In un articolo critico (l’ennesimo!) sull’app Immuni e il suo fallimento,Tito Boeri e Roberto Perotti scrivono, fra l’altro:
[…] Tutto dovrà quindi continuare a passare attraverso il collo di bottiglia delle Regioni: se continuano a non funzionare, l’intero sistema verrà vanificato. Il decreto non dice niente su come risolvere questo problema. Le Regioni si difendono dicendo che da mesi hanno scritto al governo segnalando le criticità di Immuni. Ammesso che abbiano ragione a scaricare le colpe sul governo, non basta scrivere e poi lavarsene le mani per mesi. Regioni come la Lombardia o l’Emilia Romagna hanno abbastanza peso specifico per alzare il telefono e pressare il dirigente ministeriale o lo stesso ministro con proposte concrete finché il problema non viene risolto. La lezione è sempre la stessa: se qualcosa non funziona, i dirigenti ministeriali e regionali, o gli stessi ministri e assessori regionali, si devono sporcare le mani e seguire ogni questione nei suoi dettagli, incalzando a catena i loro sottoposti finché il problema non è risolto. I nostri politici e i dirigenti ministeriali e regionali sono convinti che basti scrivere un comma in un giuridichese sufficientemente ambiguo da coprire tutti gli angoli perché un servizio e una app funzionino: non è così. La stessa tecnologia di cui tutti si riempiono la bocca non serve a niente se non c’è una seria organizzazione del lavoro alle spalle.
Il “giuridichese”, che già Umberto Eco, se non sbaglio, chiamava linguaggio burocratico-curial-ministeriale, è uno dei grandi mali italiani, eredità di un’amministrazione sabauda che a sua volta attinse a quella francese, in un pastone aggrovigliato di testi che non significano per il senso che cercano di dare al diritto, ma per il significato letterale della loro sintassi, che diventa argine, scudo, e quindi anche scusa per il celeberrimo e italianissimo “non mi compete!”.
A differenza di altri popoli esiste, in Italia, una sorta di ontologia della norma. Il giurista, il dirigente, l’amministratore, fino all’ultimo travet, non intende la norma come strumento per perseguire un fine, ma come principio astrattamente valido in sé a prescindere; il senso della norma, per il burocrate medio italiano, è la norma in sé. Eseguire bene quanto prescrive la norma è il compito del burocrate, che difficilmente concepisce come la norma serva per ottenere un qualche risultato, e che il suo obiettivo dovrebbe essere quel risultato. Norme insensate, norme desuete, norme in conflitto, l’importante, per questo tipo di burocrate, è poter dire di averle formalmente rispettate. Così non rischia, così è inattaccabile, così è tranquillo.
Per ragioni prettamente linguistiche, altre volte trattate qui su HR, la sintassi è però foriera di menzogne, trappole, equivoci, fraintendimenti; nella complessità amministrativa servono quindi sempre più norme, con un numero crescente di cavilli, per sempre meglio cercare di precisare, per sempre più chiaramente cercare di separare il dovere (ciò che le norme prescrivono) dall’errore (ciò che le norme vietano, o non includono, o non prevedono… in pratica un universo!).
Allora si moltiplicano la conflittualità, le cause, i TAR, i legulei, i ricorsi e, sostanzialmente, oltre ai costi delle inevitabili ingiustizie, gli enormi costi della perdita di tempo, della frizione continua fra cittadini e amministrazioni, e fra amministrazioni di livelli differenti, di pratiche bloccate, di errori materiali e via discorrendo. In Italia si parla seriamente di semplificazione dell’apparato amministrativo con le leggi Bassanini del 1997; esistono manuali (ministeriali) di semplificazione del linguaggio, e carrettate di altre norme che chiedono e impongono tale semplificazione. Ma è del tutto evidente che non servono interventi cosmetici: c’è una cultura amministrativa fondata sulla norma che è quasi impossibile scalzare, se non con (ipotetici, improbabili) interventi radicali; talmente radicali che dovrebbero coinvolgere la Costituzione (famigerato Titolo V), l’intera impalcatura del diritto civile, una quantità di leggi ordinarie, il regionalismo, il riordino delle amministrazioni… insomma: si tratta di un intricato puzzle dove è sostanzialmente impossibile toccare un elemento, per quanto importante, senza intervenire pesantemente sugli altri.
Quando Boeri e Perotti si lamentano (nel brano che vi ho riportato) del fatto che l’app Immuni non funziona, fra l’altro, per una condivisa insipienza di vari livelli di responsabilità, ministeriali e regionali, ci presentano un quadro assolutamente tipico e quotidiano, che ha a che fare con cento e cento altre questioni di interesse collettivo. I dirigenti ministeriali non muovono un dito perché ritengono, in punta di norma, che non sia questione loro ma delle regioni; i dirigenti regionali ritengono che “non competa loro” alzare il telefono (sulla spocchia del dirigente pubblico, l’esasperata attenzione ai simboli di potere, e la rivalità perenne, ci si potrebbe scrivere un volume), e i loro superiori politici (ministri e assessori regionali), che già si devono difendere nell’oceano di ignoranza e incompetenza che li devasta, se anche avessero contezza del problema non saprebbero come affrontarlo, perché dipendono interamente dai loro dirigenti (che hanno messo o confermato loro, e che per altro verso loro ricattano) che li intortano come pare a loro.
Difficile quindi, molto, molto difficile riformare la pubblica amministrazione italiana. Ma, anche, urgente, estremamente urgente, perché navigare nel terzo millennio globalizzato con una burocrazia ottocentesca e ottusa è, decisamente, impossibile.
Risorse:
- Nicoletta Rangone, Semplificazione amministrativa, Enciclopedia Treccani;
- Ministero per la Pubblica Amministrazione, Semplificazione;
- Stefano Sepe, La semplificazione del linguaggio amministrativo, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.