Oggi torno sul tema della cosiddetta “decrescita felice”, affrontato in un recente post qui su HR. Ci torno perché credo sia importante provare a capire, numeri e statistiche alla mano, se sia davvero impossibile coniugare lotta alla povertà su scala globale (il primo degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite) e contrasto ai cambiamenti climatici (o, più in generale, “transizione ecologica”, come viene chiamata oggidì). Anticipando le conclusioni affermo subito che, dal mio punto di vista, non solo la cosa è assolutamente possibile, ma consequenziale: cercherò infatti di dimostrare che la riduzione della povertà è conditio sine qua non rispetto alla sostenibilità ambientale.
Riduzione delle emissioni e crescita economica: è possibile?
Si guardi il grafico sottostante. Mostra l’andamento delle emissioni di gas nocivi in Europa dal 1990 al 2018: come si può osservare, nel 2018 si emetteva il 20% in meno rispetto al 1990. La riduzione c’è stata, seppur con fasi alterne.

Quest’altro mostra invece, più o meno nello stesso periodo, l’andamento del PIL pro-capite nella stessa zona:

Si è passati dai 26271$ del 1995 ai 37.000 e spicci del 2019.
Dunque da un lato le emissioni di gas nocivi si sono ridotte del 20%, dall’altro il PIL pro-capite è aumentato in modo significativo (anche se ovviamente questa crescita non è stata uguale in tutti i Paesi).
Come è stato possibile?
Intanto bisogna ricordare che crescita economica non è automaticamente sinonimo di maggior produzione di beni materiali, specie nei Paesi avanzati, la cui economia è in genere di servizi.
Ma anche concentrandosi sulla produzione di beni materiali, c’è un fattore fondamentale: il progresso tecnologico. La ricerca e la concorrenza tra imprese hanno portato da un lato ad un efficientamento dei consumi di certi dispositivi (è pacifico constatare come le caldaie, i frigoriferi, le lavastoviglie che abbiamo oggi in casa consumino assai meno di quelle di trent’anni fa), dall’altro a rendere molto più produttive le fonti rinnovabili. Quest’ultime – sempre per un meccanismo di mercato – stanno ormai diventando anche più economicamente convenienti rispetto alle fonti fossili: l’International Renewable Energy Agency ha spiegato che, dal 2010 al 2019, il costo dei progetti di fotovoltaico è sceso dell’82% (qui il report).
L’impatto ambientale degli smartphone
Perfino i (per certi versi giustamente) famigerati smartphone sono stati recentemente oggetto di un’indagine che ne ha ridimensionato gli impatti ambientali. In un articolo su Wired, Andrew McAfee ha fatto notare come lo smpartphone, essendo un dispositivo che ingloba molti altri oggetti un tempo venduti separatamente (calcolatrici, navigatori satellitari, macchine fotografiche, videocamera, radio, lettore mp3), abbia contribuito alla “smaterializzazione” di questi ultimi, con conseguente riduzione dell’uso di plastica, metalli e altri materiali.
La crescita economica tiene sotto controllo la demografia
Questo paragrafo debbo iniziarlo con un curioso aneddoto: il concetto che vi viene espresso l’ho appreso all’Università, durante un corso di geografia tenuto da una Professoressa convinta sostenitrice della decrescita felice.
Il concetto è quello della transizione demografica, che in sintesi brutale dice ciò: quando, in un Paese, le persone raggiungono un reddito decente, la smettono di figliare come conigli.
In termini più propriamente scientifici, ogni Paese attraversa quattro fasi:
- Nella prima (agricola) sono alti sia il tasso di mortalità sia quello di natalità, per cui la popolazione tende a rimanere stabile. In questa situazione si trovano ancora i Paesi più poveri al mondo
- Nella seconda (prima industrializzazione) il Paese inizia appunto ad industrializzarsi: la mortalità cala, mentre la natalità rimane alta, e ciò porta al boom demografico. È il caso, oggi, di Paesi come la Nigeria.
- Nella terza fase – quella più interessante e funzionale al discorso che stiamo svolgendo – cala anche la natalità, e ciò interrompe la crescita demografica. Ma perché ciò accade? Intuitivamente dipende dal fatto che le persone (e in particolare le donne), avendo a disposizione un reddito maggiore (e dunque godendo di maggiore libertà) iniziano a pianificare maggiormente la propria vita. In particolare si sposta in avanti l’età a cui le coppie decidono di avere il primo figlio.
- Infine, nell’ultima fase (quella della piena industrializzazione) si hanno livelli bassi tanto di natalità quanto di mortalità. È la condizione dei Paesi del “primo mondo”.

Perché tutto ciò è importante? Perché è da decenni, ormai, che si sentono previsioni catastrofiche sulla crescita della popolazione globale: basti pensare al famoso report “I limiti dello sviluppo” realizzato dal Club di Roma nel 1972.
Oggi esistono teorie opposte. Ne parlano Darrel Bricker e John Ibbitson, nel libro “Pianeta vuoto”, di cui si può leggere un sunto qui.
Le Nazioni Unite prevedono che nel XXI secolo la popolazione passerà da sette a undici miliardi, per poi stabilizzarsi a partire dal 2100. Ma sempre più demografi in tutto il mondo considerano le stime dell’Onu di gran lunga troppo elevate. Secondo i loro calcoli è più probabile che la popolazione planetaria raggiungerà un picco di circa nove miliardi tra il 2040 e il 2060, e da lì inizierà a ridursi. (…)
I Paesi la cui popolazione sta diminuendo sono già più di venti; nel 2050 saranno oltre trentacinque. Alcune tra le regioni più ricche del pianeta – tra cui Giappone, Corea, Spagna, Italia e gran parte dell’Europa orientale – perdono abitanti ogni anno (…). Ma la vera notizia non è questa. La vera notizia è che presto anche i più grandi Paesi in via di sviluppo, i cui tassi di fecondità sono già in discesa, inizieranno a ridursi. La popolazione cinese comincerà a calare entro pochi anni. Di qui alla metà del secolo Brasile e Indonesia faranno lo stesso. Perfino l’India, che sarà presto il Paese più popoloso del mondo, vedrà il numero dei suoi abitanti stabilizzarsi tra circa una generazione per poi iniziare a diminuire. E se nell’Africa subsahariana e in parte del Medio Oriente i tassi di fecondità rimangono esorbitanti, da quando le donne hanno ottenuto accesso all’istruzione e alla contraccezione le cose stanno cambiando. È probabile che lo sfrenato baby boom africano finisca ben prima di quanto non prevedano i demografi dell’Onu.
Conclusioni
Detto tutto ciò che ho scritto finora non vuole minimamente negare che esistano problemi enormi nell’economia globale. Che le Big Tech ricorrano all’obsolescenza programmata è un fatto accertato dalle stesse istituzioni europee (che per fortuna hanno finalmente intrapreso la strada del diritto alla riparazione); che i minerali necessari a produrre smartphone provengano spesso da filiere che fanno ricorso allo sfruttamento minorile è anch’esso un fatto acclarato. E che al lavoro minorile (o comunque sfruttato) facciano ricorso note multinazionali operanti nei più svariati settori non è un mistero.
La domanda, però, è come si esce da tutto ciò. Personalmente credo nella responsabilizzazione del consumatore; esiste chi produce smartphone sostenibili, così come molti altri beni, prodotti e servizi (personalmente sono da anni un sostenitore del Fair Trade, pur riconoscendone i limiti, non tanto di approccio – quello lo trovo impeccabile – quanto di risultati).
Il punto è che, se vogliamo davvero un mondo “migliore” in senso lato, il punto di partenza deve essere necessariamente la riduzione della povertà su scala globale. E questo risultato si può ottenere solo con l’inserimento in modo stabile e duraturo delle persone all’interno del circuito economico, un circuito che non può non essere globale. La cooperativa PFTC, operante nelle Filippine e che produce zucchero di canna, non darebbe oggi lavoro a 500 persone (da 25 che erano quando iniziarono, nel 1991), se quel prodotto non fosse esportato e venduto all’estero. Ridurre i consumi (cioè la domanda) porterebbe meno lavoro anche ai Paesi che si vorrebbero sinceramente aiutare.
La vera sfida, casomai, è appunto rendere la produzione sostenibile. Personalmente credo che una possibile risposta sia un più ampio e articolato sistema di certificazioni, gestito a livello di Unione Europea, che vieti l’accesso al mercato comunitario ai prodotti che non soddisfino determinati standard produttivi (in termini di impatto ecologico e di condizioni dei lavoratori). È chiaro che servirebbe un sistema di monitoraggio di intere filiere produttive, e che ciò non è facile; d’altro canto, l’Unione Europea avrebbe tutte le risorse economiche ed organizzative per metterlo in piedi. E soprattutto, avrebbe il coltello dalla parte del manico, perché nessuna azienda al mondo – fosse anche la più gigantesca – può permettersi di perdere l’accesso ad un mercato di 500 milioni di persone, per di più con un reddito pro-capite tra i più alti al mondo.