I bastardi

Il fatto: nel 2020, nel corso della trasmissione Piazzapulita, Roberto Saviano definì “bastardi” Giorgia Meloni e Matteo Salvini per le loro posizioni (non governative, all’epoca nessuno dei due aveva incarichi di governo) contro le ONG che soccorrono i migranti; l’epiteto uscì dalla bocca di Saviano dopo l’intervista di una madre che aveva visto annegare il figlio di sei mesi per il rovesciamento del barcone, quindi – immagino – sotto un impulso emotivo. Questa la frase:

Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: “taxi del mare”, “crociere”. Mi viene solo da dire “bastardi” a Meloni, a Salvini: bastardi. Come avete potuto? Come è stato possibile descrivere così tutto questo dolore? (fonte)

È seguita querela ed è iniziato in questi giorni il processo. 

Perché è interessante?

Perché ci consente una riflessione sul rapporto fra potere e intellettuali, e una sul diritto di parola e fin dove si possa spingere. Temi spinosissimi che si pongono da sempre, da secoli, e che – avverto subito – non hanno alcuna soluzione, perché da qualunque punto di vista lo si veda, il tema presenta dei limiti, dei difetti, dei vincoli che non sono dirimibili, riducibili a sintesi. Quindi non aspettatevi da me una soluzione, ma solo una riflessione incompiuta su un tema che resta, comunque, cruciale.

Sgomberiamo il campo dal fatto in sé, nudo e crudo: ovviamente dare del ‘bastardo’ a qualcuno è un reato (diffamazione, art. 595 CP); e ci sono le aggravanti della specificità e della pubblicità, quindi Saviano l’ha fatta grossa. Ci possono poi essere varie attenuanti, che dovrà valutare il giudice: lo stato emotivo dovuto all’intervista citata, la realtà di una posizione, di Meloni e Salvini, criticabile (ma fino a un certo punto; qui la difesa cercherà di tirare in ballo questo fattore, ovvero la discutibilità morale di una scelta politica ribadita anche in questi giorni dal governo Meloni, ma qui il ghiaccio è davvero sottile e non credo che questo sia un argomento convincente). Io, al di là delle strategie difensive immaginate da chi fa questo mestiere con più competenza di me, punterei sul fatto emotivo, come quando un tale mi fa un sorpasso pericoloso e io gli grido “Deficiente!”, o quando l’arbitro annulla il gol e gli grido “Cornuto!”. La pasta è la medesima: c’è un fatto subitaneo, che giudico inaccettabile, e mi esce un grido di dolore, un’invettiva… E credo che un giudice mi considererebbe con compatimento se io non fossi Saviano, e se il (la) querelante non fosse il-lo-la PrimO MinistrO.

Da parte sua Saviano sta facendo il possibile per politicizzare la vicenda, avendo dichiarato:

Io sono uno scrittore: il mio strumento è la parola. Cerco, con la parola, di persuadere, di convincere, di attivare. Sono uno scrittore e quindi, avendo ottenuto la libertà di parola prima di qualsiasi altra, sono deciso a presidiarla. Ho sempre scelto di difendere le mie parole con il mio corpo in maniera differente rispetto a quanto fanno molti parlamentari, che hanno usato lo scudo dell’immunità quando hanno avuto bisogno di proteggersi dalla giustizia: io ho fatto la scelta opposta, ho scelto di esporre il mio corpo e le mie parole negandomi la possibilità di un riparo sicuro, di rifugiarmi in una zona franca tra la legge e l’individuo: perché mi illudo ancora, forse ingenuamente, che dalla giustizia non ci si debba proteggere, ma che sia essa stessa garanzia di protezione.

Quindi la linea di Saviano è chiara: rivendica la sua invettiva come parte di un legittimo uso di parole da parte di un intellettuale; in quanto intellettuale, può usare la parola per agire sulle coscienze altrui, che è esattamente il ruolo dell’intellettuale. E – aggiunge Saviano – lui accetta il rischio di tale suo agire, è disposto ad esporsi e correre i rischi conseguenti. Molto pasoliniano. Devo dire che fin qui, al di là del fatto in sé, la posizione di Saviano mi piace, la condivido, ed è parte – nel nostro piccolo – dello spirito di Hic Rhodus e delle cose che facciamo e scriviamo.

Certo che un conto è la denuncia, anche aspra, delle malefatte del potere, o della camorra (visto che parliamo di Saviano), altra cosa è l’uso infelicissimo del termine ‘bastardi’. Immagino che la frase savianese, senza il ‘bastardi’, avrebbe avuto minore impatto:

Mi viene solo da dire “insensibili” a Meloni, a Salvini: insensibili. Come avete potuto?

Oppure:

Mi viene solo da dire “brutte persone” a Meloni, a Salvini: brutte persone. Come avete potuto?

Non funziona. L’invettiva funziona perché graffia, offende, è definitiva. Un po’ come la bestemmia, il dito medio alzato, cose così, che sono volgari prima di tutto perché sono definitive. Perché sono popolari, perché così si parla e ci si comporta in determinate circostanze che a volte, sì, ci prendono la mano e ci fanno straparlare, ma così ci capiamo.

Credo valga l’analogia con processi che subì Pasolini (fra i tanti) per oscenità; in un caso si trattava del contenuto “pornografico” del suo capolavoro, Ragazzi di vita

il giudice chiese a Pasolini: d’accordo, lei sostiene di aver usato quei termini osceni per imitare il linguaggio delle borgate romane, ma allora perché le stesse parole si ritrovano anche nel discorso indiretto, fuori dalle virgolette, quando a parlare è l’autore? La risposta dell’imputato è una splendida lezione di tecnica della scrittura. Pasolini spiega di adottare nella sua prosa il “discorso libero indiretto”: il narratore usa una voce che non è la sua, ma riproduce il modo di parlare e di pensare dei suoi personaggi. (fonte)

Vorrei anche ricordare il processo intentato nel 1956 a Ginsberg (autore) e Ferlinghetti (editore) per ragioni analoghe, per la pubblicazione del capolavoro del poeta beat Howl (fonte).

Quindi, in un certo senso, l’intellettuale in determinate circostanze, pur non godendo di particolari privilegi (sarebbe assurdo e incostituzionale) può utilizzare un linguaggio più forte e diretto, più crudo, più osceno, più scandaloso.

Ma parliamo di opere d’arte. Saviano era in un talk show. E’ la stessa cosa? C’è almeno un parallelo che si può trarre? Certamente sì, con opportuni limiti, e se accettate certe premesse (è chiaro che sono abbondantemente uscito dalla questione prettamente giuridica): l’artista è artista sempre, dipinge continuamente la tela della sua vita, narra senza interruzione le sue storie; se è un vero artista fatica a creare una discontinuità fra il linguaggio delle sue opere e quello della sua vita. Potrei argomentarlo abbastanza bene con dovute citazioni psicoanalitiche e sociologiche, prima ancora che letterarie.

Potremmo però, di contro, immaginare che l’intellettuale, se vuole incidere sulle vite altrui, deve farlo con argomenti, anziché con invettive; deve evitare di urtare la suscettibilità dei molti che, sul tema migranti che ha scatenato il caso, la pensano più o meno come Meloni e Salvini; deve evitare quel pensiero breve che, in molti, si consuma nell’invettiva senza argomenti, puramente umorale e viscerale, e anzi differenziarsi da quello, proprio per segnalare una distanza, una differenza: alla sconcezza morale delle dichiarazioni di  Meloni e Salvini sui migranti, occorreva rispondere con la solidità morale di un pensiero asciutto, sì, incontrovertibile, risoluto, di ferma condanna ma capace di accendere una scintilla nelle teste degli ascoltatori, e non solo adesioni o rifiuti ideologici.

Ci sarebbe da dire qualcosa sulla poracciaggine di politici protetti dal ruolo di potere, dall’immunità parlamentare, dalla possibilità di assoldare i migliori avvocati, di scatenare l’opinione pubblica (vedi il titolone che Libero ha dedicato a Saviano), che se la prendono con chi li ha definiti con un epiteto che in migliaia gli hanno lanciato dalle piazze di tutta Italia. Certo, il contesto era diverso ma soprattutto l’autore dell’insulto era particolare. Se lo avesse pronunciato un cittadino intervistato per la strada sarebbe passato in cavalleria, ma Saviano è un nemico di questo potere.

Saviano è un costante oggetto di attenzione proprio perché intellettuale seguito e condiviso da molte persone. Di fatto sono stati Meloni e Salvini a trasformare un incidente casuale in un processo politico, quindi giudiziario e mediatico, per la semplice ragione che così, con il nemico ben chiaro, con nome e cognome, chiamano a raccolta i fedeli, i sodali (vedi Sallusti), e si perpetua il celeberrimo e stranoto meccanismo (che funziona sempre) di distrarre l’opinione pubblica. Va tutto male, le prime mosse del governo sono penose (anche in tema di migranti) ma dai, via, tutti a parlare di Saviano che si è permesso di insultare il/lo/la Premier e il Capitano. Ma come si permette? È la sinistra gaglioffa!

Non ho dato risposte, come avevo premesso. Ogni lettore troverà le sue. Da parte mia, senza avere particolari simpatie per Saviano, devo dire che personalmente gli concedo incondizionatamente questo uso della parola che rivendica; sì, certo, dare questa libertà significa prendere il buono (i pensieri ben disposti e chiaramente argomentati) e il cattivo (la voce dal sen fuggita), e come il buono può essere condiviso o rifiutato, capisco che il cattivo più spesso può urtare anziché essere accettato. Ma l’unica alternativa è mettere guinzagli e mordacchie preventivi (censurare, controllare, impedire di dire) o consuntivi (denunciare e processare) e vi devo dire, per quel po’ di libertario che da sempre alberga in me, che vedo con orrore queste ipotesi. Le pavento per tutti: per me, per Hic Rhodus, per i lettori, ma certamente le pavento per chi, per una ragione o l’altra, si è assunto (o gli è stato attribuito) un ruolo culturale, di guida, di riflessione, di stimolo e di critica. In una parola, quello di intellettuale. Anche se qualche volta (questa) la parola uscita non è stata felice.