No, nonostante l’immagine che ho scelto per l’apertura di questo articolo, non sto per proporvi un excursus nel cinema ideologico dell’Unione Sovietica. Il totalitarismo di cui parlo si è anzi gloriosamente insediato nella roccaforte dello show business cinematografico, quella Hollywood che sta evidentemente per rivivere i fasti del maccartismo, sia pure con tutt’altre bandiere a sventolare dai pennoni degli studios.
La ragione per cui sto scomodando paragoni storici così infausti è un comunicato dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, ossia l’organizzazione che ogni anno assegna gli Oscar ai film più belli e agli attori più bravi. O forse assegnava, dovrei dire? Vediamo di che si tratta.
L’Academy ha stabilito che dal 2024 potrà essere scelto come miglior film dell’anno solo uno che soddisfi almeno due dei seguenti quattro criteri (che sintetizzo per ragioni di spazio):
1) Avere tra i protagonisti principali del film un attore o attrice appartenente a un “gruppo etnico sottorappresentato”, o avere come tema centrale del film una vicenda centrata su donne, persone LGBTQ+, o dei suddetti gruppi etnici, o disabili (i sordi sembra siano un caso particolare).
2) Avere tra i capi del team creativo e/o tra il personale tecnico un’appropriata presenza di donne, gruppi etnici sottorappresentati, LGBTQ+, disabili, ecc.
3) Avere nella casa di distribuzione o di produzione un’appropriata presenza ecc. ecc.
4) Avere tra i capi delle attività di promozione e marketing un’appropriata presenza ecc. ecc.
Ora, francamente che tra il personale della casa di produzione di un film a cui sto assistendo ci sia o non ci sia un hawaiano duro d’orecchi, o un transgender nordafricano è cosa che, confesso, non mi è mai interessata e continuerà a non interessarmi. Se per continuare a lavorare un direttore della fotografia comincerà a portarsi dietro un cornetto acustico, o un direttore marketing manderà due dozzine di rose rosse al tecnico del suono, pazienza, problemi loro.
Quello che è terrificante, invece, è il primo degli standard stabiliti dall’Academy (e, incidentalmente, il fatto che li chiamino standard è assolutamente sinistro): in pratica, un film se non parla di “questo” e non ha tra i protagonisti “quello” non può essere premiato. E la cosa fantastica, spettacolare nella sua colossale ipocrisia, è che questa dichiarazione di totalitarismo culturale è fatta in nome dell’inclusività.
Faccio un inciso: personalmente, sono ormai convinto che ogni volta che qualcuno invoca la parola inclusivo lo fa per imporre una discriminazione. Non c’è cosa più divisiva dell’inclusività della correttezza politica, un po’ come era democratica la Germania Est o come era Santa l’Inquisizione spagnola. Qualsiasi buona intenzione potesse animare gli iniziatori dell’utilizzo di questa parola è ormai stata sovvertita per renderla invece un’arma contundente contro chi non è uniformato al pensiero unico della political correctness. Fateci caso.
Uscendo dall’inciso, in pratica l’Academy, con un atto burocratico (e anche questo è un tratto ricorrente del totalitarismo), dichiara che sono inclusive solo le opere artistiche che rispondono a un determinato standard, e che tutte le altre non meritano di essere prese in considerazione. Non vale neanche la pena di stare a discutere se davvero, ad esempio, le storie femminili o gli attori afroamericani siano “sottorappresentati” nei film delle grandi case di produzione; una direttiva di questo tipo è esattamente equivalente alla dottrina sovietica che imponeva determinati temi e determinati protagonisti ai cineasti progressisti. Naturalmente, le autorità sovietiche (o il maccartismo sul versante opposto della guerra fredda) imponevano la loro ideologia con la forza dell’autorità politica, ma Hollywood può fare la stessa cosa con le armi che più si addicono a un’industria capitalistica, ossia controllando il “bollino” che garantisce a un film di diventare un successo globale. Quale major investirà in un film non inclusivo e che non sia conforme agli standard scelti per gli Oscar?
Come dicevo, mi sembra inutile mettersi ad analizzare uno per uno gli standard, ad esempio per chiedersi quali dei film selezionati per gli Oscar negli ultimi anni sarebbero conformi allo standard n. 1 (Piccole Donne e Parasite sì, Le Mans ’66 no?); la questione è indipendente dal contenuto effettivo dei modelli narrativi imposti dall’ideologia dell’inclusività. Allo stesso modo, non entrerei in possibili escamotage che si potrebbero usare per aggirarli: non è questo il punto. Il punto è che quando un’istituzione decide quali temi e quali modelli debbano essere promossi e quali accantonati, indipendentemente dalla qualità artistica dei prodotti, ci troviamo di fronte a una classica strategia di propaganda totalitaria. Naturalmente, questa strategia non nasce con la decisione dell’Academy, né si limita al settore cinematografico: negli ultimi mesi, e ne abbiamo parlato più volte anche su Hic Rhodus, l’invadenza della political correctness è diventata soffocante. Agli episodi di discriminazione, assolutamente reali a livello di vita quotidiana, “della strada” se posso usare un’espressione impropria, che in linea generale i “gruppi sottorappresentati” subiscono (non solo in USA), la strategia che sto chiamando totalitaria oppone, a livello delle istituzioni e della leadership culturale, sue discriminazioni di tutt’altro segno, che non sono meno inique perché ammantate di un’aura di inclusività.
Il risultato è che chiunque, in buona o cattiva fede, può dichiararsi vittima di discriminazioni a qualsiasi livello, informale o normativo, istituzionale o popolare, nella cultura “alta” o in quella “bassa”. E questo risentimento può essere sfruttato, e lo è, da tutta una varietà di soggetti politici che tentano di convogliare a proprio vantaggio la polarizzazione che la political correctness accentua anziché riequilibrare, come teoricamente dovrebbe. Il successo di Trump nelle elezioni del 2016 non fu dovuto solo alle azioni di disinformazione rese possibili da Cambridge Analytica & C. (che pure ci sono state), ma da un effettivo malessere dell’elettorato maschile e bianco della classe media che era evidente anche da altri segnali (ad esempio, come abbiamo visto già in un nostro articolo del 2018, da un incremento dei tassi di suicidio in quelle fasce di popolazione). Decisioni come quelle dell’Academy non comportano solo il rischio di ritrovarci con una generazione di film “sovietizzati”: sono un pericolo per la democrazia in senso più ampio.