In questo tempo di pandemia, non è facile per il vecchio calcio guadagnare la stessa attenzione che gli era abitualmente tributata: gli stadi sono vuoti, le partite in TV sono a pagamento, e tutto sommato abbiamo tutti altre e ben più valide preoccupazioni.
Eppure, in questi giorni tutte le principali testate informative parlano di calcio, e il motivo c’è: dopo lunghi preliminari, alla fine è arrivato l’annuncio della prossima costituzione della cosiddetta Super League, una specie di “supercampionato” tra le più prestigiose squadre europee, o quelle che dovrebbero esserlo. Per ora hanno aderito sei squadre inglesi, tre spagnole e tre italiane: Juventus, Milan, Inter; hanno rifiutato le tedesche Bayern Monaco e Borussia Dortmund, si attende la possibile adesione del Paris Saint Germain, e comunque il numero dei club “fondatori” potrebbe arrivare fino a 15.
Ora, dal momento che Hic Rhodus non è la Gazzetta dello Sport, soffermiamoci un attimo a chiederci: ma che significa questa decisione? E soprattutto, ce ne importa qualcosa?
In sintesi, significa che la pandemia ha accelerato e portato a compimento una transizione già avviata: la fine dell’era del calcio “di prossimità”, per coniare un’espressione nuova. Una volta, infatti, e neanche tanto tempo fa, il calcio muoveva materialmente folle di persone su distanze relativamente brevi, e anche le trasferte, fatte di solito in pullman o treno, con i tifosi già tutti accalcati come allo stadio, in fondo portavano da una città all’altra ma sempre in un territorio familiare, all’interno dello stesso Strapaese, per evocare un termine d’altri tempi. Le differenze tra milanesi e torinesi, tra fiorentini e romani, se non addirittura tra abitanti di quartieri diversi della stessa città, più che creare distanze valevano semmai a ispirare sfottò più creativi, o, purtroppo, la perversa emulazione degli ultrà più beceri. Il calcio inglese, tedesco, spagnolo, brasiliano, era un di più, qualcosa da seguire distrattamente in TV e che in fondo poco aveva a che fare con l’esperienza del calcio “vero”.
La pandemia ci ha chiuso tutti in casa, ci ha reso maggiormente dipendenti dalle TV in abbonamento, e, confuso nel grigiore dei palinsesti come fosse un qualsiasi serial, il calcio ha sofferto molto. L’annullamento di quello che ho chiamato il calcio di prossimità ci ha lasciato solo il calcio a distanza, e non solo: Sky ha rifiutato di pagare per intero i diritti dello scorso campionato, aggravando la crisi economica delle società, già prive degli introiti degli incassi allo stadio e, praticamente, del merchandising. Sì, la questione è tutta economica: i grandi club, il cui appeal sul pubblico da sempre finanzia anche i piccoli, e in sostanza tutto il movimento calcistico, vogliono i soldi tutti per sé, e contano che la nuova Super League possa portar loro un grosso incremento di entrate, senza neanche doverle spartire, e con la certezza di poterci contare anno dopo anno, perché alla Super League non ci si qualifica: le dodici, o quindici, squadre che la costituiranno vi parteciperanno sempre, indipendentemente dai loro risultati, perché quel campionato sarà di loro proprietà. Niente promozioni, niente retrocessioni, niente qualificazioni: se anche la Juventus l’anno prossimo finisse ultima nel campionato italiano e retrocedesse in Serie B, rimarrebbe nella Super League e continuerebbe a incassarne i profitti.
Di fronte a questa vera e propria rivoluzione, le reazioni sono ovviamente state molte, e quasi tutte di segno negativo. Se erano scontate quelle delle istituzioni del calcio “attuale”, e in particolare di UEFA e FIFA, che vedono ovviamente attaccato il loro monopolio, sono stati davvero tanti i commenti comprensibilmente critici, e addirittura alcuni hanno assunto toni apocalittici. Tra questi, è da leggere l’articolo La Superlega è il tradimento del sogno democratico, pubblicato sull’Huffington Post, in cui l’autore, Gianni Del Vecchio, contrappone l’idea della Super League all’American Dream, e la considera uno schiaffo al sogno dell’«outsider che dal niente sbuca fuori e si conquista un posto al sole solo grazie all’impegno, alla visione e alla capacità di inventarsi qualcosa». Sfugge completamente a Del Vecchio il dettaglio che la Super League è modellata proprio sull’esempio dei massimi campionati sportivi USA, come l’NBA o l’NFL, dove nessuno retrocede o viene promosso, e il miglior modo per una città di avere una squadra nel campionato di massimo livello è che un riccone locale ne compri una e la trasferisca, come è più volte successo.
La Super League non è un attacco alla democrazia, e certamente non è un attacco all’American Way of Life, al contrario: è il compimento della transizione del calcio da sport a show business, che è esattamente quello che sono il basket o il football in America: una grandissima macchina da soldi, che intrattiene e soddisfa milioni di spettatori a distanza, comodamente sprofondati nei propri divani con birra e patatine a portata di mano, e presto ben poca differenza potrà fare, per un tifoso dell’Inter, giocare contro la Juventus o contro il Real Madrid. Ci sarà il definitivo annullamento della prossimità come sfondo naturale di una partita di calcio, uno di quei caratteri che ancora ci ricorda, o ci ricordava, l’idea che dobbiamo a Desmond Morris del calcio come sublimazione della guerra per il territorio tra due tribù confinanti.
Semmai, se proprio vogliamo darne un’interpretazione nell’ambito dei modelli economici di riferimento, la Super League è un attacco all’ideale del welfare all’europea, ai principi di solidarietà e redistribuzione della ricchezza, al principio che il ricco è ricco anche grazie al contributo del povero alla comunità. Le dodici squadre che hanno firmato la costituzione di questa nuova Lega affermano questo: il ricco non ha bisogno del povero, e quindi il povero s’arrangi.