Se ne comincia a parlare anche in Italia: una delle conseguenze di questa lunghissima emergenza pandemica, e del lento e contrastato ritorno alla normalità, è che questa presunta normalità non è più accettata acriticamente ed è anzi messa a confronto con la presunta anomalia delle nostre condizioni di vita in presenza delle restrizioni e delle precauzioni che un po’ in tutto il mondo sono state e sono ancora parzialmente in vigore. In un certo senso, quello che era parte della nostra vita due anni fa oggi è qualcosa da reintegrare nella nostra esistenza, e come tale è sottoposto all’onere della prova di essere per noi utile e non dannoso, utile, ovviamente, per il noi di oggi e non per il noi di prima. E il risultato di un simile riesame non è scontato.
Limitandoci a un ambito prevalentemente lavorativo, quello che sta emergendo è che questo riesame può avere effetti enormi e imprevedibili. È quello che sta accadendo negli USA, dove il tentativo delle aziende di ripristinare le normali condizioni di lavoro ha provocato un fenomeno che è stato battezzato Great Resignation, insomma delle dimissioni di massa. Il grafico qui sotto, che può essere consultato anche sul sito di Statista, mostra che da quattro mesi il numero degli statunitensi che danno le dimissioni supera ogni precedente degli ultimi vent’anni, e che a settembre, l’ultimo mese qui riportato, ha sfiorato i quattro milioni e mezzo di unità, un livello certamente impressionante anche per un mercato del lavoro intrinsecamente dinamico come quello.

E gli USA non sono soli, come si può ad esempio leggere in un articolo del Washington Post dal titolo The Great Resignation goes global, nel quale si esamina la situazione anche di molti altri paesi del mondo. Ma perché ci sono tutte queste dimissioni? Da un certo punto di vista è anche sorprendente, perché ci si potrebbe aspettare che in un periodo di crisi i lavoratori si tengano stretto il posto, per non trovarsi disoccupati in un momento difficile; in effetti, come si vede sempre dal grafico qui sopra, il numero di dimissioni in USA è sempre calato nelle fasi di depressione dell’economia, risalendo poi sempre molto lentamente a crisi superata. Questa volta, invece, la reazione dei lavoratori, nel momento stesso in cui il sistema economico ha tentato di riprendere il suo ritmo precedente, in molti casi è stata “no grazie”.
Ma perché tante persone hanno volontariamente lasciato il lavoro? Qui, inevitabilmente, si passa dai grandi numeri alla narrazione di mille casi individuali, ciascuno con la sua storia. I media USA stanno ovviamente dedicando ampia attenzione a questo tema, anche perché la somma di queste scelte individuali ha un impatto, per ora negativo, sull’economia nel suo complesso: le motivazioni dei dimissionari vengono esplorate in articoli come questo, che mostrano che molti, dopo aver potuto a lungo lavorare da remoto, organizzandosi in autonomia e con i propri ritmi, non sono disposti a rientrare in una routine stressante e frustrante. D’altra parte, questo non significa che queste persone debbano uscire dal mercato del lavoro, o che, a lungo termine, per l’economia USA tutto questo sia necessariamente un male: molti di questi ex-dipendenti ritrovano abbastanza rapidamente un lavoro a condizioni migliori, magari con la possibilità di svolgerlo in tutto o in parte da casa, mentre altri diventano microimprenditori e possono gestire con più autonomia i loro impegni. Alcune storie esemplari in questo senso sono raccontate in questo articolo. Dal punto di vista delle aziende, si sta diffondendo la consapevolezza che i dipendenti non sono necessariamente disposti ad accettare salari bassi condizioni di lavoro disagevoli, e le società di consulenza aziendale raccomandano ai datori di lavoro di non sottovalutare questo fenomeno. Il risultato, secondo alcuni analisti, sarà un miglioramento delle condizioni di lavoro.
E in Italia? Da noi, purtroppo, il mercato del lavoro è ben diverso, ed è molto più difficile dimettersi con la consapevolezza di poter facilmente aprire un’attività propria o trovare un altro lavoro alle proprie condizioni, rinunciando magari a un po’ di soldi in cambio di più libertà. Eppure, come possiamo leggere nell’articolo Cosa ci dice l’aumento delle dimissioni dal lavoro pubblicato sull’ottimo sito di informazione e approfondimento lavoce.info, anche in Italia le dimissioni crescono, e crescono in particolare nelle aree dove l’economia è più solida, mentre come al solito al Sud le cose vanno diversamente.
Insomma, con tutte le maggiori difficoltà che come al solito propone il contesto italiano, anche da noi si sta verificando qualcosa di analogo, almeno nelle aree a maggior benessere, ed è possibile che alla fine il risultato sia un riequilibrio delle condizioni di lavoro, visto che negli ultimi decenni il susseguirsi di crisi economiche ha aumentato il peso negoziale delle aziende nei confronti dei dipendenti e c’è stato un obiettivo peggioramento delle condizioni dei lavoratori non “pregiati”.
Dobbiamo quindi riesaminare criticamente il nostro rapporto di lavoro, e magari lasciarlo? Non credo che possa esserci una regola valida in generale. Credo però che il rapporto tra lavoro e vita personale non possa e non debba essere gestito privilegiando sempre il primo e penalizzando la seconda. Le molte ore che tanti di noi trascorrevano negli spostamenti da e per il posto di lavoro sono qualcosa che nessuno rimpiange, e che in molti casi possono essere ridotte se non eliminate. Articoli come quello recentemente uscito su Internazionale sulla “voglia di tirare i remi in barca” sono un segnale non solo limitato ai privilegiati che possono permettersi di autogestire il proprio impegno, e i datori di lavoro, che a volte in questi mesi abbiamo sentito lamentarsi di non trovare sufficiente manodopera, devono secondo me riconoscere il valore del benessere personale dei loro dipendenti per “ripartire”, in tutti i sensi.