Un’interessante analisi di Giovanni Orsina mi induce a riproporre alcune riflessioni, piuttosto in linea con lui ma con un’angolazione leggermente differente.
In breve, scrive Orsina che per ragioni di natura storica, in Italia, i luoghi di produzione e riproduzione della cultura (università, magistratura, editoria, burocrazia… che Orsina appella col termine gramsciano di ‘casematte’) sono in mano alla sinistra o, quanto meno, al pensiero “non di destra” (che è in effetti più corretto). Ma queste “casematte” del pensiero elitario non sono state capaci di costruire un legame organico e robusto col popolo.
oggi il legame fra élite e popolo è tutto tranne che robusto. Al contrario, si può forse sostenere che di rado nella storia sia stato tanto labile. Le casematte della nostra epoca e il pensiero non-di-destra che le occupa l’egemonia la esercitano prevalentemente su se stesse e sui propri clienti. Poiché sono casematte ricche, la loro clientela è vasta. Ma una parte molto ampia del popolo, una componente a tratti maggioritaria, le ignora nel migliore dei casi, le disprezza e detesta nel peggiore.
Da questa analisi dipende una conseguente situazione di marginalità della destra:
La doppia dinamica creata dalla vittoria e dalla sconfitta di Gramsci stritola la destra moderata. Nelle casematte è in netta minoranza. Non solo: lì dentro è tollerata perché la maggioranza vuol darsi una vernice di pluralismo, ma soltanto a condizione che si rassegni alla propria marginalità. Al di fuori delle casematte imperversa invece un’altra destra, necessariamente immoderata sul terreno della realtà e ancor di più su quello della rappresentazione. Sul terreno della realtà perché è priva di una guida intellettuale che la vertebri e nobiliti, ed è quindi destinata a manifestarsi in forme grezze e istintive. E sul terreno della rappresentazione perché quello lo controllano le casematte.
Orsina poi spiega perché un regime liberale e democratico abbia bisogno di una destra e di una sinistra, moderne e costruttive, per dar vita a una dialettica positiva e funzionale alla democrazia e al Paese.
Con un po’ di memoria storica possiamo rammentare che una destra di questo genere, in Italia, esisteva nella troppo bistrattata Prima Repubblica. Se togliete al termine ‘destra’ i connotati di squadraccia, volgarità, sovranismo che oggi hanno (per le ragioni rammentate da Orsina), la tradizione del pensiero liberale in Italia si fonde con quello azionista, che ha avuto nel partito liberale (meno) e in quello repubblicano (di più) due esempi di destra democratica, di governo. A quell’epoca svariate notissime vicende nazionali e internazionali ingabbiavano la politica italiana, e quei due partiti furono sempre e solo di opinione, e mai di massa, ma a buon diritto possiamo sommare a loro una parte di esponenti democristiani e financo socialdemocratici per disegnare un’area, assai più vasta, di pensiero che si opponeva a quello comunista, perché in quegli anni la partita era quella… Se gli eredi di quel comunismo si sono evoluti e trasformati nel moderno partito socialdemocratico guidato da Zingaretti (che ora è involuto in forme populiste più primitive, ma questo è un altro discorso), allora quelle componenti anti-comuniste avrebbero potuto diventare un moderno partito liberale (semmai con un altro più fantasioso nome, come usa oggi). Perché non è avvenuto?
Per due ragioni: alla batosta di Mani Pulite il vecchio sistema politico non seppe rispondere, lasciando praterie libere a un imprenditore spregiudicato come Silvio Berlusconi che era, da un lato, pressato da ragioni impellenti per sfuggire a problemi personali e aziendali, e dall’altro aveva lo straordinario potere delle televisioni, in un mercato della comunicazione che si era appena aperto, in Italia, e che aveva a disposizione milioni di potenziali elettori che vi si abbeveravano. Un mix straordinario, un’occasione irripetibile che Berlusconi seppe molto scaltramente prendere al volo. E Berlusconi si è sempre auto raffigurato come un liberale, tant’è vero che moltissimi di coloro che abbiamo menzionato (liberali, repubblicani, socialdemocratici…) affollarono le sue liste elettorali.
La seconda ragione è che lo stesso sconquasso (fine del vecchio sistema politico) lasciò un deserto di macerie a vari livelli: le rappresentanze politiche lasciarono il posto al populismo: della magistratura, dei sindacati… Molte altri figure supplirono alla mancanza di politica occupando ruoli indebiti e, sostanzialmente, lasciando morire la politica (non già “i partiti politici” ma il senso della politica).
Berlusconi ha quindi fagocitato l’idea di liberalismo pur essendo tutto anziché un liberale: Berlusconi è stato un paternalista, statalista come pochi, di scarsa lungimiranza in pressoché tutte le competenze governative, e non c’è da stupirsi: il primo obiettivo di Berlusconi non era certo il buon governo del Paese per una nobile vocazione altruistica!
Ma i liberali – salvo pochi – non riuscirono più a “sganciarsi”; vuoi in odio agli ex comunisti (come molti socialisti, che imputarono e imputano a costoro di avere tratto indebiti vantaggi da Mani Pulite e di esserne stati complici, a loro svantaggio), vuoi per piccole convenienze politiche, o istituzionali, vuoi perché la carica di valori, ideali, idee progressiste del liberalismo italiano delle origini si era andato perdendo da decenni di abitudini al sottogoverno (all’epoca della Prima Repubblica, e alla grande nella Seconda).
Se anche l’epoca berlusconiana è conclusa da un pezzo, i guai prodotti dall’Uomo persistono e dovremo farci i conti per un bel pezzo. Il guaio più grosso è la morte della politica e l’apertura al populismo che germinava, da sempre, nell’animo italico. Quella frattura fra le casematte gramsciane e il popolo, oggi meno che mai consentono l’affermazione di un pensiero liberale che è, intrinsecamente, laico, razionalista, inclusivo. Oggi il pensiero omologato di massa è fidelistico (che non significa “religioso”), irrazionale ed esclusivo. È egocentrico, edonista, qualunquista, credulo. Non sopporta le competenze dei sapienti, identificate come forme di arroganza. Non è in grado di sostenere un minimo di ragionamento logico e coerente perché ingurgita qualunque cosa senza comprenderne le contraddizioni, tutto va bene finquando conferma i suoi confusi pensieri, che in realtà sono semplici pulsioni umorali. Oggi una conversazione politica razionale, fatta di tesi argomentate, è semplicemente impossibile, a destra come a sinistra. Ma mentre a sinistra (oddio, ‘sinistra’, ma dove sarebbe, oggi, qualcosa definibile “di sinistra”?) si riesce ancora a fingere una parvenza di democraticità e tolleranza, a destra – come ha spiegato Orsina – non c’è neppure questa remora. Non c’è proprio una tradizione alla democraticità e alla tolleranza, perché da trent’anni (Mani Pulite inizia nel 1992) i residui liberali sono stati spazzati via, e mai sostituiti.
Non sarà un caso che chi interpreta, oggi, il pensiero liberale (in forme differenti: i radicali di Bonino, Calenda, in maniera ondivaga e discutibile anche Renzi) non solo siano accreditati di percentuali infime di consenso elettorale, ma non riescano neppure a costituire, assieme, una più credibile e solida coalizione.
Eppure.
Eppure – concordando ovviamente con Orsina – il populismo è destinato a fallire, in Italia e altrove. Il populismo non ha soluzioni per problemi facili, figurarsi per quelli complessi della contemporaneità. Il popolo obnubilato appare come massa uniforme quando protesta contro la casta, ma è percorso da mille umori e sentimenti, anche fortemente contraddittori; proprio perché irrazionale. Non resta quindi che attendere, e possibilmente accelerare, la fine di questo drammatico periodo politico.
Quel che resta del pensiero liberale in Italia deve quindi resistere, proporre, argomentare, cercando di convergere verso un punto unitario di equilibrio (ma certo, certi personalismi esasperati non aiutano a trovarlo). Ma attenzione! Anche quel che resta del pensiero socialdemocratico dovrebbe fare un bell’esame di coscienza, recuperare i propri valori fondativi, abbandonare con decisione la strada penosa del populismo, con così straordinaria facilità imboccata dall’attuale classe dirigente del PD.