4) Quali strumenti per la conoscenza sociale – Parte I

Questo testo fa parte di una serie; la presentazione del lavoro e l’introduzione generale la trovate QUI.

Tutta la serie la trovate cliccando l’hashtag #dossier-metodo.

4.1) Obiettivi diversi, metodo diverso

Quanto precede rende palese la necessità di un metodo specifico delle scienze sociali rispetto a quelle fisiche.

Ciò che chiamiamo ‘metodo’ è infatti semplicemente un processo logico e controllato di imputazione di connessioni fra eventi, oggetti, fatti, luoghi, utile (il processo) per giungere a una conoscenza più avanzata (una spiegazione, una descrizione, una comprensione, un’ipotesi). Il concetto di ‘ metodo’ non include necessariamente strumenti e tecniche. Il telescopio per l’astronomo non è “il metodo”, ma uno strumento ideato nel tempo e ritenuto utile per favorire l’osservazione che comunque si faceva (con evidenti limiti, ma si faceva) anche prima; così il microscopio, così ogni strumento ideato, grazio allo sviluppo tecnologico, per favorire il metodo, che resta esclusivamente un processo mentale, cognitivo. 

Nelle scienze sociali abbiamo inventato interviste, questionari, elaborazioni di dati, che non sono il metodo, ma strumenti piegati alla necessità del metodo, che anche qui è un processo mentale, cognitivo.

Quando sopra ho scritto che questo processo è “logico e controllato”, intendevo segnalare un elemento che rende il metodo (inteso: scientifico) differente dal senso comune. Il pensiero scientifico è privo di fallacie. Può arrivare a conclusioni errate, ma è privo di fallace; per esempio non può essere fondato su asserti indimostrati (per esempio l’esistenza di Dio; lo scienziato può essere credente, ma la sua scienza prescinde da Dio e quindi non può, per esempio, essere un creazionista); le connessioni fra asserti non posso essere arbitrarie ma argomentate e necessarie; le generalizzazioni devono essere dimostrate, o quanto meno ipotizzate sulla base di inferenze credibili; cose così. In questo senso il metodo scientifico è identico per tutte le scienze, naturali o sociali. Ma siamo su un livello di generalità molto alto.

Scendendo leggermente di livello, vediamo subito dove si separano le due grandi famiglie scientifiche: in un caso (scienze naturali) l’oggetto dell’indagine è separato dal ricercatore, presenta proprietà fisiche costanti (o che mutano in maniera prevedibile) e quindi può essere oggetto di misurazioni (distanze, peso, velocità, massa, tipo di reazione introducendo un fattore terzo… Ovviamente in questo ragionamento semplificato non è il caso di tirare in ballo la fisica dei quanti e il principio di indeterminazione di Heisenberg); nel secondo caso (scienze sociali) l’oggetto di indagine è parte del ricercatore e del suo contesto, non è affatto separabile da lui e non è in nessun caso misurabile, per molte ragioni implicite nella prima parte di questo testo e per altre che vedremo a breve. In un certo senso lo scienziato sociale indaga se stesso o, quanto meno, indagando i suoi simili introduce se stesso nella ricerca; una prerogativa inimmaginabile per l’astrofisico o il biologo o il chimico.

Il fatto che l’invenzione del telescopio abbia dato impulso all’astronomia e al calcolo matematico del moto dei pianeti, non significa che il telescopio sia il metodo; il metodo resta quello di prima, una riflessione sul fatto che alcuni punti luminosi del cielo non restano fissi sulla volta celeste ma vagano con un moto non intuitivo (pianeti = stelle erranti, secondo l’etimo). Tutti gli strumenti inventati dall’uomo, dal telescopio in poi, sono stati necessari per perfezionare l’osservazione e indurre nuove ipotesi e riflessioni; il telescopio è stato semplicemente una protesi dell’occhio, come lo è il microscopio. Tutti e ciascuno gli strumenti tecnologici usati nelle scienze della natura sono protesi dei sensi umani, protesi che aiutano l’osservazione e quindi la cognizione.

Nelle scienze sociali succede la stessa cosa; per aiutare l’osservazione sociale, gli scienziati sociali hanno inventato protesi di altra natura, non dell’occhio, o dell’orecchio, ma del cervello: questionari, focus group, elaborazioni multivariate, servono per conoscere più in fretta l’opinione di molteplici informatori, e per elaborare più compiutamente e celermente imponenti quantità di dati. Ciò consente allo scienziato sociale di inferire ipotesi, formulare teorie, produrre descrizioni, fornire comprensione e costruire senso sociale, come abbiamo già visto nel cap. 3.

L’essere, le tecniche, protesi, sia nelle scienze fisiche che sociali, è un’uguaglianza che ha a che fare con l’unicità del metodo scientifico (livello superiore della scala di generalità) ma sarà già piuttosto evidente che i metodi (plurale) specifici sono piuttosto differenti: come già detto la misurazione (in senso lato, nelle sue molteplici declinazioni) per le scienze della natura; cosa, quindi, per le scienze sociali?

4.2) L’impossibile misurazione nelle scienze sociali

Sgomberiamo subito il campo dal problema della misurazione, che malgrado biblioteche di studi che spiegano il problema, negandone la possibilità nelle scienze sociali, continua imperterrita a essere proposta.

Per misurare qualcosa occorre un’unità di misura, che può benissimo essere inventata e non esistere in natura; per esempio il metro. Inventata l’unità di misura stabiliamo delle regole per applicarla; per esempio: poggiare in sequenza il metro tante volte quante ne occorrono per congiungere i punti A e B, e registrare il numero di volte che l’abbiamo fatto. Ovviamente occorrono regole per registrare i decimali; per le approssimazioni; per un sacco di cose. E avere la ragionevole sicurezza sulla validità del metro, ovvio. In qualche modo riusciamo a misurare la distanza fra A e B in maniera soddisfacente (se stiamo misurando la distanza fra Roma e Milano certamente non cercheremo la precisione millimetrica, mentre se registriamo la lunghezza di un batterio la precisione millimetrica non ci basterà affatto). Lasciamo stare gli innumerevoli problemi di una misurazione spaziale e pensiamo alle persone e a cosa possiamo misurare di loro: l’altezza, per esempio; ci serve? Mah… in studi antropometrici collegati al benessere economico, sì, ma ci sono veramente pochi casi sociologici o economici o antropologici in cui la statura può essere rilevante. Analogo il peso, in studi sull’obesità nelle società occidentali. Poi? Nessun’altra proprietà umana. Incredibile! Nelle scienze sociali alcune proprietà sono trattate come misurazioni, ma non lo sono; il reddito, per esempio (o il PIL); essendo la misurazione idonea esclusivamente per proprietà continue, e il reddito una proprietà discreta, è evidente che si opera una semplificazione, che comunque appare lecita; le proprietà discrete trattate come continue sono comunque a loro volta pochissime: la scolarità viene spesso trattata in questo modo (come se da “Ha fatto solo pochi anni di scuole elementari” fino a “Ha quattro lauree, tre master e dio solo sa cos’altro” ci fosse un flusso continuo, e non passaggi ben chiari e definiti, e diversi uno dall’altro). 

Nella stragrande, quasi totale, maggioranza dei casi, il ricercatore sociale chiede, non “misura”. Chiede, registra il risultato a volte in forma numerica, può analizzarlo con strumenti statistici e arrivare, per esempio, a dire che il 27,35% degli intervistati ha risposto in un dato modo. Ma quel 27,35% non è una misurazione, ma un risultato numerico di procedure (per lo più di conteggio, semmai) che hanno talmente a che fare con il linguaggio e le inferenze (come si è chiesto qualcosa, e come si è capita la risposta) che pretendere che assomigli, sia pure vagamente, o semplicemente come analogia, alla misurazione fra i punti A e B, è ovviamente completamente fuori luogo.

Si può obiettare che in realtà ci sono fenomeni sociali misurabili di cui non ho tenuto conto fin qui; per esempio l’intelligenza, misurata attraverso diversi strumenti psicologici. Non bisogna farsi abbagliare: nessuno strumento “misura” il QI. I diversi test utilizzati, a parte limiti intrinseci che non mi metto qui a discutere (p.es. cosa si intenda con ‘intelligenza’, dandone una definizione concreta passibile di successive definizioni operative adeguate e pertinenti), sono autoreferenziali sotto il profilo del metodo. Questi test stabiliscono un certo numero di quesiti, e chi si sottopone ad essi risulterà tanto più intelligente, lungo una scala (che per definizione non ha un’unità di misura), quante più risposte esatte si danno. Questi test sono abbastanza sofisticati, evitano trappole linguistiche affidandosi per lo più a logiche matematiche o spaziali, e sono stati “validati” sperimentandoli migliaia di volte e perfezionandoli. Ciò significa che, i migliori fra questi testi, indicano (non “misurano”) effettivamente le persone più intelligenti e quelle meno intelligenti, con vari gradi di errore e approssimazione che spesso sono ignorati. L’esempio di questi test servono egregiamente per spiegare quell’errore epistemologico solitamente chiamato operazionismo, che consiste nel confondere la realtà con lo strumento che l’ha descritta; nel caso dei test per rilevare il QI, infatti, l’intelligenza non è quella nel cervello e nelle sinapsi dei soggetti testati, ma è quella dello strumento. Il test di intelligenza “misura” ciò che misura, che il test medesimo definisce ‘intelligenza’.

I sociologi utilizzano grandemente strumenti analoghi, chiamate spesso “scale di atteggiamento”, che propongono di rispondere a un’opinione lungo una scala da 1 a 5, da 1 a 10, o altre. Anche se questi strumenti consentono il trattamento dei dati alla stregua delle misurazioni (dal punto di vista statistico), è piuttosto ovvio che misurazioni non sono.

(Continua…)

(Foto di Claudio Bezzi)