Alessandro Maran, ex senatore PD attualmente “in borghese”, scrive un articolo sul Foglio dove scrive cose assai condivisibili e che, semmai in contesti e forme diverse, sosteniamo anche su questo blog da sempre. Vi propongo solo alcuni stralci, per poi fare una riflessione laterale. Scrive Maran:
il populismo di destra non può essere battuto con un populismo di sinistra. C’è chi ritiene che l’unico modo per essere centrali nel futuro sia quello di abbandonare le prospettive di centro, non disperdere energie e impegnarsi per provare a cambiare “da dentro” il Pd. Claudio Cerasa lo ha scritto papale papale: “i ‘libberali’, anziché perdere tempo, devono decidersi a trovare un modo per farsi valere e provare di nuovo a scalare il Pd. Per tutti gli altri, c’è la buona vecchia Forza Italia”.
Maran non è d’accordo, e propone una visione di “Centro” interessante:
il “centro” non è il luogo dello status quo. Ma è il luogo dove proporre delle soluzioni radicali ma realistiche; soluzioni non ideologiche e praticabili. Senza contare che, come sempre, non è al centro politico che bisogna guardare, ma al “centro sociale”. Cioè alle forze dinamiche e potenzialmente “centrali” della società. Del “centro”, perciò, c’è bisogno. Specie in un momento in cui, dovunque, i partiti estremisti vanno rafforzandosi.
Dopo avere passato in rassegna esperienze internazionali di “centrismo” progressista, Maran spiega perché questo slancio propositivo non può essere ritrovato nel PD:
Ma come fa a rappresentare il centro (della società) un partito che ritiene che la cifra identitaria di un partito di sinistra sia l’anticapitalismo (che, con l’antiamericanismo, accomuna post-comunisti e post-democristiani ed è alla base della sintonia con i populisti)? Cosa ha a che fare con il centro (della società) un partito che si strugge nella nostalgia (di “quando c’erano i comunisti”) e che, più che attrarre elettori, vuole fare proseliti? Dopo tante “rivoluzioni liberali” molte volte promesse e altrettante volte rinviate e contraddette, bisogna farsene una ragione: il Pd, su quel che conta davvero, sugli ideali di fondo e non tanto sulla “gestione”, non è realmente contendibile. Nel Pd, si può fare certo la minoranza liberal-democratica, ma è impensabile dare sul serio voce a quelle istanze liberal-democratiche che oggi in Italia non sono rappresentate.
Maran, poi, fa un po’ di storia recente di questo partito, da Veltroni al senso che ha avuto Renzi, rammaricandosi che nel PD il riformismo “può avere solo un ruolo ancillare, di condizionamento, ma non può guidare il partito”.
E conclude, arrivando a Letta:
Non c’è, inoltre, nessuna discontinuità tra Zingaretti e Letta. Letta vuole percorrere, a braccetto con i grillini, ancora una volta la strada battuta più volte dal centrosinistra: quella di ricompattarsi per far fronte ad un nemico comune (un tempo era Silvio Berlusconi, ora è Matteo Salvini), rinunciando in partenza a pescare nel bacino opposto. Rinunciando cioè a parlare con il “centro della società”. Lo stesso biglietto da visita del nuovo segretario del Pd (voto ai sedicenni e ius soli) rappresenta una scelta che punta a creare un solco: “Di qua la sinistra, di là la destra”.
L’idea di fondo resta quella contenuta nella mozione di Zingaretti, e cioè che oggi la contrapposizione non sia quella europeismo liberal-progressista contro populismo, ma sinistra contro neoliberismo, all’interno della quale il populismo sarebbe solo una febbre passeggera (alimentata proprio dalle contraddizioni del neoliberismo) utilizzabile proprio perché attraversato da elementi di sinistra “anticapitalistici”.
Invitandovi a leggere l’articolo originale, vorrei ora fare alcune considerazioni che – come anticipato – saranno “laterali”, cioè tratteranno di un problema apparentemente marginale.
Maran parla – intelligentemente – di centro sociale, e non di centro politico, che oggi avrebbe poco senso. Ecco, una difficoltà che io rilevo – non è la prima volta che ne parliamo – è che le etichette di ‘destra’, ‘sinistra’ e ‘centro’ siano assolutamente da rivedere e che, in particolare le prime due, abbiano costituito delle trappole nominalistiche che impediscono a molti il ragionamento lucido, libero, capace di argomentare sulla politica uscendo dalle gabbie (come bene fa Maran). A uno che da sempre è stato “di sinistra” l’idea di fare qualcosa non di sinistra gli ripugna (credo che avvenga lo stesso per un cittadino di destra), e il meccanismo mentale diventa: è una cosa di sinistra? Allora è buona; è una cosa non di sinistra? Allora è cattiva; è addirittura una cosa di destra? Allora è il Male! Quale sia la sostanza della “cosa” non importa: prima viene catalogata come destra-sinistra, poi, in conseguenza di quella collocazione, viene giudicata buona o cattiva. Come si giudica se, all’origine, quell’oggetto (una politica, un programma…) sia di destra o di sinistra? Abbastanza semplice: ci sono parole-chiave, per esempio: se tu usi parole come “anticapitalismo”, “liberismo selvaggio”, “lavoratori” sei di sinistra: se invece dici “meritocrazia”, “impresa” e “liberalismo” sei di destra. Oppure: se lo dice Meloni è ovviamente di destra (ça va sans dire), se lo dice Fassina sicuramente di sinistra. O anche: se si appella ai diritti acquisiti, al sindacalismo e alla Costituzione più bella del mondo, se pensa che Renzi sia il figlioccio di Berlusconi e abbia attentato alla nostra Democrazia ma Zagrebelsky è riuscito a impedirglielo, è sicuramente di sinistra, mentre se richiama ordine e disciplina, vede con sospetto il velo islamista e il MeToo, ritiene che i sindacati siano corporazioni indifendibili, allora è per forza di destra. Di centro non si parla quasi mai, e giustamente; cosa diavolo dovrebbe rappresentare il centro, con quella sua ambiguità… o sei di destra o sei di sinistra!
Avendo già ampiamente argomentato sul fatto che oggi, più che di destra/sinistra (o, almeno: assieme a destra/sinistra) si dovrebbe introdurre la dicotomia populismo/razionalismo (potete leggere il trittico QUI-1, QUI-2 e QUI-3, possibilmente in quest’ordine), possiamo fare un piccolo passo avanti.

Il passo avanti riguarda il fatto che nella figura qui sopra, ripresa dai vecchi post citati, il populismo sembra stare da un’altra parte, e permetterebbe ai destri e ai sinistri “puri” di non ritenersene inquinati. Ma Salvini e grande parte del leghismo, e Meloni e la generalità dei post-fascisti a destra, mostrano il contrario, come Fassina e i massimalisti di sinistra, assieme alla recente involuzione del PD (come scrive anche Maran) testimoniano dall’altra parte la penetrazione populista.
Il populismo non è una categoria politica analoga a destra-sinistra; questa si muove sulla contrapposizione merito/uguaglianza, impresa/redistribuzione, e vede una sintesi centrale (solo semanticamente) nell’azionismo, radicalismo, libertarianesimo. Il populismo, invece, si muove su una dimensione affatto diversa, quella prepolitica/politica, omologazione/competenza, morale/ragione. Il populismo è dilagato, e la rappresentazione dello spazio politico agibile per i “centristi” di Maran è il seguente:

Il “razionalismo” (termine antipatico, in attesa di trovarne uno migliore) è un’isola di resistenza centrale, ma non nel senso che disdegna a priori ciò che è di destra o di sinistra, ma in quello che fa ritenere, a chi si riconosce in quest’area, che occorrono idee politiche in un senso nuovo, liberato dagli ideologismi, dall’emotività, dalle appartenenze partigiane, dall’omologazione, dall’occhio ai sondaggi, degli slogan acchiappavoti.
Io vedo quindi un grande spazio che, proprio perché non ideologico, mi parrebbe dover comprendere (e devo ancora usare delle etichette, mio malgrado), i liberali, socialdemocratici, liberalsocialisti, riformisti, radicali, azionisti, repubblicani, senza che ciascuna di queste etichette significhi necessariamente un riferimento a un partito politico specifico. Certamente una qualche parte di elettorato PD, anche se farei volentieri a meno di tutti e ciascuno i leader di quel partito; certamente l’elettorato di Renzi, anche se farei volentierissimamente a meno di Renzi, e via via i radicali (senza le loro beghe di miseria di bottega), l’area di Calenda e una fetta di elettori di Forza Italia (guardare a Carfagna mi fa pensare che anche il post-berlusconismo ha lasciato qualche cervello interessante). Un amico “di penna” sdegna apparentamenti, per esempio, fra liberali e riformisti, perché questi ultimi sarebbero una qualche declinazione “di sinistra” mentre il vero liberale è “centrista”; idee vecchie. Maran, non a caso, parla di centro sociale, cioè reale, pragmatico, fondato sulle idee, e non sulle etichette.
Per questo io non disdegnerei affatto il dialogo con certi vecchi socialisti ai quali non sono guarite le ferite inflitte da Mani Pulite e dalla vecchia sinistra; né considererei con sdegno certi marxisti non massimalisti, che sono stati comunisti per dovere ma a disagio, e adesso non hanno una casa; e con i “liberali” berlusconiani, intontiti dal vecchio leader ma oggi liberi da vincoli e più maturi; oggi se restiamo alle vecchie etichette, o se ci ancoriamo a un passato (per carità, anche recente) in cui le contrapposizioni era sterili, miserrime, create ad arte da vecchi satrapi seduttivi, ecco, se non guardiamo diversamente l’arena politica la piccola area chiara, nella figura sopra, si ridurrà alimentando il cancro populista che ha metastasizzato il concetto stesso di “fare politica”, “essere politica”.
Non sto parlando di cartelli elettorali, di alleanze, liste e partiti più o meno nuovi. Sto parlando di un movimento di cittadini che resistono al populismo, al massimalismo, al fascismo, al lepenismo, cittadini europeisti, meritocratici, razionalisti, che guardano alle politiche e a come vengono ideate, approvate e valutate.
Il primo passo di questo movimento è l’abbandono delle etichette: non più “noi liberali” o “noi di sinistra”, o i distinguo con voi no, con voi forse, perché noi, perché voi. Le etichette indicano appartenenze identitarie che sono, sempre e comunque, prepolitiche.
Andiamo oltre, per piacere.