Di chi sono i miei diritti?

Se c’è una riflessione che questa lunga crisi dovuta alla pandemia da Covid-19 mi impone, distraendomi da altri, cupi, ragionamenti su cosa attenda noi italiani una volta che gli effetti economici di questa situazione si manifestino appieno, è quella sui nostri diritti di cittadini. I diritti sono infatti, a mio avviso, un concetto estremamente scivoloso, sovraccarico di secoli di proclamazioni spesso enfatiche, di lotte, di programmi politici tipicamente intesi a estendere i diritti dei cittadini (più frequentemente, di alcune categorie di cittadini), difficile quindi da trattare senza cacciarsi in qualche polemica senza uscita (come si fa a mettere in discussione il concetto stesso di diritto?). D’altronde, qui su Hic Rhodus di diritti abbiamo parlato moltissimo, a partire da un articolo di Claudio Bezzi in cui già si diceva, giustamente, che la complessità sociale del mondo contemporaneo rende in pratica assai difficile maneggiare il tradizionale concetto di diritto. Lo stesso Claudio in un recente articolo ha esteso queste considerazioni applicandole appunto al lockdown e alle contestazioni che lo hanno accompagnato (e soprattutto seguito). Ma questo è già un punto più avanzato rispetto all’origine del ragionamento che vorrei proporre.

Il punto da cui vorrei, invece, partire è una constatazione, resa possibile appunto dalla crisi prodotta dalla pandemia. Tutti noi, normalmente, siamo convinti di essere titolari di un certo numero di diritti inviolabili. Così, anche, li chiama, nel suo articolo 2, la nostra Costituzione, che cita esplicitamente molti diritti: diritto alla libertà di movimento in Italia e fuori, alla libertà di professare una religione anche tramite cerimonie pubbliche, alla libertà di riunirsi in luoghi privati, anche aperti al pubblico, a ricorrere in giudizio per la difesa dei propri interessi legittimi, alla salute, all’educazione dei figli, all’istruzione pubblica, al voto e all’associazione in organizzazioni politiche, alla proprietà privata e all’impresa.

Ebbene, penso sia chiaro a tutti noi che praticamente tutti questi diritti sono stati sospesi o limitati durante la crisi dovuta al Covid-19. Ho già scritto un articolo relativo al diritto alla salute, e penso non sia necessario discutere degli altri uno per uno. Di fronte a questo fatto inequivocabile, abbiamo assistito a reazioni molto diverse, dall’estremo dei fan (e delle fan) del Presidente del Consiglio nella sua veste di “emanatore di DPCM”, a quello di chi ha denunciato a gran voce una gravissima violazione della nostra Costituzione (che peraltro in genere rinvia alle leggi ordinarie normare e limitare l’esercizio dei diritti dei cittadini) fino a voler processare lo stesso Conte per alto tradimento.

Ora, se in Italia ci fosse davvero stata una svolta autoritaria e Giuseppe Conte fosse un dittatore capace di calpestare arbitrariamente i diritti dei cittadini, la situazione sarebbe, paradossalmente, più semplice. Ma dato che, senza voler entrare in una discussione giuridica, credo che così non sia, e visto che anche i più feroci critici del governo contestano aspetti specifici delle sue scelte, o la forma istituzionale delle deliberazioni prese, vorrei sostenere che questa inapplicabilità dei diritti inviolabili in una fase di grave crisi non rappresenta la “normale” conseguenza di un’emergenza, come a maggior ragione potrebbe essere una guerra, ma la spia che nella nostra nozione di diritto inviolabile c’è qualcosa che non va.

Sì, perché in fondo i diritti inviolabili dovrebbero essere tali anche, se non soprattutto, durante le crisi, no? Se davvero rappresentassero il naturale patrimonio di ogni cittadino, incondizionato e inalienabile, non dovrebbe accadere mai che uno Stato moderno, democratico e obiettivamente non dispotico si trovi nella condizione di poter e dover legittimamente (ancora una volta, non intendo in senso strettamente giuridico) sospenderli. Il fatto che questo accada, invece, dipende a mio avviso dal fatto che la nozione illuminista, giusnaturalista, di diritto naturale e inviolabile non è realistica. Si tratta, come già suggerivo nell’articolo citato, di un’astrazione, di un modello, che, come tutti i modelli, è utile e “funziona” solo entro certi limiti. E il problema è che questa nozione ha ormai tradizionalmente lo status di pietra angolare sulla quale è, o meglio ci appare, costruito l’intero edificio dello Stato Liberale, oltre che le istituzioni sovranazionali. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si apre proprio con questa solenne affermazione:

Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.

Questa è stata, storicamente, la preziosa funzione della nozione di diritto individuale: fornire un fondamento alla costruzione delle istituzioni liberali e democratiche, nazionali e internazionali. Fin dalla sua origine, l’unico limite riconosciuto ai diritti individuali inviolabili è il possibile conflitto con gli analoghi diritti degli altri cittadini. Il guaio è che questa affermazione molto generale diventa di difficilissima interpretazione all’interno della complessità sociale descritta nei post di Claudio Bezzi a cui ho già fatto riferimento. Se è vero che i bambini hanno diritto all’istruzione, questo diritto può trovarsi in contraddizione con il diritto del personale scolastico a proteggere la propria salute; se ogni cittadino ha diritto alla riservatezza circa il proprio stato di salute, gli altri cittadini, che potrebbero incontrarlo ignari della sua condizione, non hanno forse il diritto di sapere se la persona a cui stanno per stringere la mano sia portatrice di una pericolosa malattia? E così via, attraversando il diritto degli imprenditori a impiegare i propri capitali e i propri mezzi e il diritto dei dipendenti a un ambiente di lavoro salubre, il diritto dei fedeli a riunirsi per celebrare i propri riti e il diritto dei loro concittadini a prevenire pericolosi focolai epidemici. E così via.

La verità è che, salvo quando problemi non ce ne sono e c’è abbondanza di risorse per tutto e tutti, praticamente nessun diritto è davvero tale. I diritti sono una sorta di comoda abbreviazione per rappresentare degli interessi legittimi e anzi basilari, che però, proprio in quanto interessi, e a differenza del modello astratto di diritto incondizionato, entrano per definizione in contrasto con altri interessi, anch’essi spesso “rivestiti” dell’utile etichetta di diritti. Finché si rimane all’interno di questo schema, alla fine il riconoscimento reale di questo o quel diritto sarà inevitabilmente l’esito più o meno mascherato di un rapporto di forza, perché non esiste un metodo per risolvere operativamente il conflitto tra diritti inviolabili. Il risultato è che (ad esempio) l’app Immuni per il tracciamento dei contatti a rischio, inizialmente sottoposta a un bombardamento di critiche sia giustificate che pretestuose, è alla fine stata realizzata privilegiando il diritto alla riservatezza a scapito del diritto all’informazione sul rischio, salvo essere, anche per questo, ulteriormente criticata perché “inutile”.

E allora? A quale conclusione arrivare alla fine di questo articolo? Premesso che non ho certo la pretesa di offrire una soluzione a questo complesso problema (ammesso che vi abbia convinti che un problema c’è), vorrei proporre alcune idee in merito:

  1. Accettare e riconoscere esplicitamente il conflitto di interessi che di solito si cela dietro ogni discussione sui diritti. Il conflitto di interessi è una cosa normale, anche inevitabile; ignorarlo significa svolgere ogni dibattito in uno spazio “virtuale”, tutto astratto e lontano dai “casi d’uso” reali.
  2. Comprendere che, inevitabilmente, i diritti possono essere subordinati gli uni agli altri. Affermare l’assolutezza di tutti i diritti significa in realtà creare le condizioni per effettuare di volta in volta un cherry picking di quelli più politicamente “convenienti” da riconoscere in pratica.
  3. Prendere atto che nella maggioranza dei casi i diritti, anche quelli prioritari, non sono incondizionati, ma devono fare i conti con le risorse disponibili per attuarli. I diritti che comportano costi per la collettività non si “garantiscono” a parole: si investe in essi, e più e meglio ci si investe e più saranno realmente fruibili. Il diritto all’istruzione e quello alla salute sono due esempi chiarissimi.
  4. Ricercare formulazioni diverse e nuove per la dialettica sui diritti, in particolare per tenere conto della complessità delle relazioni sociali che non consente più di ragionare come se le azioni di ogni cittadino fossero un fatto isolato o al massimo inserito in un rapporto uno-a-uno con il suo “prossimo”. Le reti sociali fanno sì ormai che il nostro comportamento abbia effetti distribuiti e irriducibili, e la politica non può ignorare questa complessità. Invece (solo per fare un esempio) la legislazione sulla tutela dei dati personali non tiene in nessun conto la possibilità che la riservatezza di alcuni dati personali possa provocare danni anche gravissimi, o letali, a terzi. È ragionevole questo?

Infine: tutto questo discorso non rischia di indebolire la tutela dei “legittimi interessi” delle persone? Relativizzare quelli che oggi vengono definiti diritti inviolabili non può in concreto sottrarre importanti armi giuridiche e politiche alla lotta contro le sopraffazioni? Oggi il mondo, nonostante gli eccessi di retorica sui diritti, non pecca certo di eccesso di garanzie, e l’esistenza di carte costituzionali basate sui diritti e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo rappresenta, oltre che una base giuridica per perseguire violazioni anche su base internazionale, una fortissima egida simbolica a protezione dei più deboli. D’altronde, queste mie considerazioni non hanno certo lo scopo di riscrivere le norme fondanti delle istituzioni; mi basterebbe aver suggerito uno spunto di riflessione che superi la polarizzazione tra governisti e antigovernisti.