Quanto sta succedendo in Afghanistan è l’epilogo di vent’anni di impegno occidentale profuso in un paese privo di identità nazionale senza una chiara visione di dove si volesse arrivare, condotto guardando agli umori del momento dell’opinione pubblica. Post a tratti antipatico e scomodo.
Ho passato circa 14 mesi della mia vita in Afghanistan, prima come Vice Comandante delle Forze di ISAF responsabili della sicurezza della Regione Ovest di ISAF comprendente le province di Herat, Farah, Badghis, Ghowr e Nimruz (un’area grande circa come l’Italia Settentrionale) e poi come responsabile del Military Advisory Team che operava a favore del 207° Corpo d’Armata dell’Esercito Afghano schierato in tale area e come “Advisor” o consigliere del Comandante di tale Grande Unità, composta da tre Brigate con un organico totale di circa 20.000 uomini, con compiti di consiglio, formazione e assistenza dei quadri.
Ho esitato a lungo prima di mettermi a scrivere qualcosa sulla situazione in Afghanistan, non sono sicuro di potere competere con gli esperti di storia, geopolitica ed antropologia dell’Asia centrale che ho scoperto esserci in giro, ma alla fine ho ceduto e ho deciso di dire anche io la mia, sulla base della mia conoscenza diretta di quello che abbiamo fatto laggiù.
Lo dico subito, senza girarci attorno, è stato un fallimento. Venti anni di combattimenti, investimenti, addestramento, aiuti, formazione, trilioni di euro e di dollari non sono serviti a nulla. Mi aspettavo che, una volta completato il ritiro delle forze occidentali, si sarebbe dovuto arrivare all’inclusione, in qualsiasi governo afghano, di robuste rappresentanze della stragrande maggioranza austera, tradizionalista, xenofoba, ignorante misogina e retriva della popolazione, ma un crollo così totale e veloce onestamente non me lo immaginavo. Abbiamo fallito per il semplice motivo che, con buona pace di uno dei principii fondamentali fissati da von Clausewitz (che una volta di più, assieme a Marx, Gesù, Einstein e Lupo Alberto si conferma fra gli autori più citati e meno letti) ci siamo imbarcati in una guerra senza sapere avere chiaro in testa perché lo facessimo e cosa volessimo ottenere. Nel 2001 siamo entrati in Afghanistan per eliminare quello che oramai era diventato un santuario per i terroristi di Al Qaeda e poi via via ci siamo imbarcati in una logorante operazione contro insurrezionale sfociata in una missione di nation building, senza volerne sostenere i costi umani e materiali ed i tempi: quella in Afghanistan era una missione impopolare e, in politica interna, chiuderla portava consenso. I generali Stanley McChrystal e David Petraeus, per arrivare ad un Afghanistan capace di camminare da solo, avevano stabilito una dettagliata e sensata road map, che prevedeva graduali passaggi di responsabilità agli Afghani scanditi dal progressivo raggiungimento di determinati capacità e standard che erano la premessa indispensabile al passo successivo. Poiché l’orizzonte di pianificazione a lungo termine dei nostri politici coincide con la prossima tornata elettorale ed essendo i loro principi sono governati dai sondaggi, il raggiungimento di queste capacità è stato invece legato ad un calendario temporale: alla tale data, la tale capacità doveva – probabilmente per imposizione divina? – essere stata raggiunta, indipendentemente dal reale stato delle cose. Non credo ci sia bisogno di dire altro.

Siamo partiti per esportare democrazia, che rimango convinto che di per sé sia una cosa sacrosanta, senza però chiarirci preventivamente le idee su cosa si dovesse intendere per “democrazia”. Sfido chiunque a fare dell’ironia e del sarcasmo o a trovare qualcosa di sbagliato nel sostituire una bieca tirannia teocratica con un governo del popolo, dal popolo e per il popolo e nell’instillare alcuni principi fondamentali, del tipo che anche le donne devono poter studiare e lavorare senza che nessuno per questo gridi al sacrilegio, o che in un tribunale non ci debbano volere tre donne per controbattere la testimonianza di un uomo, o ancora che la musica ed il canto non sono manifestazioni sataniche o che oltre alla lapidazione esistono anche altri modi di amministrare la giustizia. Il costrutto comincia però a scricchiolare quando si decide che, in un paese con quasi l’80% di analfabeti (nel 2002, il 67% dei maschi e l’87% delle donne), il governo del popolo, dal popolo e per il popolo debba per forza essere basato sul suffragio universale, avere un parlamento bicamerale e via compagnia cantando. E scricchiola di nuovo quando si pensa di introdurre un ordinamento giuridico improntato alla laicità dello stato ignorando per incapacità di comprendere la valenza, per quel popolo, della dimensione religiosa, che la cosa ci piaccia o meno. Nonostante prima di ciascuno turno di missione si passi quasi un anno in attività di preparazione e studio, io personalmente ho cominciato a raccapezzarmici solo quando ho deciso che mi trovavo in un paese che, al di fuori delle città, vive nel Medioevo, di cui non riesci a capire i ritmi e le dinamiche a meno di pensare che sei finito nell’anno (ad oggi) 1399 ma non dall’Egira bensì della nostra era, in cui con una qualche macchina del tempo siano stati portati auto e cellulari e che dovevo comportarmi di conseguenza e che conseguenti dovevano essere le mie aspettative.
Ma mi sento di dire che tutto questo succede perché i primi a non volere un Afghanistan più o meno unito sono gli abitanti di quel paese. L’unico momento in cui l’Afghanistan sembrava timidamente avviarsi ad assomigliare ad uno Stato in grado di fornire servizi oltre che ad estorcere tasse fu durante il regno di Zahir Shah, ma purtroppo egli venne detronizzato da suo cugino Daoud nel 1973 con un colpo di stato che diede il via a ormai 50 di guerra, civile prima ancora che contro i sovietici e poi gli occidentali. Dopo la caduta del primo regime talebano, in venti anni di presenza occidentale sono state costruite strade, ponti, dighe, scuole, università, ospedali. A fronte dei meno di 900.000 studenti e scolari, tutti rigorosamente maschi, del 2001, nel 2017 c’erano circa 9.000.000 di studenti e studentesse. Abbiamo riqualificato e rimesso in funzione aeroporti civili, come quello di Herat. Abbiamo portato l’accesso ad Internet e alla telefonia cellulare. Abbiamo scavato pozzi. Facendo realizzare i progetti infrastrutturali e edilizi a manodopera locale abbiamo contribuito a fare emergere sia pur timidamente un ceto piccolo borghese, che in qualunque società rappresenta uno dei maggiori fattori di stabilità. Ricordo i bambini di Moqur (due bimbe fra di loro) che nel 2013 tornavano a casa da scuola in grembiulino e zainetto, e tre anni prima non sarebbe stato nemmeno immaginabile perché non solo non c’era manco una scuola, ma tutto quel che c’era consisteva in una quarantina di soldati impolverati, con due mortai, che cercavano di portare un po’ d’ordine. Finché ne abbiamo avuto l’autorità, abbiamo fatto rimuovere funzionari e militari il cui livello di corruzione era eccessivo anche per una cultura in cui sarebbe grave maleducazione non compensare con lauti donativi qualunque funzionario debba occuparsi di noi a qualunque titolo. Abbiamo vigilato sullo svolgimento delle elezioni. Insomma, posso dire che qualcosa, ben più di qualcosa, abbiamo fatto, che in questi venti anni gli Afghani hanno avuto, magari non sempre e non dappertutto, un futuro davanti a sé.
Ma Pashtun, Tajiki, Uzbeki, Hazara, Haimak, Baluchi sono accomunati solo dall’adesione al proverbio che dice “io contro mio fratello, io e mio fratello contro nostro cugino, noi tre contro il resto del villaggio, il villaggio contro tutti gli altri”. Neanche Ahmad Shah Massoud avrebbe potuto creare, a mio vedere, un reale consenso: lo si vide subito dopo il ritiro sovietico, quando dopo nemmeno tre anni egli stesso cominciò la lotta prima contro i radicali dell’Hezb’- i – Islami di Gulbuddin Hekmatjar, poi contro vari Signori della Guerra e quindi contro i Taliban che nel frattempo avevano assunto il controllo del paese. Durante la guerra civile che seguì, Massoud si scontrò anche con gli Hazara, che non lo considerano esattamente un eroe visto che nel febbraio del 1993 centinaia di Hazara residenti ad Afshar, distretto ovest di Kabul, furono massacrati dalle forze governative su ordine proprio di Burhanuddin Rabbani e di Massoud. Inoltre, Massoud era tajik, mentre la radice del movimento dei Taliban è assolutamente pashtun. Un inciso: molti gruppi di insorti di etnia tagika o uzbeka o comunque non pashtun si attribuiscono l’etichetta di Taliban per atteggiarsi, specie agli occhi dell’Occidente, a combattenti per la loro personale concezione di libertà e, nel contempo, ottenere qualche finanziamento dalla Shura di Qetta, ma si tratta generalmente di gruppi affiliati a qualche aspirante warlord locale o di delinquenti comuni tout court: come dice un adagio, “non tutti i pashtun son Taliban, ma tutti i veri taliban sono pashtun”. A questo dobbiamo unire l’endemica corruzione, il già menzionato disastroso tasso di analfabetismo e soprattutto la distruzione del tessuto sociale di tutte le etnie in conseguenza dell’esodo in Pakistan di quasi 5 milioni di persone in 40 anni di diaspora: vi sono ormai due generazioni che sono cresciute nei campi profughi e sono state sottoposte al martellante indottrinamento salafita e wahabita dei mullah stipendiati in qualche modo dai Sauditi. Quando ero là, era palpabile la sensazione che tutti tendessero a godersi la guerra perché la pace (leggasi, la riconsegna delle chiavi agli afghani ed il ritiro degli infedeli) sarebbe stata terribile.
Abbiamo formato i Quadri delle Forze di Polizia e delle Forze Armate nelle nostre accademie e sul posto, con dedizione e fatica. Abbiamo combattuto gli insorti con loro e al posto loro. Li abbiamo armati forse non fino ai denti visto che non abbiamo dato loro armi pesanti, artiglierie, carri armati ed aerei da combattimento, ma in modo più che decoroso per quello che dovevano fare. E sono d’accordo con Joe Biden (che, detto per inciso, si è trovato a gestire una smobilitazione avviata da Obama e accelerata da Trump) quando dice che se loro non sono disposti a combattere per il loro paese e per quello che quel paese sarebbe potuto diventare, non vedo perché dovremmo farlo noi, e mandare i nostri soldati a morire al posto loro. Ho visto in televisione un giornalista di Canale 5 intervistare Fakrahuddin Kamal, “Generale Afghano”: ex allievo dell’Accademia Militare di Modena e della Scuola Ufficiali dei Carabinieri, nel 2009 faceva, da civile, l’interprete per il nostro contingente, nel 2012 gestiva una ditta di servizi sotto contratto di chiunque pagasse meglio, nel 2013 lo ritrovai capitano dell’Esercito e Aiutante di Campo del Generale Taj Mohammed Jaheed, il Comandante del 207° Corpo d’Armata dell’Esercito Afghano. Quest’ultimo era un tipico esempio di quanto potesse produrre l’approccio afghano all’assegnazione delle cariche, familistico e basato sugli scambi di favori: vanesio, magniloquente, tendenzialmente passivo, arrogante con i dipendenti, a giudizio del suo stesso Ministro della Difesa a malapena adeguato all’incarico che ricopriva … ma era un Tajik del Panshir e membro di una famiglia che controllava alcune importanti vie settentrionali di rifornimento. Riuscì a diventare Ministro degli Interni, fu silurato e risorse come governatore della provincia di Farah dove agli inizi di agosto di quest’anno in cambio di un salvacondotto per l’Iran consegnò ai talebani le chiavi della città e della brigata dell’esercito che vi era stanziata. L’Adjutant General, vale a dire l’Ufficiale a capo di tutti gli aspetti amministrativi del Corpo d’Armata, dalle finanze alla disciplina passando per l’impiego del personale era completamente analfabeta ed aveva ottenuto il grado di Generale di Brigata e la sua posizione in virtù di salda e provata fede al partito Jamiat al Islami e al potente Ministro dell’Energia, Signore della Guerra e “sovrano ombra” di Herat, Ismail Khan. Finché il controllo sulle Forze di Sicurezza afghane rimase in mani occidentali questi uomini per tutte le stagioni non ebbero incarichi ma quando, come in linea di principio è giusto, si cominciò a passare l’autorità delle nomine al Governo Afghano essi riscossero immediatamente qualunque credito potessero vantare e ottennero posti e prebende. Finché rimanemmo noi a “consigliarli” riuscimmo, sia pure a fatica, a tenerli in riga, ma poi… Abbiamo pagato i loro stipendi e finché siamo rimasti lì i soldi, almeno la maggior parte, sono più o meno arrivati dove dovevano arrivare, ma poi sono rimasti nelle tasche più varie, ed è stato il colpo di grazia a quel che restava di quel che eravamo riusciti a mettere in piedi. Questo è avvenuto in tutti i settori. Il rappresentante del Dipartimento di Stato che ha proclamato la cruda realtà che gli USA se ne stavano andando perché ormai non avevano più alcun interesse a rimanere lì è stato pesantemente criticato da ogni parte, ma fino a ieri tutti, ma proprio tutti, dicevano la stessa cosa, o ce ne siamo dimenticati? “Cosa ci stiamo a fare? Che interesse abbiamo?!? I nostri problemi sono nel Mediterraneo, non sull’Hindu Kush! Perché mai dobbiamo continuare buttare soldi quando è chiaro che non ci vogliono?!?” E adesso tutti ma proprio tutti a gridare alla vile ritirata, alla debacle dell’Occidente? “Pacta sunt servanda! È immorale lasciare in mano ai Taliban i nostri collaboratori!” gridava qualcuno, e sono anche d’accordo. Solo che adesso che in Italia ne sono arrivati circa 3.000 (quasi tutti più che scolarizzati e qualificati) la stessa parte proclama che va bene, ma mica devono rimanere tutti qui da noi. Scusatemi, tutti ma proprio tutti, ma è davvero troppo chiedere un sommesso tentativo di fare pace con il cervello?

Fare accordi con “i Taliban”, un movimento come ho detto fluido, variegato, senza un vero capo è una illusione o una foglia di fico e, trattandosi della diplomazia USA ed europea, direi ambedue le cose. Ritenere che vi sia un reale organo direttivo che abbia autorità sulla galassia etnica, tribale e familiare è ancora più illusorio. Lo aveva capito bene l’Impero britannico che, dopo la batosta del 1842, si limitò sempre a tenere d’occhio quel che succedeva oltre Passo Khyber e a mettere periodicamente in piedi qualche spedizione punitiva più o meno lunga, più o meno grossa, quando si trattava di ricordare con modi assai spicci ed incisivi agli infidi pathani di kiplinghiana memoria che non stava bene restituire gli inviati di Sua Maestà un pezzetto alla volta. Oggi l’Occidente nella sua ipocrisia non è capace nemmeno di questo. Dire, come ho sentito, che i Taliban si sono ammodernati è una palese contraddizione in termini. Ma non essendo tutti stupidi, sanno adattarsi, sanno evitare di commettere due volte gli stessi errori. Mostreranno all’esterno una faccia meno feroce di quella dei loro padri e all’interno troveranno il modo di ritornare al loro concetto di società allineata alla loro personale visione dell’Islam senza troppi clamori, e lo stanno già facendo. Sanno che finito il ponte aereo e una volta capito che con buona pace di estremisti ed urlatori l’ondata di profughi, se ci sarà, si riverserà di nuovo su Iran e Pakistan (ci vanno circa tre anni per arrivare, da fuggitivo, in Europa partendo da Kabul) l’Occidente fino al prossimo attentato si girerà dall’altra parte perché i problemi sono ben altri. Intanto la sterminata massa di disgraziati che chiede solo di continuare a strappare di che vivere a una terra dura quanto nessun’altra si allineerà, come ha sempre fatto, ai vincitori, le scuole e le università verranno chiuse, i maestri e i professori fuggiranno o saranno uccisi, strade e ospedali andranno in malora. Era nell’aria da tempo, tutto, ma ugualmente che peccato. E no, no credo che almeno avremo imparato qualcosa, se già si sente invocare l’esigenza di intervenire per garantire il rispetto dei diritti delle minoranze…