Non tutto è 11

In un articolo che spiega il tracollo della CNN nel suo tentativo di ricollocarsi, da posizioni estremamente anti trumpiane a più moderate, si riporta una frase di Tim Alberta, un noto giornalista americano che ha fatto un’analisi della crisi dell’emittente. Tranquilli, il tema di questo articolo non è la CNN. Ma quella frase farà da spunto a una piccola riflessione; eccola qua: 

Se ogni cosa è un 11 su una scala da 0 a 10, significa che quando accade qualcosa di veramente terribile, rimaniamo insensibili. Questa è stata la strategia di Trump”, e i media sono caduti nella sua trappola. La missione era di capire quando “una cosa è davvero da 11,  a volte dovrebbe essere un due, a volte dovrebbe essere uno zero. Non tutto è 11, non tutto può essere 11.

Capite che Tim Alberta si riferisce all’esasperazione delle notizie, delle contrapposizioni, delle opinioni; una drammatizzazione che è lo stile di Trump, e che è stato – in opposizione – anche lo stile della CNN che si è cercato di mitigare, senza riuscirci.

Lasciamo stare il contesto americano, trumpiano e delle emittenti degli Stati Uniti e traiamo una morale generale: se ogni notizia (politica in senso lato, quindi anche le ricadute sociali ed economiche) viene esasperata per un pregiudizio ideologico, succede che nella gara agli strilli vince lo strillone più sfacciato (in America Trump; in Italia, che ne so… Salvini?), ma succede anche una cosa più grave: in un mondo di strilli la pubblica opinione si assuefà, e quando arriva la vera notizia inquietante, o drammatica, scivola sulle spalle della gente, abituata e sostanzialmente annoiata dal sensazionalismo.

Per spiegare, almeno in parte, la faccenda, mi viene in soccorso Pierluigi Battista che proprio oggi scrive:

Si è così inaridita la nostra fede nel progresso, che non siamo più capaci di vedere le porte che si schiudono verso una migliore condizione umana ottenuta con i magnifici strumenti della scienza e della medicina. Siamo imbozzolati in una nube apocalittica come se fossimo alla vigilia dell’estinzione del pianeta. Come se l’umanità non avesse più nulla da attendersi. Come se la storia delle conquiste che hanno scandito negli ultimi due secoli una rivoluzione nella vita di miliardi di esseri umani non contasse più nulla: vediamo solo nubi, disastri e la storia sin qui ci appare come un cammino rovinoso di cui dovremmo pentirci.

Battista cita poi l’annuncio del vaccino sul cancro, la fusione nucleare, i nuovi antibiotici che potrebbero essere scoperti grazie all’Intelligenza Artificiale e la riduzione delle sperimentazioni sugli animali; notizie rilevanti, che possono generare speranza e fiducia, e che sono messe in ombra da bagattelle come gli organigrammi della Rai (e, aggiungerei io, il dibattito sul tasso di fascismo della Meloni, l’armocromia della Schlein e altre scemenze).

La lezione da trarre, piuttosto evidente, è che occorre discernere, valutare, distinguere; avere uno sguardo prospettico, soppesare e comparare, per capire, come ha scritto Tim Alberta, cosa valga veramente 11 (o anche 9, o 10…) e cosa, invece, 2, o al massimo 3.

Purtroppo, se questa conclusione è evidente, non lo è altrettanto il come fare, per far sì che la gente discerni, valuti, distingua etc. E il problema non solo diventa immediatamente complesso, ma diventa facile capire il successo di Trump (o di Meloni-Salvini). È piuttosto ovvio che la persona media (diciamo: l’80% dell’opinione pubblica) non ha tempo, non ha modo, non ha gli strumenti per l’accesso a un’informazione imparziale (che nessuno sa cosa significhi veramente), per una comparazione avveduta, per giungere quindi a una sintesi critica che si approssimi a una qualche “verità”. Questo compito di analisi, di comparazione e verifica delle fonti, di equilibrio e sintesi, dovrebbe essere propria di mediatori, il cui elenco è estremamente breve: i) i politici; ii) l’informazione giornalistica; iii) gli intellettuali.

I primi (i politici) hanno rinunciato al loro ruolo da diversi decenni e sono diventati parte del problema; i quotidiani e le reti televisive fanno in generale pena, per varie ragioni principalmente di mercato (la parabola della CNN citata inizialmente parla appunto di questo) e, non solo in Italia, sono diventati, tutti, organi politici, se non proprio di partito, quindi diffusori di notizie parziali e interpretazioni tendenziose; e sugli intellettuali – come più volte scritto, qui su HR, occorre stendere un velo pietoso (l’ultimo articolo che abbiamo scritto sul tema lo trovate QUI).

Non vorrei concorrere al comune sentire apocalittico, ma il combinato disposto di tutti questi fattori non promette bene. Non solo l’opinione pubblica ha accesso solo a notizie tendenziose, sempre esasperate a favore di una parte, ma il circolo vizioso che si è venuto a creare impedisce, o quanto meno rende arduo, l’uscita da tale circolo. Ciascun individuo è divenuto “partigiano” (= sostenitore accanito di una parte), trae conforto da fonti di informazioni che rinforzano le idee (semmai parziali, se non false) sulle quali tali partigianeria si fonda, e si può avvalere di pareri di “intellettuali” ritenuti più o meno autorevoli; fine della necessità di argomentare le proprie posizioni; fine della logica; fine del dibattito come ricerca di una sintesi condivisa.

L’unica difesa, davvero estrema, è coltivare lo scetticismo; sospendere i giudizi, anzi: evitare i giudizi di valore (tu sei bravo, buono, giusto, lui no); abolire ogni riferimento morale nel discorso politico (questo è fondamentale); lasciare spazio al dubbio; limitare il riferimento univoco all’esperienza personale; considerare identico il valore intrinseco di ogni opinione; evitare in maniera assoluta ogni a priori nei nostri giudizi.

Si può fare? No. Si può solo tentare, e solo a tratti, e con grandi margini di insuccesso.

Siamo rovinati? Sì.

Comunque, almeno per vedere l’effetto che fa, #nonomologatevi.