamere nei bagni pubblici, pur sapendo che ciò che normalmente si fa in un bagno è non solo legale, ma naturalissimo. Si tratta, semplicemente, di chiedersi se il gioco valga la candela.
Tutto sommato, mi tengo il modello occidentale
Alla luce di tutto ciò, per rispondere alla domanda finale (cioè quale dei tre modelli – cinese, russo e occidentale – si preferisca) personalmente continuo a preferire quello occidentale. Con tanto di morti e disastro economico.
Primo, perché i morti, le recessioni economiche e l’incapacità amministrativa sono problemi che hanno sempre toccato anche i regimi, nonostante tutti gli sforzi da parte di questi di nascondere la realtà (ricordate i treni che arrivavano in orario?).
Ma soprattutto, perché se anche fosse vero che un regime è più efficiente nell’amministrare la cosa pubblica, resta il problema cui accennavo sopra: se un giorno il regime dovesse perdere quest’efficienza, i cittadini non avrebbero il diritto di rimuoverlo.