Come ogni anno, il Censis ha pubblicato il suo Rapporto annuale (qui ne trovate la sintesi), e come ogni anno ha scelto, per sintetizzarne i contenuti, un connotato del Paese che emerge e caratterizza l’anno esaminato, un po’ uno slogan, insomma. Per il 2021, questo slogan è La società irrazionale, con riferimenti espliciti, ma non esclusivi, alle posizioni no-vax e antiscientifiche in generale. Secondo il Censis, «L’irrazionalità ha infiltrato il tessuto sociale», e siamo investiti da «un’onda di irrazionalità che risale dal profondo della società».
Per noi di Hic Rhodus, non si tratta certo di un tema nuovo. Molto prima che la pandemia inghiottisse la nostra quotidianità, avevamo ben chiari i segni di una robusta e allarmante presenza di irrazionalità, anzi di irrazionalismo, nel nostro paese, e non solo. In un articolo di cinque anni fa scrivevo (perdonatemi l’autocitazione, ma desidero chiarire che il Covid è solo un’occasione per osservare un fenomeno molto più radicato e complesso): «l’universalità della Ragione è divenuta piuttosto un mal digerito elemento di spersonalizzazione […] La Ragione, in ultima analisi, è qualcosa di estraneo alla mia identità: un qualsiasi computer sarà sempre più razionale di me, ma io posso fare qualcosa che un computer non può fare: posso essere illogico. E visto che posso, lo faccio», e concludevo: «Insomma, è in atto la ribellione alla tirannia della Ragione. […] Si tratta di una ribellione sistematica e quasi “automatica”, e i suoi effetti toccano tutti. Speriamo di sopravviverle».
Ecco, forse anche oltre le mie aspettative, la ribellione contro la razionalità è letteralmente diventata una questione di vita o di morte. Il fatto che oggi, cinque anni dopo questo mio articolo (e altri, anche precedenti, sia miei che di Claudio Bezzi), il Censis osservi questo fenomeno e lo ponga al centro della sua analisi è certamente indicativo, ma non sorprendente. Semmai, l’analisi del Censis mostra a sua volta i segni di svolgersi in uno scenario in cui la razionalità non è redditizia, e, almeno ai miei occhi, lo stesso Rapporto non supera a pieni voti un esame di razionalità. Vediamo perché, e scopriremo che le ragioni sono, almeno secondo me, illuminanti.
Cominciamo dagli elementi condivisibili: innanzitutto, la rilevanza dell’irrazionalismo come fattore non marginale e non occasionale della nostra vita sociale. Il Censis è consapevole che esso non è una nota di colore, o un epifenomeno transitorio che accompagna lo stress sociale di questi ultimi due anni, ma che è radicato, come citavo in apertura, nel profondo della società. Poi, personalmente condivido la valutazione che questo non sia indipendente da un senso di frustrazione e di defraudazione che merita un approfondimento a parte e che pure Claudio e io abbiamo affrontato sotto diversi punti di vista negli scorsi anni (ma per oggi ho già esaurito la mia quota di autocitazioni). Osserviamo questa tabella, sempre prelevata dalla sintesi del Rapporto del Censis:

Ora, guardiamo un po’ più da vicino questi dati, sia pure nella loro formulazione molto vaga. La grande maggioranza degli italiani, e la quasi totalità dei giovani, ritiene di meritare di più, e non solo nel lavoro, ma nella vita in generale. Certamente è vero che i nostri giovani sono vittime di pesanti ingiustizie intergenerazionali, ma cosa vuol dire che meriterebbero di più dalla vita? Chi, quali meccanismi, dovrebbero remunerarli (o remunerarci) equamente?
A me pare che questo malessere sia la spia di un senso di impotenza e contemporaneamente di un’aspettativa tipicamente italiana, quella che “qualcuno” sia responsabile di darci quello che ci spetta (?). L’idea che quello che ci accade sia diretta, sia pure non immediata, conseguenza delle nostre azioni è, in un contesto in cui le nostre aspirazioni vengono spesso frustrate, rifiutata: è qualcun altro che dovrebbe riconoscere e premiare i nostri meriti. Questo senso diffuso di sentirsi derubati di qualcosa a cui si avrebbe diritto è un elemento a mio avviso decisivo nel facilitare il diffondersi di molti fenomeni che siamo tentati di considerare, genericamente e semplicemente, frutto di una radicale irrazionalità o, ancora meno acutamente, di stupidità. In questo secondo me il Censis ha ragione.
Vediamo ora cosa non è persuasivo nelle pagine del Rapporto. Nel connotare il fenomeno dell’irrazionalità più o meno diffusa, il Censis sceglie, come indicatori, alcune opinioni o, meglio, credenze, che giudica frutto di «una irragionevole disponibilità a credere alle più improbabili fantasticherie», e cumula, tra le credenze irrazionali, o presunte tali, affermazioni assai diverse tra loro, spesso vaghe e a mio avviso neanche avvicinabili, come si vede nelle tabelle qui sotto.


L’impressione che ne traggo è che questa analisi anziché essere spassionata e “scientifica” cerchi di confermare un preconcetto, ossia che parta da un profilo ben preciso che dovrebbe accomunare le credenze irrazionali e complottiste. Le classificazioni presentate, senza un particolare legame logico, paiono piuttosto funzionali a dividere le persone secondo gradi di conformità a questo profilo, tendenzialmente meno acculturato, diffidente verso le istituzioni e i “poteri forti”, o addirittura negazionista.
Non credo, onestamente, che sia questo un modo utile di affrontare il problema. Come mi è capitato di osservare qualche giorno fa discutendo con alcuni amici, la razionalità non è una facoltà intellettuale o cognitiva, bensì una pratica di vita. Non è una collezione di credenze plausibili, ma una prassi, che si traduce nelle scelte che compiamo quotidianamente. Certo, disporre di migliori strumenti culturali o di informazioni più accurate favorisce un comportamento razionale, ma alla radice c’è una disposizione ad agire, e non un insieme di opinioni. Come scrivevo all’inizio richiamando il mio vecchio articolo, agire in un certo modo è la vera affermazione della propria identità, e chi sente insidiata questa identità, socialmente intesa, è più facilmente portato a rivendicarla a dispetto della razionalità che in fondo è di tutti e quindi di nessuno. E per converso operazioni come quella del Censis, che cerca di stabilire un identikit dell’italico irrazionale, mi sembrano a loro volta mancare il punto e anzi rischiare di essere controproducenti. Non abbiamo bisogno di tracciare nuove linee di demarcazione in ultima analisi fittizie e di accrescere una polarizzazione già patologica, che non risponde né a divisioni di classe né a opposti modelli politici, ma solo a diversi meccanismi di riconoscimento e affermazione della propria identità. E non sono solo complottisti e negazionisti a cercare questa affermazione attraverso mezzi in ultima analisi ingannevoli, ma forse anche chi, leggendo il Rapporto, si senta confermato nella sua persuasione di essere indubbiamente e infallibilmente razionale.