Se qualcuno cercasse un esempio perfetto del caos in cui versa la comunicazione ai nostri tempi (lontanissimi da quelli in cui la Rai era il minimo comune denominatore dell’informazione e la DC era l’azionista di maggioranza della Rai), non potrebbe trovare di meglio che fotografare la situazione di oggi relativamente al Covid-19. Leggiamo quotidianamente notizie su nuovi casi di positività al virus, spesso relativi a giovani di ritorno da vacanze all’estero; poi incontriamo le esternazioni di alcuni addetti ai lavori che dicono che il virus è “clinicamente sparito”; quindi leggiamo le proteste di coloro che accusano il governo di mantenere artificialmente alto l’allarme per poter continuare a esercitare poteri emergenziali, o addirittura anticostituzionali; infine, i dati (di pessima qualità, ahimè) che quotidianamente ci vengono forniti dall’Istituto Superiore di Sanità mostrano una crescita dei positivi ma non dei decessi, e vengono letti in modo opposto da commentatori anche stimabilissimi (alcuni anche meno che stimabilissimi). Il tutto in una “Fase 3” nella quale il governo ormai ha palesemente abdicato al compito di dettare regole precise e lascia che siano i cittadini a doversi comportare con buon senso, il che è un modo francamente pilatesco di governare. Dove sta la verità? Hanno ragione i Drammatizzatori o i Minimizzatori?
Inutile dire che una verità in sé e per sé non esiste: si può cercare di dare risposte più o meno attendibili a domande diverse, e queste risposte saranno diverse. Riconciliare il tutto in una visione complessiva e non schizofrenica è un’impresa, e un’impresa che non mi pare stiano tentando in molti. Proverò almeno ad abbozzarla qui, facendo ovviamente ampio utilizzo di dati e analisi altrui.
Domanda: come sta evolvendo il numero di contagi? Risposta: i dati, pur presi con tutta la cautela possibile, visto che come sempre i test non sono somministrati in modo coerente né tra regioni diverse né, per la stessa regione, in momenti diversi, dicono che sono in aumento. Parlo qui di positivi conclamati al virus, indipendentemente dalla loro sintomatologia.
Domanda: come sta evolvendo il numero di ricoverati? Risposta: i ricoverati, sia in reparti ordinari sia in terapia intensiva sono in aumento, meno accentuato di quello relativo ai positivi in generale. Per capire la situazione, penso sia utile il grafico qui sotto:

Come si vede, mentre il numero dei nuovi casi positivi è in rapida crescita (rispetto al valore più basso, del 14 luglio, il più recente, del 14 agosto, è oltre il quintuplo), il numero dei ricoverati, e quello dei ricoverati in terapia intensiva, cresce più lentamente, ma è incontestabile che la tendenza decrescente che era durata fino a fine luglio (forse anche per la “coda” di dimissioni di pazienti ricoverati in settimane e mesi precedenti) sia stata invertita e sia ora crescente, e mostri una concavità verso l’alto, ossia cresca in modo più che lineare (nota: le linee di tendenza, basate su polinomiali, sono calcolate con Excel). Per i decessi, la discesa si arresta ugualmente verso fine luglio, ma è difficile individuare una linea di tendenza chiara all’interno delle oscillazioni successive, con valori giornalieri prevalentemente tra 5 e 10. In sintesi: qualche ragione di allarme i Drammatizzatori ce l’hanno.
Domanda: è vero che i malati sono sempre più giovani? Risposta: sì e no. È vero che i positivi rilevati dai test sono sempre più giovani, ma questo non vuol necessariamente dire che i malati, e i malati gravi, per non parlare dei deceduti, siano sempre più giovani. Ma vediamo, come sempre, un po’ di dati: mentre l’età mediana dei positivi al virus dall’inizio dell’epidemia è di 61 anni, quella calcolata sui casi degli ultimi 30 giorni è di soli 37 anni (per questo e altri dati faccio riferimento al sito dell’Istituto Superiore di Sanità). Ma, e in questo hanno ragione i Minimizzatori, essere positivi non vuol dire essere malati, e tantomeno essere malati gravi: come afferma l’ultimo report dell’ISS aggiornato al 4 agosto, «si evidenzia, in percentuale, un netto incremento dei casi asintomatici o pauci-sintomatici».
In realtà, se consultiamo la sequenza dei documenti dell’ISS che analizzano i dati sui deceduti (per strano che possa sembrare, non li ho trovati sul sito dell’ISS ma su quello della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria), di cui, nel momento in cui scrivo, l’ultimo è ancora quello datato 22 luglio, troviamo degli spunti interessanti; per comodità, ho riassunto alcuni dati rilevanti nella tabella qui sotto:

Tanto per rendere le cose più complicate (ho già detto che la qualità dei dati messi a disposizione sul Covid è disastrosa?), i documenti non scorporano i dati dell’ultimo periodo e forniscono solo quelli cumulati; le colonne che nell’intestazione includono “nel periodo” sono calcolate da me sottraendo i dati cumulati alla data N da quelli cumulati alla data (N + 1). Ebbene, si può osservare che:
- L’età dei positivi tende effettivamente a scendere; dato che quella riportata è la mediana relativamente ai casi cumulati, è evidente che nell’ultimo periodo il calo è significativo, come peraltro visto prima;
- A questo calo dell’età dei positivi, però, non corrisponde un calo dell’età dei deceduti, che anzi tende a salire, sia pure marginalmente, attestandosi come mediana a 82 anni;
- A questo aumento dell’età dei deceduti si accompagna un altro fenomeno (che non ho visto citato da nessuno), ossia l’inversione dell’incidenza delle vittime tra uomini e donne: dato che le donne sono molte più degli uomini nelle fasce di età più anziane, al crescere dell’età dei deceduti cresce la percentuale di deceduti donne, che a partire da fine maggio ha superato quella degli uomini. D’altronde, le stesse analisi confermano che le donne che muoiono di Covid hanno mediamente sei anni più degli uomini (85 le prime, 79 i secondi).
Domanda: ma il lockdown è stato davvero efficace? E c’era bisogno di sottoporre a lockdown tutto il paese? Risposta: sì, e penso di sì.
Per affermare che il lockdown sia stato efficace, approfitterei di un articolo appena pubblicato su lavoce.info, nel quale, usando sostanzialmente un’analisi di tipo statistico, l’autore conclude che, concentrandosi sul periodo immediatamente successivo al lockdown, è evidente l’inversione di tendenza (da crescente a decrescente) sia relativamente ai ricoveri in terapia intensiva sia ai decessi, con uno sfasamento temporale coerente con quanto si sa sui tempi di incubazione della malattia. A titolo di esempio, riporto qui sotto il grafico relativo ai ricoveri in terapia intensiva.

Se questo articolo si “limita” a stimare in oltre 7.000 i decessi evitati solo nei primi 15 giorni successivi all’inversione della curva, altri studi più complessi fanno riferimento a cifre molto più alte, sia per l’Italia che per altri paesi che hanno fatto ricorso al lockdown. Cito solo un articolo apparso su Nature, che stima per l’Italia che il lockdown abbia evitato oltre 2 milioni di casi di Covid-19 (v. diagrammi qui sotto), e quindi (dico io) molte decine di migliaia di morti, se non di più.

In generale, mi sentirei di dire che esiste un consenso abbastanza ampio sul fatto che la scelta di applicare il lockdown abbia ridotto in modo importante le vittime dell’epidemia, in Italia e non solo. Un articolo di qualche mese fa su Business Insider riassumeva alcune tra le principali evidenze circa l’efficacia delle misure internazionali di Lockdown, trovo che sia ancora una lettura utile.
Molto più complicato è stabilire se fosse necessario, e opportuno, applicare il lockdown a tutto il territorio nazionale anziché alle sole regioni più duramente colpite, e non credo di poter dare qui una risposta sufficientemente “robusta”. La discussione in materia è stata recentemente alimentata dalla notizia che, in uno dei verbali di cui il governo, a mio avviso ingiustificatamente, aveva chiesto la secretazione (potete trovarli sul sito della Fondazione Einaudi), il Comitato Tecnico Scientifico aveva raccomandato misure differenziate tra (sto semplificando; trovate l’elenco preciso nel verbale del 7 marzo) le regioni e province del Nord più colpite, da sottoporre a un lockdown più rigoroso, e tutte le altre, per le quali erano comunque consigliate misure precauzionali, ma meno restrittive. Il Centro-Sud è stato quindi sottoposto a un sacrificio inutile?
Difficile rispondere; farei però due considerazioni, che capisco non essere risolutive:
- La decisione sul lockdown è stata, e doveva essere, politica. Quali che fossero le ragioni “tecnico-scientifiche”, alla fine il compito di un governo è bilanciare le diverse esigenze e tenere conto di fattori complessi, non sanitari, che il CTS non poteva né doveva considerare. Faccio solo un esempio: supponiamo che un’azienda di Palermo produca il prodotto X utilizzando il componente Y fornito da un’azienda di Milano, o viceversa: è chiaro che “chiudere” le attività a Milano e non a Palermo significa comunque bloccare entrambe, mentre un’azienda palermitana che collabori con una, che so, napoletana, sarebbe in grado di lavorare. Le filiere produttive e commerciali non conoscono i confini amministrativi delle nostre Province e Regioni, e tentare di far funzionare la produzione in una provincia fermandola magari in un’altra confinante richiederebbe (per non creare micidiali distorsioni del mercato) una conoscenza del tessuto produttivo italiano e una perizia che ritengo inconcepibili per il nostro attuale governo, o per le attuali opposizioni che sono persino peggio del governo (basti pensare all’indecente balletto del “chiudete tutto” e “aprite tutto” di Salvini).
- Secondo me, e capisco che il mio parere in merito possa non essere particolarmente autorevole, di fronte a un fenomeno potenzialmente esponenziale più che la sua dimensione attuale conta la velocità con cui cresce. Sono bastate un paio di settimane di crescita esponenziale incontrollata, prima che si prendessero misure di contenimento rigorose, per devastare il Bergamasco; correre il rischio che accadesse lo stesso in altre aree del Paese, dove magari al momento il numero dei casi era basso, sarebbe stato un azzardo enorme.
Questo vuol dire forse che qualunque misura restrittiva sarebbe giustificata, pur di ridurre i rischi per le vite umane? A mio avviso no: per ogni pericolo esiste un livello di rischio accettabile, di solito dipendente dai benefici che possono derivare dal correre quel rischio (ovviamente, se il beneficio non c’è, qualsiasi rischio è inaccettabile). Purtroppo, una vera analisi costi-benefici del lockdown non è mai stata neanche tentata, il che considerato che i costi sono enormi è certamente increscioso. Chi sostiene che i costi sociali del lockdown sono stati considerati per definizione irrilevanti rispetto ai benefici sanitari, mentre non lo sono, ha ragione (anche se per serietà gli competerebbe indicare come avrebbe calcolato ex ante i costi sociali).
Domanda: il Governo ha abusato dei suoi poteri? Ha violato la Costituzione? Risposta: penso nella sostanza di no, ma la domanda cela un problema anche più ampio, quello della reale natura ed esigibilità concreta dei diritti civili. Lasciando la questione puramente giuridica agli specialisti (le procedure e gli strumenti usati dal Governo erano e sono adeguati alla restrittività delle misure adottate?), credo che in realtà la sospensione di alcuni diritti (ad esempio la libertà di movimento) fosse necessaria, fatta salva la discussione, pratica e non giuridica, sulle limitazioni temporali e geografiche di questa sospensione.
Il problema più serio è che però emerge un conflitto sostanziale tra l’enunciazione di diritti inalienabili dell’individuo e limiti concreti all’esigibilità di tali diritti specialmente in momenti di crisi collettiva (che però è quando i diritti “servono” di più, no? Quando si sorseggia un cocktail al Country Club di Montecarlo non si sente il bisogno di rivendicare i propri diritti inalienabili). Su questo conflitto possibile ho scritto un articolo con molti dubbi e poche risposte. Molto, secondo me, resta da dire; quanto alla questione contingente, è chiaro che bisogna ora dichiarare superata l’esigenza di limitare la libertà personale, passando definitivamente dalla fase in cui le norme del governo dicevano cosa si potesse fare e cosa no, a quella in cui si dica solo come si possano fare le cose (garantendo cioè quelle misure precauzionali ancora necessarie). Le scuole, gli uffici pubblici, le chiese, i teatri e i cinema devono riaprire, con dei regolamenti adeguati. Alcune limitazioni potranno restare, se legate a rischi davvero ingiustificati (passare una settimana nelle discoteche in Croazia, senza nessuna precauzione e insieme a migliaia di persone provenienti dai quattro angoli del mondo, non è un diritto inviolabile della persona).
In conclusione, non vorrei dare l’impressione di collocarmi in un solo apparentemente salomonico “giusto mezzo” tra Drammatizzatori e Minimizzatori. La sintesi a cui alludevo all’inizio a mio avviso deve oggi essere: se per mesi le considerazioni di salute pubblica sono state prevalenti su quelle economiche, ora deve valere il contrario. Ipotesi, come quelle ventilate anche dalla Fondazione Gimbe, di ritorno al lockdown a causa della ripresa dell’epidemia (che pure, abbiamo visto, è un dato reale), sono assurde. Indietro non si può tornare. Ma nonostante questo, anzi, proprio per questo, non possiamo dimenticare il rischio. Le curve di tendenza di ricoveri in ospedale e terapie intensive non sono rassicuranti e richiedono di mantenere le cautele (che peraltro non hanno costi economici reali) che possono consentire di evitare una ripresa non solo del virus ma anche delle paure a esso associate. Chi oggi dice che vuole “dimenticare il Coronavirus” sta in realtà facendo il possibile per costringere se stesso e gli altri a doversene ricordare ancora a lungo.