Calenda, Roma, e il museo che non c’è

Nel tumulto, stavolta sacrosanto, di discussioni sollevate dalla ritirata degli USA dall’Afghanistan e dagli eventi drammatici che quella ritirata ha innescato, può sembrare futile discutere del piccolo dibattito sollevato da una proposta di uno dei candidati a Sindaco di Roma, in attesa delle elezioni previste per ottobre.
Se ne scrivo, non è solo perché, vivendo a Roma, sono probabilmente più sensibile di altri alle sorti della nostra Capitale, ma perché, nel suo piccolo, questa vicenda racchiude molte delle ragioni delle difficoltà e del declino del nostro Paese. Esagero? Forse sì, ma vediamolo insieme.

Iniziamo dalla proposta di Calenda, che sicuramente molti non conosceranno, e che si può leggere integralmente QUI. In sintesi, l’idea è quella di accorpare in un’unica area museale, collocata nei palazzi del Campidoglio, i Musei Capitolini (che, oltre che appunto al Campidoglio, hanno una sede anche presso la Centrale Montemartini), il Museo Nazionale Romano (con sedi a Palazzo Massimo, a Palazzo Altemps, alla Crypta Balbi e alle Terme di Diocleziano), il Museo di Roma di Palazzo Braschi, il Museo della Civiltà Romana all’EUR (attualmente chiuso). L’obiettivo (secondo il documento che può essere letto integralmente al link che ho indicato sopra) sarebbe «creare un unico Museo di Roma [e] una vera sinergia tra il Museo di Roma e l’Area Archeologica, rendendo tutto il Campidoglio una grande area museale che presenti una narrazione continua e suggestiva della storia di Roma». Non entro ovviamente qui nei dettagli di come la proposta ipotizza di organizzare questa narrazione.

Vale invece la pena aggiungere che il modello che Calenda esplicitamente prende come riferimento è quello dei grandi musei che caratterizzano le maggiori capitali europee: il Louvre, il British Museum, il Reina Sofia di Madrid, eccetera. Insomma, il museo della città di Roma inteso come polo di attrazione per i turisti, anche tenuto conto del fatto che l’attuale assetto dei musei della Capitale, statali e comunali, è «frammentato» e che il risultato è che i vari musei che ho citato sono poco visitati.

Le reazioni sono state diverse, ma quelle degli addetti ai lavori, in particolare romani, sono state prevalentemente negative. È difficile dar conto di tutte, quindi ne seleziono solo due che trovo particolarmente interessanti: quella pubblicata su Micromega da Mariasole Garacci, storica dell’arte ed esperta guida turistica capitolina, e quella condivisa su Facebook e poi elaborata in un più articolato e, devo dire, propositivo articolo su Artribune da Valentino Nizzo, brillante direttore (“brillante” non è ironico: Nizzo è davvero bravo e creativo) del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (che, essendo dedicato a popoli pre-romani, non è coinvolto nel progetto di Calenda). Entrambi gli interventi affermano sostanzialmente che l’operazione di accorpamento da un lato non sarebbe tecnicamente fattibile (gli spazi sarebbero insufficienti, le attuali competenze divise tra Stato e Comune non la consentirebbero, eccetera), e dall’altro non sarebbe auspicabile, perché (sintetizzo, certamente male) snaturerebbero la storia e la vocazione degli attuali spazi museali e delle collezioni in essi ospitate, la cui “frammentarietà” è in realtà un connotato storico essenziale e non un limite superabile sommandole e riorganizzandole. D’altra parte, entrambi i commenti critici sono decisamente freddi verso i musei “alla Louvre”, tanto che la Garacci inorridisce al pensiero di offrire ai visitatori «uno spaventoso museo unico, organizzato come un grande centro commerciale o una multisala cinematografica, bisognerebbe incoraggiarli a scoprire i tanti angoli e aspetti di Roma, possibilmente alleviando il centro dal logorante passaggio quotidiano di plotoni di turisti». Sia pure più misuratamente e costruttivamente, Nizzo riprende argomentazioni simili, sempre contestando un modello museale come quello del Louvre, dove «si trova tutto come nel più attrezzato centro commerciale», ma non si capirebbe quello che si vede. Il centro delle sue considerazioni è che «non sono i numeri dei visitatori a determinare l’importanza dei musei», e quindi pazienza se i Musei Capitolini hanno pochi visitatori. Semmai, Nizzo auspica la costituzione di un altro museo, un Museo della Città, sempre senza l’ambizione di attirare milioni di visitatori, perché Roma a suo dire «ha già attrattori turistici plurimilionari e difficilmente può permettersene e sostenerne altri».
Per completezza, tra le reazioni positive o almeno possibiliste, segnalo quella del direttore degli Uffizi Eike Schmidt, che sottolinea che le ragioni storiche della frammentazione delle sedi museali non sono un buon motivo per perpetuarle.

D’accordo, direte, ma cosa c’è di tanto interessante in questa storia? Non sono le solite beghe tra un candidato in cerca di argomenti “visibili” per raccogliere consensi e la struttura sulla quale vorrebbe intervenire, che reagisce? In un certo senso sì; però il punto è che di fronte a un politico che evidenzia un problema e propone una (parziale) soluzione, gli esperti addetti ai lavori ignorano o negano completamente il problema e si limitano a criticare l’ipotetica soluzione. Eppure, proprio in quanto addetti ai lavori, il problema li riguarda, no?

Io, che sono solo un cittadino qualsiasi, ritengo che il problema esista e mi riguardi. Vediamo quindi di precisarlo meglio, prima di occuparci della “soluzione Calenda”: in che consiste il problema? Ed è davvero un problema?

Il problema è che Roma, la città al mondo con il più grande patrimonio archeologico e artistico, ha un’organizzazione di musei pubblici (statali e comunali) costituita, per le ragioni storiche che i critici di Calenda ricordano, da sedi piccole, distribuite in diverse aree di una città enorme e dove spostarsi è un incubo, prive (tranne rarissimi casi, come, direi, la Galleria Borghese) di una caratterizzazione forte e facile da comprendere per il turista non precedentemente preparato. Il risultato, semplicemente, è che questi musei sono visitati pochissimo. Facendo riferimento all’Annuario Statistico del Comune di Roma, vediamo i dati dei visitatori di alcuni tra i principali musei romani nel 2019 (anno ancora precedente alla pandemia di Covid-19):

Ora, pur tenendo presente che alcuni di questi luoghi sono a ingresso libero (come il Pantheon, che guida questa classifica), è facile osservare che il vero grande museo di Roma sono i Musei Vaticani, che però appartengono allo Stato della Città del Vaticano. Mi sembra abbastanza evidente che i musei che il programma di Calenda vorrebbe accorpare raccolgano oggi un numero di visitatori inadeguato, visto che tutti insieme non raggiungono le visite del Museo di Castel Sant’Angelo. Eppure, milioni di turisti visitano i luoghi immediatamente adiacenti al Campidoglio, a partire dal Foro Romano per arrivare al Vittoriano; ma evidentemente i Musei Capitolini non hanno la “massa critica” per entrare negli itinerari turistici di massa, e non è pensabile che in una città dalla mobilità impossibile come Roma i turisti decidano di fare quattro o cinque tappe per apprezzare il complesso delle collezioni distribuite (frammentate, direbbe Calenda) nei vari siti, in nome delle ragioni storiche che citavo. Non ci vanno e basta: è davvero meglio così?

Quanto all’idea di «incoraggiare i turisti a scoprire i tanti angoli e aspetti di Roma», è francamente inverosimile. Bisogna, direi, innanzitutto prendere atto della realtà, ossia che muoversi attraverso Roma per un turista (ma anche per chi ci vive) è un incubo, e nessuno ha voglia di trascorrere ore nel traffico per apprezzare, che so, la Garbatella o il Quartiere Coppedè. Sempre per restare nel mondo reale e non nelle utopie, oggi la permanenza media di un turista straniero a Roma è 2,5 giorni (fonte: l’Annuario già citato): si può ragionevolmente pensare che, con le mille e incredibili attrattive che ha il centro storico di Roma, il turista medio possa spendere del tempo nei quartieri esterni? Dovrebbe restare almeno una settimana, il che ovviamente non accadrà solo perché noi lo troveremmo desiderabile; quello che potrebbe accadere, forse, è che lo stesso turista allunghi di una mezza giornata il suo soggiorno se ci fosse una singola destinazione molto attraente e accessibile a cui dedicare qualche ora di visita.

Naturalmente, questo non vuol dire che la proposta di Calenda sia realizzabile, o che produrrebbe il risultato che dicevo. Vuol però dire che, in un paese dove si continua a dire che «i beni culturali sono il nostro petrolio», chi lavora nella loro gestione deve porsi anche e primariamente l’obiettivo di renderli generalmente fruibili e commercialmente redditizi. Non basta essere scientificamente ineccepibili, bisogna anche essere efficaci, e grandi musei come il Louvre, pur essendo (o forse proprio perché sono) raccolte di opere che non rispondono a un filo conduttore storicamente omogeneo, sono efficaci e attirano il grande pubblico. E il grande pubblico serve, se si vuole che il patrimonio artistico e monumentale rappresenti davvero una fonte di ricchezza e non solo un costo. Ho trovato emblematica una discussione su Facebook: Calenda (sempre lui!) ha scritto un post per criticare il fatto che ad agosto le diverse sedi del Museo Nazionale Romano aprano solo dalle 14.00 (!), e diversi lettori, evidentemente “addetti ai lavori”, hanno risposto che senza soldi per aumentare il personale non è possibile coprire più turni in un periodo di ferie. Certo, è logico; logico in una filosofia in cui i Musei sono dei puri centri di costo, e assorbono denaro pubblico per la loro semplice sussistenza. L’unica misura possibile per risollevarli è dedicare loro più risorse. Se uscissimo da questa ottica, però, forse ci chiederemmo quale assetto dovrebbero avere questi Musei per autosostenersi, e forse giungeremmo alla conclusione che più sedi comportano non solo minore attrattività, ma anche maggiori costi di gestione. Noi dobbiamo pretendere che i musei di Roma rappresentino un reddito netto per la collettività, non un costo netto. Se non si riesce a fare questo a Roma, dove mai si potrà farlo?

In conclusione, mi pare che questo episodio metta in luce alcune delle tipiche e inveterate magagne italiane:
1) un politico in campagna elettorale, che indica un obiettivo e propone un intervento;
2) la comunità degli “addetti ai lavori”, inclusi molti che lavorano tanto e con passione, che anziché ragionare sull’obiettivo, ed eventualmente proporre una soluzione modificata o diversa per raggiungerlo, si limita a criticare la proposta, tacciandola al contempo di incompetenza e di “sacrilegio”;
3) la comunità allargata dei cittadini, incapace di esigere dagli addetti ai lavori l’accettazione di obiettivi non autoriferiti (la gestione “scientificamente ineccepibile”, e alla fine sterile, dei beni) e dal politico la capacità di realizzare progetti.

Il risultato è generalmente, e sarà quasi certamente in questo caso, l’incancrenire dei problemi che il politico aveva sollevato più o meno strumentalmente (e che in questo caso ho cercato di mostrare che sono reali), il rafforzarsi del potere di veto degli “addetti ai lavori” che paralizza in tutti i campi questo Paese, l’impossibilità di costringere i politici a rendere conto agli elettori del proprio operato, grazie agli alibi che l’irresponsabilità diffusa offre (“non me l’hanno lasciato fare”).

Roma, che nei decenni ha vissuto e vive uno sconfortante declino, il depauperamento delle sue attività economiche, il peggioramento delle condizioni di vita dei suoi cittadini, la cronica incapacità di mettere a frutto il proprio sconfinato patrimonio (e mettere a frutto significa innanzitutto produrre SOLDI, che in Italia devono peraltro servire anche a pagare la manutenzione di quei beni culturali che non possono autosostenersi e che non hanno la fortuna di essere collocati lungo i flussi di milioni di turisti), questa Roma continuerà a rendere grama e irragionevolmente costosa la vita dei suoi cittadini, che però potranno continuare a (non) visitare i Musei Capitolini, scampati alle sinistre trame del perfido Carlo Calenda. Evviva.