L’italiano è populista, anzi: un po’ fascista

Stiamo percorrendo un vicolo cieco. Prima o poi il vicolo finirà e l’alternativa al fermarsi sarà tornare indietro e cercare un’altra strada. Anche se, conoscendo il mio popolo, l’ipotesi di restare laggiù in fondo fermi e inerti non è da scartare. Parlo di politica. E del fatto che il quadro è il seguente: partiti “tradizionali” (PD e FI soprattutto) sostanzialmente spappolati, movimenti populisti arrembanti. È un’analisi grossolana ma sufficientemente veritiera. Il fatto che il PD sia ancora apparentemente un partito vivo è un’illusione: nessuna forza politica rimane viva dopo anni di tensioni centrifughe e di scollamento fra elettori e vertici. Altri partitini come i Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana contano come il due di picche e quindi non mi interessano ora. Restano i due grandi movimenti populisti. Lega e M5S. Diversissimi, come vedremo, ma protagonisti assoluti della scena, pentastellati specialmente. Credo questa sintesi rappresenti bene il vicolo cieco. Malgrado le buone intenzioni iniziali, nella stretta dei ricatti incrociati anche Renzi ha ceduto via via a politiche sempre più demagogiche, come l’insistenza sulla maggiore flessibilità di cui è lecito qualche sospetto, come abbiamo scritto da poco. Forza Italia vivacchia attorno al Grande Satrapo morente (politicamente), quelli di Alfano sono morti (politicamente) che camminano. I consensi elettorali sono in calo, i programmi languono, nessuno accende i cuori e le speranze di chi ha voglia di un cambiamento. Tranne Lega (sempre meno) e M5S (sempre molto). Perché?

A ben guardare mancherebbe una logica razionale. A una politica paternalista, consociativa e senza slancio si dovrebbe opporre un “buon” governo: di rigorosi, di tenaci, di uomini con alto senso delle istituzioni capaci di spiegare le ragioni dei sacrifici da fare per garantire un futuro al Paese, capaci di distribuire con equità quei sacrifici e di proporre e realizzare le riforme strutturali necessarie. Invece gli sfiduciati dai partiti si rivolgono a scatole vuote populiste, ignorandone l’inanità, sopportandone la cialtroneria, perdonandone ogni scandalo o errore. Dopo due anni e mezzo di nulla parlamentare e tre mesi di vuoto capitolino, i Cinque Stelle godono di ottima salute e un popolo festante col Magico Capo urla i soliti vuoti slogan, premia la politica dell’inconsistenza maledicendo, se del caso, i pochi uomini e donne che in questi anni hanno cercato di costruire brandelli di politica seria. La ragione, a mio avviso, è antropologica. Gli italiani sono da sempre populisti e anche un po’ fascisti; cercano un Padre rassicurante che, nei fatti, faccia fare a ciascuno quel che gli pare; cercano una Guida che li ecciti nella retorica ma li tranquillizzi sul fatto che i loro diritti (presunti) acquisiti non saranno toccati; cercano anche un Condottiero che dia loro l’illusione di essere grandi, straordinari, migliori di tutti quelli che ci vogliono male, ma senza sforzo, senza fatica. L’italiano medio populista, e un po’ fascista, è il tema di questo post; e poiché questo populismo presenta inquietanti elementi secondari (una certa intollerante violenza, una certa ottusa demagogia irresponsabile…) è il caso di farci i conti, perché non ci porterà da nessuna parte ma ci costerà molto in termini di occasioni mancate, riforme non fatte, economia non curata, amministrazione non sanata.

Voglio cominciare esplorando il concetto di ‘fascismo’, che può sembrare eccessiva come etichetta appioppata a prassi e gruppi politici. Fascismo è un regime politico, mi ha fatto notare un caro amico, e non si può affibbiare questa etichetta a comportamenti, idee, modi di essere che con quel regime nulla hanno a che fare.

Eppure.

Eppure esistono analogie, metafore e metonimie, e quindi posso chiamare ‘orco’ il pedofilo anche se il termine |orco| appartiene al regno delle fiabe; posso definire ‘maiale’ il molestatore anche se |maiale| è termine di una tipologia zoologica. Esistono le traslazioni, le sineddochi, le iperboli e una quantità di figure retoriche che entrano nell’uso comune e consentono di urlare “Fascista!” a chi abusa di comportamenti autoritari e violenti (elementi, questi, tipici del regime fascista) indipendentemente dalle sue idee politiche.

Insomma: reclamo la possibilità di indicare, col termine ‘fascista’, non certo l’appartenente al vecchio PNF o suoi nostalgici epigoni, ma chi ne incarna lo spirito violento, intollerante, mistificatore, populista, dogmatico.

Credo che possiamo trovare i principali elementi caratterizzanti del “fascismo” (sia del regime che in questo significato allargato) in questa breve lista:

  • la preminenza della figura del capo;
  • il populismo;
  • il ruolo della propaganda e del controllo sugli individui;
  • violenza verbale e fisica; annullamento e repressione delle opposizioni;
  • nazionalismo;
  • vitalismo, giovanilismo, maschilismo, edonismo, autocelebrazione priva di reali riscontri fattuali;
  • omologazione di massa.

La lista è indubbiamente incompleta ma mi pare sufficiente. Tutto questo si esprime differentemente a livello di popolo, di istituzioni, di processi culturali ma non sono l’unico a vedere una caratterizzazione tipica del nostro popolo in senso “fascista”.

La sconfitta di quest’ultimo fascismo [quello della Repubblica di Salò] è cosa certa, quella del fascismo che si era eretto in regime è un po’ meno chiara. Se anche, con il referendum del 1946, uno dei pilastri di quel regime, la monarchia, fu effettivamente abbattuto, si ha poi l’impressione che una parte consistente di quelle strutture, e della mentalità che ne consentiva il funzionamento, sia rimasta sostanzialmente integra, malgrado la vittoria dell’antifascismo, ben oltre il 1945 (Fascismo, di Roberto Vivarelli e Edda Saccomani, in “Enciclopedia delle scienze sociali Treccani”).

E come fa notare Tommaso Cerno, che su questo ha recentemente scritto un libro, i tratti caratteristici del modus operandi fascista sono rimasti inalterati al giorno d’oggi:

nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime – che già provenivano dal passato – si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del Pci (Partito Comunista Italiano) proprio come del Pnf (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo (Tommaso Cerno, Gli italiani? Sono tutti fascisti dentro, “l’Espresso”, 20 Novembre 2015).

Se posso approdare a una sintesi estrema, per uscire dai complicati avvitamenti semantico-storiografici, direi che al giorno d’oggi il fascismo si esprime nell’esasperazione populista. Non intendo certo dire che ‘populismo’ e ‘fascismo’ siano sinonimi, ma certamente condividono una parte sostanziale di spazio semantico; direi che il populismo è prodromico del fascismo più violento e manifesto e che fa leva sostanzialmente sull’omologazione di massa. Il populismo, come il fascismo, esalta a parole le virtù del popolo e nei fatti ne celebra i capi indiscutibili; aderisce ideologicamente a poche parole d’ordine stereotipate ripetendole all’infinito e creando il presupposto per una loro apparente veridicità; sente fortemente l’identità di un “noi” virtuosi, onesti, buoni, vogliosi di un mondo migliore, contro tutti gli altri, “voi” venduti e servi del potere, i poteri forti oggi come la plutocrazia giudaico massonica ieri, Bilderberg oggi come la perfida Albione ieri. A questa cornice pre-ideologica possono aderire, indifferentemente, persone che si ritengono di destra e di sinistra. Il ribellismo anti-sistema tipica del populismo (e che fu, ceteris paribus, propria del primo fascismo mussoliniano), vede marciare uniti gli antagonisti discepoli di Evola e di Trotsky, assieme a qualunque nihilista che nella protesta e nell’abbattimento in sé vede un fine autogiustificantesi.

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Arrivando al presente, la logica conseguenza di questa riflessione è che il populismo pervade tutto il panorama politico italiano e buona parte della società. Esiste uno sterile populismo della sinistra radicale, velleitaria e inconcludente; un populismo del PD, rappresentato dal cesarismo renziano; un populismo della destra sedicente liberale, berlusconiana. Ma sopra a tutti un populismo “fascista”, nel senso qui indicato, di Lega e di 5 Stelle. Entrambi leaderistici, mistificatori, verbalmente violenti, nazionalisti (in forme diverse), demagogici. Con alcune importanti diversità, naturalmente. La Lega più chiaramente lepenista e di “destra”, laddove il M5S, nella necessaria mediazione fra le sue contraddittorie anime popolari, galleggia ambiguamente fra destra e qualunquismo. Ma la differenza vera e più importante è anagrafica. La Lega era nuova vent’anni fa, quando nacque, cavalcò l’onda di Mani Pulite, si presentò come il partito (del Nord) antisistema, anti casta e anti corruzione politica; gli slogan della Lega che fu sono straordinariamente simili a quelle dei grillini di oggi. Anche loro erano senza peccato, anche loro esprimevano l’indignazione popolare contro i politicanti, anche loro volevano una qualche fumosa rivoluzione. Si sa com’è finita: hanno governato e non hanno concluso niente; sono stati travolti da scandali imbarazzanti e hanno rischiato l’estinzione, se non fosse stato per la svolta di Salvini (la cui spinta propulsiva è già da tempo terminata a sua volta). Lo stesso percorso lo sta compiendo il Movimento di Grillo: da nuovo e immacolato movimento di indignati contro la casta a gruppo di potere impaludato nelle difficoltà del governo cittadino romano, non esente da piccoli scandali per ora marginali.

Ma c’è un’altra differenza importante fra Lega e 5 Stelle. In maniera confusa, contraddittoria e poco lineare la Lega ha sempre rappresentato – almeno nell’era bossiana – degli interessi di un gruppo: la piccola borghesia rurale del Nord, afflitta dalle tasse romane e dai vincoli europei, identitaria, egoista, ignorante ma produttiva e ordinata; una borghesia che si vedeva minacciata, impoverita e avvilita da burocrazie incomprensibili, genericamente additate come “Roma”: il magna-magna, Roma ladrona, i politici vecchi, prepotenti, voraci che depredavano il Nord. La Lega difendeva degli interessi economici e sociali molto chiari. Quella rappresentanza è stata intaccata nella credibilità dagli scandali, e nell’azione politica da vent’anni di governo e sottogoverno che l’hanno sostanzialmente resa uguale agli altri. Ecco perché il tracollo ed ecco perché il riposizionamento lepenista di Salvini, che poco ha a che fare col classismo di Bossi e molto con la xenofobia diffusa nello Stivale.

I 5 Stelle non hanno alcuna rappresentanza classista. Né territoriale, sociale, ideologica. I 5 Stelle, nel grande rimescolamento post ideologico di questi anni, rappresentano i non rappresentati, gli indignati delusi da qualunque parte politica, i qualunquisti, i non votanti per ignoranza che qui trovano una legittimazione alle vaghe giustificazioni del loro essere pre-politici, gli antagonisti sempre e comunque come fine e non come mezzo. Tutto il Movimento è prepolitico (e non antipolitico) come ho già spiegato tempo fa. E in quanto prepolitico è accogliente di qualunque analisi approssimativa ma emotivamente vincente, di qualunque indignazione che ci faccia sentire partecipi di un fluire vitale collettivo, di qualunque vago sentore di destra e di sinistra perché saldate da una confusione originaria che non necessita di spiegazioni, di logiche complicate, di ragionamenti.

Se questo è il panorama italiano contemporaneo c’è di che tremare, anche e soprattutto per chiedersi come sia possibile che decenni di malgoverno abbiano prodotto, per reazione, una medicina peggiore del male stesso. In quei milioni di elettori leghisti e grillini (e in buona parte di quelli esasperati che continuano, con disperazione, a votare PD o FI) c’è una fortissima denuncia etica. Una richiesta di onestà, di buon governo, di politici capaci di fare gli interessi della collettività. Perché questa richiesta non trova una degna rappresentanza e si lascia sedurre dal qualunquismo aggressivo di Salvini e Grillo? Ho parlato sopra di un problema antropologico, riferibile a una sorta di carattere degli italiani. Sono convinto di questo e ne ho già scritto, ma mi rendo conto che fermarsi qui sarebbe una sorta di condanna biblica. Se “siamo fatti così”, ma ci rendiamo conto che siamo fatti male, dovremo pur provare a cambiare. E forse (dico: “forse”) la via d’uscita la indicano proprio i grillini se, anziché vederli come un anonimo popolo di ciechi e sordi, li comprendiamo come capitale sociale desideroso di un sano e autentico cambiamento: vero, onesto, con una visione condivisa. Guardando dentro il mondo pentastellato, infatti, si percepisce l’enorme distanza fra un piccolo numero di attivisti infuocati e un alto numero di elettori che probabilmente non strillano su Internet, non approvano tutto quello che dice Grillo e sarebbero disponibili a una nuova proposta seria. Forse, semplicemente, la scelta a 5 Stelle è una scelta forzata, dovuta a mancanza di alternative. Forse (e insisto: “forse”) lavorare dentro i partiti per bonificarli delle schifezze, privilegi e marciumi che contengono, spiegare con realtà e senza mitomania la situazione italiana e su questa indicare due o tre mete raggiungibili, evitare micro-politiche di consenso e puntare al risanamento, chiamare a raccolta la parte sana del Paese (che è enorme) per avviarsi verso un orizzonte credibile e non immaginifico, ecco: forse questo potrebbe dare speranza, sgonfiare il populismo fascistoide, ricaricare di fiducia la nostra Democrazia.

Ma per riuscire in questo intento serve un grande leader, con una grande visione.

(Filippo Ottonieri mi ha fornito una chiave di lettura essenziale che mi ha consentito importanti modifiche in sede di redazione del testo)