Il moralismo, la guerra e la cronaca nera

Ormai la guerra scatenata in Ucraina dura da un mese abbondante, e abbiamo assistito allo spettacolo tragico dei combattimenti e dei bombardamenti, ma anche a quello grottesco offerto sui nostri media dalle discussioni più o meno sofisticate sull’attribuzione delle colpe. Confesso di non guardare mai la TV, e di leggere pochissimo i giornali online o cartacei, quindi di queste discussioni mi arrivano frammenti, echi, brani rielaborati dai commenti che leggo (impossibile evitarlo, anche volendo) sui Social e in generale su Internet. Proprio perché le mie fonti sono del tutto indirette, posso evitare di esprimere giudizi su questo o quel commentatore, e proporre una considerazione invece di carattere generale.

Si tratta della sconsolata constatazione che praticamente tutti coloro che parlano di questa guerra lo fanno da un punto di vista moralistico. Lo scopo del 99% delle argomentazioni che raggiungono le mie riluttanti orecchie è dimostrare che l’uno o l’altro dei contendenti, o dei loro simpatizzanti, è cattivo. E, nello spregiudicato mondo della politica internazionale, non è difficile dimostrare che chiunque ha qualche scheletro nell’armadio. Facilissimo per Putin, che gli scheletri li tiene in bella vista sulla scrivania, ma anche per il governo ucraino, o per la Nato e in particolare per gli USA, e così via. Se dai protagonisti assoluti di questa crisi si scende a personaggi meno decisivi, la musica non cambia: Draghi, la von der Leyen, la sinistra, la destra, fino al barista all’angolo o alla zia che da giovane votava DC, tutti in passato sono stati responsabili, corresponsabili o almeno taciti favoreggiatori di qualche crimine, anzi, per essere coerenti con il modo di ragionare alla base di questi discorsi, dovremmo dire di qualche peccato, perché, almeno nella nostra cultura, un potente framework alla base del moralismo è ovviamente quello cattolico.

E, naturalmente, una volta che si sia entrati nella (pato)logica moralistica, chiunque in passato si sia macchiato di un peccato oggi ha torto per definizione. Di fronte a qualunque fatto oggi rilevante, la reazione tipica dell’interlocutore tipico è «sì, ma Zelensky…/ Putin…/ la Nato…/ noi italiani… in questa o quell’occasione… e quindi oggi non può/possiamo…», sostituendo i puntini di sospensione con quello che vi pare. Il presupposto implicito di questo tipo di “ragionamento” è che per assumere una posizione o un’iniziativa validamente giustificata si debba essere moralmente puri, secondo la logica, appunto, del biblico «chi è senza peccato scagli la prima pietra». E, dal momento che nessuno è senza peccato, allora il “ragionamento” prosegue o secondo una linea “neutralista” di totale ipocrisia («né con Putin, né con Zelensky, né con la Nato, né con la Russia, né con Atene, né con Sparta») o secondo una completamente opportunistica e cinica («perché dovremmo interessarci dell’Ucraina? Le sanzioni alla Russia per noi sono dannose! Tanto la Russia vincerà comunque, quindi che senso ha inimicarsela?»). E anche le reazioni al neutralismo ipocrita (perché sappiamo tutti che, a meno di essere storicamente neutrali come la Svizzera, che peraltro ha aderito alle sanzioni contro la Russia, la neutralità non esiste) o all’isolazionismo opportunista (e terribilmente miope), sono quasi sempre a loro volta moraliste, e tentano di dimostrare che Putin è un dittatore (ma va’?), che in Cecenia… in Siria… in Crimea…, ossia che i russi sono più cattivi, e che “noi” (la Nato, l’UE, gli USA…) in fondo siamo relativamente buoni. E questo non accade solo in Italia: anche Biden che taccia Putin dell’epiteto di macellaio non fa altro che moralismo anziché, come dovrebbe, politica. Allo stesso modo, è a mio avviso un’aberrante manifestazione di moralismo sottoporre a interdizioni e discriminazioni singoli cittadini russi (studiosi, artisti, atleti, scacchisti…) solo per la loro cittadinanza e magari perché non si sono dissociati dalla guerra avviata dal loro paese o addirittura la approvano. In altre parole, non devono poter svolgere la loro attività perché sono cattivi. Una follia, indegna.

Insomma, è incredibilmente difficile (e probabilmente anche questo articolo non ci riuscirà) far capire che bisogna abbandonare completamente l’impostazione moralista, e che questo non significa essere indifferenti ai torti e alle ragioni, anzi, al contrario. Non essere moralisti significa partire dal presupposto che, in un mondo dove la cooperazione e la competizione tra Stati sovrani sono entrambe considerate necessarie e fisiologiche, la civile convivenza internazionale si basa sull’accettazione (fragile, e faticosamente costituita) di una serie di regole di comportamento, che attaccare militarmente uno Stato indipendente è la peggiore violazione possibile di queste regole, e che l’unico modo per difendere un sistema di regole è rendere conveniente rispettarle e dannoso violarle. In questo non interviene nessun tipo di giudizio morale, come non dovrebbe intervenire nessun giudizio morale nell’intervento della Polizia per fermare un’aggressione in corso, o nell’applicazione della legge ordinaria da parte della Magistratura. Semplicemente, è interesse della collettività che chi aggredisce uno Stato sovrano, o un vicino di casa, debba essere fermato e se ne debba pentire, naturalmente evitando danni peggiori, quali che siano le ragioni prossime o remote che lo hanno spinto. Non si tratta di un giudizio di superiorità morale, e nessuno si chiede se il poliziotto che arresta un ladro sia in effetti buono, né, addirittura, se non abbia a sua volta in passato violato la legge; se lo ha fatto e non è stato punito, è un fallimento della legge che non può essere usato per affermare che far rispettare la legge sia sbagliato, semmai il contrario. I giudizi morali sono una questione strettamente privata e non devono avere diritto di cittadinanza nella gestione della vita pubblica, né tantomeno in quella della politica internazionale. Lasciare che siano essi a guidare le nostre scelte pubbliche è causa dei peggiori disastri e, spesso, dei peggiori oltraggi ai principi morali in cui tutti diciamo di credere.

Ma mi rendo conto di come questa mia opinione, che è sostanzialmente un’affermazione di laicità, sia in realtà incompatibile con la stragrande maggioranza dei comportamenti che, a tutti i livelli, segnano la nostra vita pubblica. Anche l’esempio che ho fatto relativamente all’applicazione della legge ordinaria è, nella pratica, assolutamente disatteso sia da noi cittadini comuni sia, anche, dalle autorità. Qualche giorno fa, ho per caso assistito a un brano di una vecchia trasmissione che riguardava un caso di cronaca nera, l’assassinio di una donna di cui, secondo la sentenza definitiva della Magistratura, il marito era stato il mandante. Ebbene, praticamente tutta la trasmissione era dedicata non già a ricostruire i fatti in base a prove, indizi materiali, eccetera, che dovrebbero essere l’unica cosa davvero rilevante in un caso giudiziario, ma a definire moralmente la personalità del marito della donna. E questo ritratto morale era interamente costruito in base a materiale processuale: intercettazioni, SMS, testimonianze, nessuno dei quali riguardava direttamente i fatti del delitto (ma: il marito tradiva, voleva riconciliarsi, era più o meno affettuoso con la moglie o con l’amante, eccetera). Il giudizio sulla colpevolezza del marito (e, intendiamoci, presumo che colpevole fosse), evidentemente, per il pubblico, per la conduttrice, ma in fondo anche per gli inquirenti, è indissolubile dal giudizio morale: alla fine, è colpevole innanzitutto perché è cattivo. Il legame tra questo atteggiamento e quello che ho descritto all’inizio relativamente alla guerra in Ucraina è, mi piaccia o no, strettissimo, e devo evidentemente adattarmi all’idea che il moralismo sia inestirpabile dalla nostra società.

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