Viva il merito!

Il nuovo Ministero dell’Istruzione (un tempo aggettivata con “pubblica”, oggi non si sa) è stato chiamato “dell’istruzione e del Merito”, scatenando le polemiche che forse, se eravate molto annoiati e non sapevate che fare, avrete letto. Sia chiaro: nessuno sa perché è stato chiamato così, e le ragioni potrebbero essere frivole (sembrava una figata, tanto per dare un’impronta diversa, ma non si intendeva nulla di particolare) oppure programmatiche (un’idea di scuola centrata sul merito, in un senso e in un modo che al momento non è dato capire).


La polemica in breve: Ilaria Venturi, La scuola in rivolta sul ministero al Merito. E il caso diventa politico: scontro tra Calenda e Landini, “la Repubblica”, 24 ott 2022.


Mi permetterete quindi di astrarre un pochino, lasciando il giudizio su Giuseppe Valditara (il ministro) a quando farà qualcosa di valutabile, e discutiamo un poco dell’idea di merito, dell’idea di una società che premia il merito, e quindi di una scuola che – in tale concezione – vuole favorire gli studenti meritevoli, per capire se si tratta di una cosa buona e giusta, o dell’ennesimo sfregio del peggiore liberismo foriero di ingiustizie sociali (nel presente caso, un liberismo inquinato da perverse tendenze neofasciste, dio ci scampi!).

Per entrare nel dibattito, però, dobbiamo fare una di quelle cose noiose che facciamo sovente qui su HR, vale a dire: chiarire i concetti, che significa: spieghiamo bene di cosa stiamo parlando. Questa chiarificazione è tanto più necessaria osservando che la polemica sul merito è gravata da quella che appare con evidenza un errore categoriale, che è un tipo di fallacia logica:

Un errore categoriale consiste fondamentalmente nell’attribuire a un termine linguistico un autonomo significato referenziale sulla base dell’affinità grammaticale che esso presenta con i termini autenticamente referenziali, laddove invece alle affinità grammaticali corrispondono spesso differenze concettuali o categoriali. (fonte)

L’errore, in questo caso, consiste nell’attribuire al concetto ‘merito’ le conseguenze (alcune) derivanti da disuguaglianze sociali. Dato questo errore, si propone questa relazione:

merito disuguaglianza

mentre – ora lo spiegherò – è vera una relazione sostanzialmente inversa:

disuguaglianza mancato accesso alle premialità del merito nuova disuguaglianza.

Prima di vedere il piano sostanziale di questo ragionamento, finiamo la discussione sui concetti. Cos’è, esattamente, il ‘merito’? Se ci limitiamo a una buona definizione di dizionario (Treccani) diciamo che il merito è

Il fatto di meritare, di essere cioè degno di lode, di premio, o anche di un castigo: premiare, punire, trattare secondo il merito. In genere però ha senso positivo, e indica il diritto che con le proprie opere o le proprie qualità si è acquisito all’onore, alla stima, alla lode, oppure a una ricompensa (materiale, morale o anche soprannaturale), in relazione e in proporzione al bene compiuto (e sempre sulla base di un principio etico universale che, mentre sostiene la libertà del volere, afferma la doverosità dell’agire morale) […]. (fonte)

Il concetto di ‘merito’ quindi, è indifferente alle sue origini e alle sue conseguenze, ed è semplicemente il termine col quale indichiamo un referente lodevole, cioè un’azione o un comportamento che viene socialmente considerato non già semplicemente buono, ma migliore (della media, della norma) e quindi meritevole di un premio. Fin qui, cosa c’è di disuguale?

Poi, come noto, dal ‘merito’ si è passati alla meritocrazia, che è l’idea di una società basata sul merito (QUI la voce della Treccani), ma questo termine, di per sé neutro, è diventato subito negativo e usato in senso dispregiativo, per il medesimo errore spiegato sopra: poiché la società è ingiusta e il Potere opprime le classi subalterne, la meritocrazia è la trappola che favorisce il figlio del dottore e per far restare oppresso il figlio dell’operaio: la famosa Lettera a una professoressa, in fondo, parla di questo, indicando un problema vero (le disuguaglianze) e arrivando a una risposta sbagliata (ne parlò, qui su Hic Rhodus, Michela Piovesan, e vi invito a rileggere quel suo contributo).

Esistono biblioteche sociologiche e antropologiche e psicologiche di volumi che riportano le ricerche empiriche condotte da numerosi decenni, che mostrano inequivocabilmente che le classi subalterne non hanno grandi successi scolastici (e quindi sociali in genere) perché lo svantaggio con la classe media (per non dire di classi superiori in reddito e posizione sociale) è incolmabile. La scuola di massa in Italia (mi riferisco in particolare alla riforma del 1962) è stata giusta e doverosa, ma ha fallito perché ha consentito un accesso universale all’istruzione (fatto positivo) negando lo sviluppo dei prerequisiti e dei requisiti necessari per dare efficacia educativa e formativa a tale accesso. Molte delle riforme successive (liberalizzazione dell’accesso universitario, elevazione dell’obbligo scolastico, la tragica riforma universitaria del 2004 con l’introduzione dei due livelli di laurea…) hanno inasprito quest’aporia: una formazione – scolastica e universitaria – sempre più disponibile per più ampie fasce di ragazzi, a fronte di una qualità formativa sempre più scadente, necessaria per livellare le competenze in entrata dei discenti, perché in caso contrario i ragazzi meno istruiti, meno preparati, meno motivati etc. sarebbero sì entrati nel sistema formativo, salvo esserne espulsi con rapidità per la loro inadeguatezza. Il fatto quindi che i figli di operai continuino a fare gli operai e i figli di dottori diventino dottori, come scriveva don Milani, è un’ingiustizia che consegue alle preesistenti disuguaglianze e all’incapacità, da parte dello Stato, di mitigarle, e non dal merito in sé. Quindi è sbagliata la dichiarazione del pedagogista Canevaro:

C’è chi nasce fortunato, e chi nasce sfortunato. Secondo questo presupposto, i principi meritocratici possono essere interpretati come l’individuazione il più possibile precoce dei fortunati, i meritevoli, che devono ricevere tutte le attenzioni. Mentre gli altri, gli sfortunati immeritevoli, devono essere messi in condizione di non far perdere tempo, energie e soldi. Dobbiamo svelare l’inganno delle parole: la scuola del merito è la scuola che smette di investire su chi è in difficoltà. (fonte)

Lui si riferisce non già al merito, e alla meritocrazia, ma alla disuguaglianza e all’inerzia politica verso le sue conseguenze. Vale la pena osservare che una grande parte di fonti scientifiche (sociologiche, pedagogiche) che ho consultato per la preparazione di questo articolo (e sto parlando, quindi, di articoli accademici per lo più anglosassoni) cavalca lo stesso, identico errore categoriale, alimentando un bias ritenuto socialmente accettabile, che il povero è oppresso e la meritocrazia è parte di tale oppressione (come ci sono analoghi bias anche accademici in tema ambientale, di parità di genere, sui modelli di sviluppo economico, etc.)

Ora, è chiaro che c’è una distanza difficilmente colmabile fra queste due posizioni:

Eliminare tutti i prerequisiti e le condizioni sociali e culturali che possono penalizzare i discenti, e favorire al massimo il loro merito, sostenendo i più meritevoli e capaci (che sono effettivamente tali, poiché i vincoli di partenza sono stati azzerati).←→Dare accesso a tutti i potenziali discenti, e mantenerli il più possibile nel sistema formativo a prescindere dal loro merito, e poi ciascuno si salverà da solo, se potrà.

Non bisogna essere grandi sociologi, o economisti, per capire che “tutti” i prerequisiti negativi, le condizioni di partenza avverse etc. non si riescono ad eliminare. Non tutti, almeno (fonte suggerita). Ma è sotto gli occhi di chi vuol vedere, come la scuola di massa, quella reale che abbiamo costruito in Italia, quella del demerito e della promozione garantita (99,9% dei maturandi dello scorso anno scolastico: 99,9%, ma capite l’assurdità? – Fonte), sia un danno sociale enorme per il Paese, con tassi di analfabetismo di ritorno e funzionale fra i più drammatici in Europa e nel mondo occidentale (fonte). Occorre capire che avere (neppure tanti, per altre cause) diplomati e laureati poco abili, poco competenti, poco avvezzi a capire i dati e i numeri, incerti nella comprensione di un testo scritto, non è semplicemente un fatto statistico, ma significa professionisti inadeguati, risorse umane introvabili, docenti scadenti, medici mediocri, politici populisti (tanto, uno vale uno…). Vuole dire scarsa competitività industriale e tecnologica, mercati che non possiamo cogliere, visioni geopolitiche limitate, maggiore povertà diffusa e, in due parole: mantenimento delle disuguaglianze. Un paese più ignorante è un Paese dove le disuguaglianze accelerano, l’ascensore sociale non funziona, il particolarismo si alimenta.

Vale la pena concludere segnalando che il contrappasso segnalato sopra, fra totale meritocrazia e scadente formazione universale, anche se è un problema di tutte le società occidentali si presenta in forma particolarmente acuta in Italia, come hanno segnalato anche sociologi come Luca Ricolfi. Se i dati internazionali sono lì a mostrarci il declino culturale e scientifico italiano, le valutazioni Invalsi, il penoso raccordo scuola-lavoro, lo scarso rating internazionale delle nostre università, ci dicono chiaramente che se anche la meritocrazia, nei suoi aspetti più estremi, non fosse la risposta, senza ombra di dubbio non lo è il lassismo, la perdita di identità formativa, la mancanza di meritocrazia fra i docenti della scuola italiana. E’ inutile spendere somme socialmente rilevanti per portare ragazzi a prendere titoli di studio che attestano una vaga frequenza, e non una competenza reale, per abbandonarli poi, impreparati e inconsapevoli, a un mercato del lavoro dove si richiedono sempre più eccellenze, e chi non possiede reali qualità, laurea o non laurea, può aspirare al massimo al Call Center o alla cooperativa sociale.


Concludo proponendo il cap. 18 del volume Pensare la democrazia nel terzo millennio, scritto qualche mese fa assieme all’amico Stefano Machera:

1.  L’apparentemente ovvia politica a favore di un sistema che ricompensi i “migliori” in base al merito, come molte altre voci, richiede una seria riflessione per evitare che costituisca un veicolo per politiche che hanno tutt’altra ispirazione che l’equo riconoscimento del valore.

1.1. Il riconoscimento del merito è certamente parte di ogni politica di gestione che abbia l’obiettivo di essere equa nei confronti dei cittadini. Persino i regimi politici meno orientati alla meritocrazia hanno sempre adottato forme spesso anche molto enfatiche di riconoscimento del merito, ben consapevoli dell’assenza di un autentico sistema premiante. È evidente che non bastano le pacche sulle spalle, e neanche le medaglie, a costituire un’adeguata ricompensa per chi si è impegnato per eccellere e un incentivo efficace per chi deve decidere quanto tempo e quante energie dedicare a un obiettivo.

1.1.1. Eppure, per quanto almeno a parole tutte le ideologie e le forze politiche siano favorevoli al riconoscimento del merito, una condizione perché ciò possa accadere sta nella capacità di un sistema (politico, culturale, economico, professionale) di valutare il valore e i risultati dell’operato di persone e organizzazioni. 

1.1.2. Uno dei segnali inequivocabili del futuro declino di un paese è il rifiuto di dedicare risorse e professionalità alla costruzione di sistemi di valutazione (o, quasi equivalentemente, la trasformazione di tale valutazione in un mero formalismo). Solo per fare un esempio relativo al “merito” in ambito commerciale, se nella gara per un appalto pubblico si tiene sostanzialmente conto solo del prezzo proposto dai concorrenti e non del valore delle loro proposte o delle loro capacità dimostrate in lavori precedenti, è chiaro che nonostante la forma competitiva il processo di assegnazione dell’appalto non potrà essere orientato al merito. E mentre chiunque è in grado di riconoscere il prezzo più basso tra le proposte concorrenti, per giudicare la capacità e la competenza occorre essere a propria volta capaci e competenti.

1.1.3. Infine, il riconoscimento del merito presuppone ovviamente un sistema di valori, che non può mai essere considerato scontato o neutrale. Anche in un sistema relativamente piccolo come un’azienda, l’assegnazione ai dirigenti degli obiettivi per i premi di risultato rispecchia ovviamente la strategia dell’azienda stessa: fissare solo obiettivi legati al profitto è diverso dal prevedere un mix con altri parametri, come la formazione del personale, la sostenibilità ambientale della produzione, ecc. A maggior ragione, la valutazione del merito in una società articolata richiede preventivamente la condivisione di un “sistema di riferimento” che troppo spesso è implicito e non consapevolmente analizzato e accettato.

1.2. Se il riconoscimento del merito è già problematico, è sul terreno del premio che compete al merito che le politiche si differenziano davvero. In un sistema meritocratico, idealmente a tutti i cittadini dovrebbe essere garantita la parità di opportunità, e, sempre idealmente, tutte le differenze materiali tra i cittadini dovrebbero derivare da un sistema premiante, esplicito o integrato con il sistema economico.

1.2.1. Inutile aggiungere che ogni società reale è lontana da questa astrazione di pura meritocrazia (solo per fare un esempio, in una società perfettamente meritocratica dovrebbero essere abolite eredità e donazioni in vita, e tutte le proprietà dei cittadini, alla morte, dovrebbero essere incamerate dall’erario e impiegate per finanziare le condizioni di parità di opportunità).

1.2.2. Inutilissimo osservare che l’Italia in particolare è lontanissima dall’essere un paese meritocratico, con i legami familiari che pesano spesso molto più del merito individuale nel facilitare i percorsi di carriera, e con interi settori di attività dove al merito si sostituisce la semplice anzianità di servizio. A livello più macroscopico, è altrettanto evidente che ad esempio le sorti delle imprese in Italia sono ampiamente dipendenti da fattori che col “merito” (inteso come produttività, efficienza finanziaria, trasparenza, rispetto delle norme, ecc.) non hanno nulla a che vedere. E difatti le imprese italiane hanno bassa produttività, sono poco trasparenti, non rispettano le regole.

1.2.3. Ricapitolando: senza pretendere di realizzare una condizione utopica (o distopica), ma in una situazione reale e ad esempio nel nostro paese, dove il merito è largamente ignorato, il tema politico concreto è come si possa introdurre una cultura e una prassi meritocratica senza cadere nell’opposto male di trasformare i sistemi di valutazione e premio in armi per rafforzare le rendite di posizione e ricattare chi si trova in posizioni subalterne.

1.3. Naturalmente, a (quasi) tutti i problemi elencati nei punti precedenti il laissez-faire del liberismo propone una soluzione-scorciatoia: ridurre al minimo qualunque intervento “dirigista” e lasciare che sia il mercato, inteso nel senso più ampio possibile, a ottimizzare i parametri del sistema, ivi inclusi quelli che stabiliscono la remunerazione del merito. In quest’ottica, il merito coincide sotto ogni punto di vista col valore di mercato di ciascun individuo sul mercato globale delle risorse, e questo valore viene corrisposto direttamente e senza bisogno di interventi da parte della politica. È appena il caso di sottolineare che una simile politica di non intervento, lungi dalla neutralità che i suoi promotori di solito rivendicano, in realtà equivale a imporre un sistema di valori e di obiettivi ben preciso, di cui il mercato è la macchina attuativa. Come già rilevato nel capitolo 3, le “forze inerziali” intrinseche all’economia di mercato tendono ad accrescere le disuguaglianze e quindi, tra l’altro, a far crescere il gap di retribuzione e ricchezza tra chi ha un elevato valore di mercato e chi ne ha uno mediocre. 

1.4. In conclusione, una politica razionale, che voglia considerare una politica meritocratica come una risorsa per la crescita del benessere di tutti, oltre che una forma di compenso per i contributi di eccellenza alla collettività, dovrà evitare, da un lato, che essa venga svuotata da sistemi premianti del tutto fittizi, come quelli che sono applicati in larghissima parte della nostra Pubblica Amministrazione, con gli esiti ben noti, e dall’altro che essa diventi una foglia di fico per giustificare una spirale di costante allargamento della forbice che separa chi riceve di più da chi riceve di meno. Il giusto riconoscimento del merito non significa aumentare le disuguaglianze, significa legare le disuguaglianze a una ragione valida anziché il contrario.
Se davvero su questo terreno la politica intendesse cambiare l’Italia, il campo di elezione per l’introduzione di prassi meritocratiche dovrebbe essere la Pubblica Amministrazione, sia per l’enorme peso che la P.A. nel sistema-paese, sia per trasmettere un messaggio anche culturale, visto che praticamente tutti i cittadini interagiscono quotidianamente con la P. A. La battaglia che ne seguirebbe con i sindacati e con le resistenze interne alla P. A., per quanto ardua, non potrebbe avere effetti più negativi del perpetuarsi dello status quo.