Una volta (già inizio male, lo so… Una volta non c’era la luce elettrica, ci si ammazzava di fatica nei campi e si moriva a 40 anni. Non così tanto una volta, giusto due o tre decenni fa. Va bene?) una volta – dicevo – cosa fosse un linguaggio politicamente corretto non lo sapeva nessuno. Non nel senso che tutti stessimo cercando questo dannato linguaggio e non riuscivamo a trovarlo. No. Semplicemente ci mancava il concetto di ‘linguaggio-politicamente-corretto”. Lui (il linguaggio politicamente corretto) non era concepito, non c’erano modelli per rappresentarlo, e quindi il nostro linguaggio normale era scorrettissimo ma non lo sapevamo. Una cosa che non ci si può credere. Sto leggendo un libro di racconti americani della fine degli anni ‘50 e la parola ‘negro’ viene usata normalmente, non in senso spregiativo ma proprio per dire afroamericano, nero, persona dalla pelle scura i cui avi provenivano dall’Africa. E ricordo tonnellate di libri, anche di autori arcinoti e semmai vincitori di premi Nobel, che nei loro libri hanno utilizzato ‘negro’. E ho letto non pochi libri di attivisti neri dell’America degli anni ’50, ’60, ’70 che usavano ‘negro’, e chi lo scriveva era un nero, un afroamericano. La cosa si complica perché da un lato “negro” (radice latina che significa, semplicemente, nero) è diventato un insulto razziale estremamente offensivo e intollerabile (tanto da generare una pletora di eufemismi, il più idiota dei quali è “N-word” – la parola che inizia con N [e che non si può dire]) mentre, d’altra parte, continua a essere usata e utilizzabile in contesti amichevoli o particolari, come quello della musica rap. Quindi: se conosci il contesto, se sei una persona “giusta” in quel contesto, se la situazione lo permette, puoi dire “negro” fra le risate collettive, che tu sia bianco o nero; se no, ciccia, meglio tu stia zitto. La dicotomia però è pericolosa: chi conosce i contesti, le persone attorno a lui, e semmai anche la musica rap, al punto di utilizzare con sufficiente tranquillità quel termine, capace di sollevare sommosse popolari? Allora, ovvio, meglio stare dalla parte sicura e non usare mai quel termine; e così, anzi, cancelliamolo anche da opere letterarie del passato, come fatto recentemente in una riedizione del celebre Huckleberry Finn (fonte). Certo, è facile capire come l’oppressione secolare dei neri, ritenuti inferiori, educati alla loro (supposta) inferiorità, ha creato una traslazione linguista; poiché i negri sono inferiori, la parola ‘negri’ designa tale inferiorità. Sono, effettivamente e realmente, negri (nel senso di scuri di pelle), ma sono anche inferiori, e quindi ‘negro’ diventa epiteto come in Italia, per analogia, ‘zingaro’, ‘marocchino’ e altri, e la diminuzione sociale si trasforma ovviamente in stereotipi negativi, caricature, barzellette, che continuano a convivere con un uso neutro (nomi di luoghi, per esempio).
Vorrei essere chiaro. Non è il termine ‘negro’ ad essere razzista. Razzista è stato qualche secolo di schiavismo contro persone di origine africana (in questo caso), trattate come bestie, linciate, stuprate e derise. Se quelle persone, anziché nigger di pelle, fossero state blue, oggi avremo il problema col blu. Spero di essere stato chiaro.
I Matti. Quand’ero ragazzo le barzellette sui matti si sprecavano. Era un filone a se stante, come quelle sui carabinieri. Alcune facevano effettivamente morire dal ridere. Ancora non c’era stata Psichiatria Democratica e tutto un filone che si autodefinì antipsichiatria a ricordarci che – diavolo! – i matti non esistono. E si aprirono i manicomi, e tutti vedemmo che terribili lager erano, e scoprimmo che un sacco di brava gente, fra le quali molte donne, era stata rovinata completamente perché indicati come matti e, in realtà, erano tutt’altro. Allora imparammo a chiamarli handicappati mentali, ma era un’altra forma del medesimo stigma, e quindi, arrampicandoci sugli specchi, decidemmo per l’ipocrita, ridicolo, merdosissimo diversamente abili (che guarda caso nasce nell’America puritana – fonte). Questo – se non erro – è il termine attuale, assieme a malato mentale, così come i ciechi sono ‘non vedenti’ (e vorrei vedere!), gli spastici (questo è terribile) sono altri diversamente abili e non oso neppure proporre m…..oidi perché davvero terrificante. Non vi serve un sociologo, o uno psicologo, per capire come e perché fossero oggetto di barzellette: la loro diversità oggettiva rendeva possibile la creazione di situazioni assurde, impossibili da immaginare fra persone normali (oops!), e in quelle battute, in generale, non c’era il disprezzo per il matto, o il disabile, ma la rivelazione di una verità altra, paradossale, e quindi comica. Ma, certo, come per il negro anche qui nasce lo stigma; definire spregiativamente qualcuno come handicappato o peggio significa trattarlo come demente, come incapace. Ancora una volta c’è un bivio, perché alcune di queste parole (‘matto’ certamente) sono tuttora utilizzate nel linguaggio comune e senza particolare connotazione ma, nel dubbio, meglio non sollevare vespai…
Non aprirò l’altra terribile partita sugli omosessuali. Qui ormai si rischia la galera e io sono troppo vecchio per rinunciare alle mie piccole comodità. Men che meno un accenno alle donne e al linguaggio di genere che ha da tempo oltrepassato il confine del giusto, saggio e perfino necessario per dilagare nell’oceano del ridicolo; e qui, veramente, se fossimo in Nord America, già rischierei una denuncia per molestie! Ora: le donne non sono i neri, non sono gli omosessuali, non sono i disabili; qui la questione è assolutamente più sottile e culturale:
il linguaggio riferito ad un solo sesso, quello maschile, può rivelarsi – e secondo noi, si rivela – un potente strumento di oppressione culturale. Perché:
1 discrimina, esclude e nasconde il genere femminile – le donne – in quanto tali
2 sminuisce l’espressione del femminile e la subordina al maschile
3 mortifica, così facendo, le aspirazioni delle donne, ne ridimensiona la componente – maggioritaria – nella società e ne svaluta l’importanza deprezzandone il peso politico (fonte).
Sia chiaro: so che è vero, so che è così, ma altrettanto bene so che si tratta di percezioni connotate nel tempo e nello spazio, strettamente legate a molteplici fattori sociali ed economici che, nell’Occidente post moderno, hanno a che fare con delle inaccettabili disparità oggettive che vengono (ancora una volta) traslate nel linguaggio. Se diciamo ‘Ministra’ anziché Ministro e ‘Ingegnera’ anziché ingegnere, non è che magicamente aumentiamo i/le ministri/e femmine e gli/le ingegnere/i femmine, né contribuiamo in alcun modo a un avanzamento del genere femminile.
Perché il linguaggio politicamente corretto è – in generale – una sciagura? Per una ragione ben nota, già chiaramente indicata da Roland Barthes in una delle sue lezioni parigine: il linguaggio è fascista nel senso che obbliga a dire, e quindi a pensare, e infine a comportarsi, in un determinato modo. Così come ‘negro’ impone una diminuzione alla persone di colore, così come ‘frocio’ tende ad annullare e ridicolizzare l’omosessuale, altrettanto, in senso contrario, fanno – o vorrebbero fare – i termini politicamente corretti. Intendono imporre dei valori attraverso l’uso del linguaggio, che non è meno fascista per questo. Non deve sfuggire il fatto che tutte le morali – nessuna esclusa – sono frutto di convenzioni, di mode, di situazioni sociali generali o di imposizioni del Potere (già Marx aveva ben chiaro questo punto!). Il fatto che sia una cosa buona e giusta trattare da fratelli gli africani, come i cinesi, come gli abitanti di Sgurgola, senza alcuna preclusione di sesso, età, razza, religione, non si definisce tramite l’imposizione di un linguaggio ma con atti concreti, con l’educazione, con la testimonianza attiva di ciascuno. Non è vero il contrario (e questo è ciò che confonde), perché l’uso di un linguaggio spregevole, diminutivo, caricaturale invece incide concretamente sulle persone bersagliate, come ben sanno i populisti demagoghi alla Grillo, che hanno ampiamente fatto ricorso a tale linguaggio.
Non vorrei avvitarmi in questa discussione: se dico ‘negro’, oggi, con quello che succede in America e non solo, probabilmente sottintendo una concezione razzista, ma se correggo Huckleberry Finn, probabilmente sono uno stupido che non si accorge di imporre una sua regola linguistica. Se dico ‘frocio’ sono certamente un intollerante con problemi di identità sessuale, ma se spalmo omosessualità a destra e a manca per affermare, sottolineare, ribadire contro ogni necessità logica che “omosessuale è bello”, ho abbandonato la strada maestra per cercare di imporre una logica esterna all’esperienza della maggioranza delle persone. Così infine, se la furia del linguaggio di genere porta a cambiare favole ritenute sessiste (queste cose sembrano capitare più in Francia che da noi – ne abbiamo parlato tempo fa), non si fa alcun bene alle donne, non si avanza di un passo verso la loro emancipazione e si fa, semplicemente, un’operazione stupida. O fascista, che poi è spesso la stessa cosa.
Il linguaggio è uno strumento potente di affermazione, di definizione del mondo, di imposizione di comportamenti, di identità, e di orientamento per i valori delle persone. Da migliaia di anni viene usato per manipolare le persone, e non serve necessariamente una regia, un Grande Vecchio malefico che architetti un complotto linguistico. Bastano decine, e poi centinaia, di piccoli eventi, tutti prodotti da piccole morali e tutti, nel loro piccolo, “giusti”, per dilagare, essere incanalati, diventare seduttivi, poi necessari, poi obbligatori, e la lingua ne diventa strumento. Uno strumento terribile di oppressione.
#NonOmologatevi!
Aggiunta postuma
Questo articolo è stato scritto il 3 luglio e pubblicato solo il 10 luglio per decisioni editoriali relative alla programmazione dei vari pezzi. Non ha quindi potuto tenere in conto la lettera contro il “conformismo ideologico”, pubblicata il 7 del mese sull’Harper’s Magazine e firmata da molte decine di intellettuali, attivisti, giornalisti, scrittori di area anglosassone. Il passaggio chiave del testo è probabilmente il seguente:
Le forze illiberali stanno guadagnando terreno in tutto il mondo e hanno un potente alleato in Donald Trump, che rappresenta una vera minaccia alla democrazia. Ma non si deve permettere alla resistenza [contro le ingiustizie razziali] di indurirsi nella forma di dogma o coercizione, che i demagoghi di destra stanno già sfruttando. L’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se parliamo contro il clima intollerante che si è manifestato da tutte le parti.
La lettera parla senza mezzi termini di “accecante certezza morale” della dilagante intolleranza e delle chiare conseguenze pratiche, dell’ostracismo e delle censure già in atto, oggi, proprio ora. La lettera si conclude con un appello:
Il modo per sconfiggere le cattive idee è attraverso l’esposizione, l’argomentazione e la persuasione, non cercando di zittire o desiderare di allontanarle. Rifiutiamo qualsiasi scelta falsa tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra. Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lasci spazio alla sperimentazione, all’assunzione di rischi e persino agli errori.
Questa importantissima presa di posizione, di cui c’era estremo bisogno, non ha avuto sufficiente eco in Italia se non da parte di Pierluigi Battista che l’ha commentata sull’HuffPost giusto ieri, 9 luglio. Caterina Giojelli, su “Tempi”, segnala come i firmatari dell’appello siano già oggetto di pesanti critiche e ritorsioni.
Attenzione: in Italia non si sono abbattute statue (anche se qualcuno ha fatto la mossa) e la punta di diamante del dibattito sul linguaggio transfobico è stata un’intervista di Platinette sul quotidiano di Belpietro, “La Verità”; una tacca più su di una gag da cabaret… Ma questo non accade perché da noi, in Italia, ci sia più libertà ma semplicemente perché c’è assai più omologazione e assai poco pensiero liberale.
L’allarme, finalmente, è stato lanciato da qualche coraggioso; oltreoceano. È ora di alzare la testa anche in Italia, prima che l’oscurantismo prevalga definitivamente.
(Aggiunta del 9 lug 2020)
