L’intelligenza artificiale è comparabile a quella umana?

In un articolo di qualche giorno fa che parlava dei prodigi dell’Intelligenza artificiale (IA) chiamata Chat GPT, prevedendo che in futuro le IA potranno sostituire gli esseri umani in moltissime professioni intellettuali, concludevo proponendo la domanda chiave: 

In che modo un qualunque valore intellettuale “umano” sopravviverà all’assalto del macchinismo, perché ineludibile, ineliminabile, unico? Una domanda difficilissima. Non si può rispondere “la creatività” per le ragioni già accennate. Non ha una gran forza l’argomento della compresenza umana, del calore umano, della necessità del senso fisico della relazione perché ce lo chiede l’Amigdala o quel che è. Ormai sappiamo costruire manichini che sembrano esseri umani; li sappiamo far muovere con movimenti sorprendentemente umani; e ora li sappiamo far discutere con noi con l’IA… Come in certi famosi film di fantascienza, forse io non li vedrò, ma mio nipote certamente sì, robot in tutto simili a esseri umani non sono poi più così “fantascientifici”. Quindi?

La questione che ponevo, quindi, è: o c’è veramente un elemento (intellettuale, morale, …) che è indiscutibilmente umano, e che mai un’IA potrà riprodurre, oppure no. Nel primo caso ci sarà sempre una sottile differenza fra esseri umani e macchine (in senso lato) e la nostra egocentrica arroganza sarà salva, nel secondo caso, invece… cosa succederà? Se, al dunque, non troviamo un quid indiscutibilmente umano, e le macchine sapranno fare in tutto e per tutto ciò che sanno fare gli umani (anzi, a questo punto, di più e di meglio), come giustifichiamo il nostro ruolo nel mondo, come ridisegniamo la mappa della nostra presunzione cosmica, come competeremo con la nuova specie, da noi creata, che possiamo pur chiamare “artificiale”, ma che sarebbe competitivamente idonea a governare il mondo?

Trovo sociologicamente interessante che questa fase di passaggio, che ha sorpreso molti, crei confusione e sconcerto. È durissima, per il padrone del Creato, non avere poi molti argomenti per spiegare a che titolo è padrone, da se medesimo in tal guisa designato. Pur non avendo certo io delle risposte definitive (anche solo la domanda è, in realtà, di complessa formulazione) trovo ridicole le scorciatoie auto consolatorie che improvvisati filosofi à la carte si sentono in dovere di fornire. Sono ridicole in quanto, generalmente, non basate su specifiche conoscenze della materia, spesso tautologiche o meramente declaratorie. Mi è capitato di leggere, per esempio, un breve testo di Luigi Maiello, L’intelligenza artificiale non è creativa e non ha coscienza: questa è la differenza con l’uomo, (“il Fatto Quotidiano”, 4 febbraio 2023) dove si discute “l’apprendimento come atto creativo e l’impossibilità che una macchina sia cosciente”. Oltre a un’idea iper semplificata di cosa sia un’IA (la sua descrizione di una black box in cui si infilano dati e che sputa risposte logiche conseguenti e, in qualche modo, pre-esistenti, descrive più una macchinetta del caffè che non un moderno computer, figurarsi ChatGPT), l’autore mostra scarsa dimestichezza sul funzionamento del cervello umano:

Colui che pensa e crea (creare vuol dire trovare idee o soluzioni nuove, combinare gli elementi a disposizione in qualcosa di innovativo e coerente e risolvere problemi in modo originale), ad esempio l’artista, il filosofo o lo scienziato, agisce in modo diametralmenteopposto alla macchina; altrimenti non vi potrebbe essere alcuna innovazione, né tantomeno la tecnologia di cui stiamo parlando.

Il ragionamento sulle differenze e sulle analogie fra intelligenza “naturale” e IA può assumere due direzioni:

  1. mostrare come e quanto l’IA funzioni in modo simile o dissimile da quella umana;
  2. mostrare come l’intelligenza umana funzioni in modo simile o dissimile da quella artificiale.

Ovviamente si tratta dei due estremi di uno stesso continuum, è il medesimo problema visto da due punti di vista.

Poiché la mia competenza robotico-cibernetica è prossima allo zero, mi rivolgerò al secondo punto di vista. Che ha – probabilmente semplifico – due possibili “tagli”:

2.1. la biologia del cervello;

2.2. la socialità dell’apprendimento.

La nostra anima-coscienza-intelligenza-emozione come frutto della chimica cerebrale. So che ci piace poco, ma ormai le neuroscienze hanno stabilito in maniera piuttosto incontrovertibile che noi agiamo non già sulla base di impulsi “creativi” ed “emozionali” e “passionali” etc., ma che, al contrario, buona parte di paure, sentimenti ed emozioni sono il frutto di reazioni chimiche nel cervello, e specificatamente nell’amigdala e più in generale nel sistema limbico, che sulla base di situazioni di contesto fa rilasciare, per esempio, adrenalina (nel caso di uno stress emotivo). La dopamina è correlata all’entusiasmo, la serotonina alla rabbia, l’ossitocina all’amorevolezza, l’endorfina alla fantasia, e così via. Bisogna mettere in ordine la sequenza; non è che l’essere umano è – per esempio – rabbioso, e quindi secerne serotonina; è il contrario: in un dato contesto, presenti certi condizioni personali, l’individuo secerne serotonina e quindi assume atteggiamenti rabbiosi.


Una trattazione abbastanza ampia ma di facile lettura nell’Enciclopedia Treccani, alla quale rimando. Altre letture brevi di carattere divulgativo:


Questa fabbrica chimica di emozioni nel nostro cervello non riguarda solo quelle manifestazioni emotive più o meno incontrollate che – non è difficile da capire – corrispondono a un adattamento dei nostri antenati primati. Riguardano anche quel complesso fenomeno che chiamiamo “intelligenza”. Senza farvela tanto lunga, sappiate che anche l’intelligenza (concetto in realtà vago, definitela come vi pare) è correlata con le basi biologiche del vostro cervello, e sui processi chimici che vi si svolgono; tali basi biologiche, e i conseguenti processi chimici, non sono ugualmente distribuiti fra la popolazione, così come pure la facilità a spaventarsi, il tasso di empatia che si sa mostrare e così via. Si tratta, sempre, del rapporto fra biologia e ambiente.



La “meccanica” sociale dell’apprendimento. Al netto di quanto scritto nel paragrafo precedente, abbiamo una conoscenza piuttosto approfondita di come si sviluppa la conoscenza nell’individuo, a partire dai pionieristici studi di Luria e Vygotskij negli anni ’20 del secolo scorso. Poiché anche qui la materia sarebbe vastissima, mi permetterete una semplificazione che vi farà storcere il naso se siete specialisti della materia, ma probabilmente vi farà capire qualcosa se non lo siete.

Lo sviluppo della conoscenza nell’individuo è la risposta intellettuale all’ambiente, e alla necessità di comprenderlo per interagirvi con successo. Quando la mia cucciola Maya, dopo alcuni giorni che era arrivata a casa, ha sentito ripetutamente dire “Ecco la pappa, Maya”, “Vuoi giocare, Maya?”, “Vieni qui, Maya”, ha collegato le azioni degli umani attorno a lei, verso di lei, nel suono “Maya” che era la costante. Quindi: “Maya” era un suono che la riguardava, che le destava interesse e attenzione; era il suo nome. Quando un bambino sente ripetutamente parlare di “sedia”, finisce analogamente per collegare quel suono a un referente specifico, una cosa di legno con quattro gambe e uno schienale sui quali gli adulti si siedono durante i pasti; ma crescendo scopre poi che altri oggetti si chiamano “sedie” anche se non sono di legno, non hanno quattro gambe o lo schienale, mentre altri oggetti simili, quanto meno nell’uso, hanno altri nomi (sgabello, strapuntino, poltrona). L’estensione del concetto (tutti i referenti sperimentati come sedili) apre a diverse intensioni (altri referenti con proprietà diverse: essere di pelle e non di legno, avere tre gambe e non quattro…) e quindi il concetto omnibus iniziale (un sedile, una seggiola come generico strumento per sedersi) genera altri concetti, simili ma diversi, parte di una stessa famiglia ma che potrebbero essere parte anche di famiglie diverse (la poltrona del teatro, lo strapuntino del treno, quella reclinabile del dentista …).

Questo ampliamento concettuale deriva dalla relazione dell’individuo col contesto, e si attua attraverso inferenze logiche, specialmente la deduzione nell’infanzia, poi l’induzione e, a livello maturi, l’abduzione. Poiché tutti chiamano “sedia” quell’oggetto sul quale siedono, ne deduco che anche quello sul quale io sto seduto si chiami sedia. Poiché questo strano oggetto mai visto, è usato da quell’individuo per sedersi, ne induco che sia una specie di sedia. 

I processi inferenziali che ci aiutano a “capire” il mondo sono, ovviamente, il frutto delle nostre potenzialità (biologia, chimica…) e del contesto che ci sollecita in un determinato modo. Fatte queste precisazioni, occorre riproporre la domanda iniziale per capire in cosa ci differenziamo dall’IA. Anziché percorsi neuronali e stimoli chimici, l’IA sfrutta percorsi elettronici e stimoli elettrici. Anziché inferenze logiche come sopra descritte, l’IA compie analoghe inferenze con un approccio quantistico (che mi pare di capire sia la nuova frontiera, ma non approfondisco perché non è il mio campo),, ma il cui risultato è per lo meno analogo, se non identico. Insistere sull’idea che le IA non sono fatte di ciccia e sangue, ma di bit (o qubit) e processori e altre diavolerie, cosa cambia?


Sul computer quantistici, sempre restando sul livello divulgativo:


Anche escludendo il fatto che siamo veramente all’alba di queste scienze (siamo scesi dall’albero “solo” 5 milioni di anni fa, milione più, milione meno) e che lo sviluppo, ormai, è impetuoso, occorre toglierci dalla testa che l’unicità della nostra specie riguardi qualche ineffabile capacità intellettuale. L’essere umano funziona in maniera straordinariamente meno libera e più causale di quanto amino pensare gli artisti (che si sentono speciali), i fedeli (che si sentono benedetti dall’unico dio), gli intellettuali (che si sentono artefici della loro intelligenza che, invece, ha poco del frutto del loro lavoro e molto dell’ereditarietà). Che le nuove intelligenze artificiali riproducano i processi mentali e inferenziali degli esseri umani, o che agiscano su piani differenti, resta il fatto che il risultato del loro “pensiero” è sempre più verosimile e – ciò che più conta – efficace.

La domanda, quindi, resta: siamo veramente diversi, in maniera distinguibile, con almeno un elemento chiaro inimitabile dalla macchina? Se sì, troviamolo e consoliamoci. Se non lo troviamo, onestamente, non capisco lo sconcerto e l’implicito senso di frustrazione (come nel testo di Maiello col quale ho iniziato). Come se Dio, dopo averci creato a sua immagine e somiglianza, si mostrasse seccato perché siamo vivi, e intelligenti, e disposti a metterne in dubbio l’esistenza.

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