Qui su HR abbiamo scritto molti articoli sugli intellettuali; chi si possa definire tale, chi no; quale rapporto lega gli intellettuali al “popolo”; perché gli intellettuali siano inclini a un certo massimalismo; la differenza fra intellettuali umanisti e “scientifici”…
Credo che ce ne occupiamo perché, implicitamente, parliamo di noi, e del perché scriviamo su HR. Questo blog è certamente “intellettuale”, e chi ci scrive è un intellettuale, e lo sono molti di quelli che lo leggono, e se non fosse così avremmo minato le basi del senso del nostro lavoro e perderemmo la bussola.
Perché è importante ragionare su chi sia davvero un intellettuale, e su quale sia la sua funzione sociale oggi? La ragione è estremamente banale: gli intellettuali sono (dovrebbero essere) il fermento vitale di una società, coloro che ne stimolano lo sviluppo, la crescita culturale, morale, politica. E’ effettivamente una concezione un po’ organicista, ma come prima approssimazione mi sembra sensata. Gli intellettuali – in generale – hanno la funzione sociale che Thomas Kuhn attribuisce agli scienziati “rivoluzionari”, capaci di innovare settori scientifici fino a quel momento adagiati su paradigmi tanto universalmente accettati quanto ormai stanchi, obsoleti, incapaci di includere nuove idee e scoperte (ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, del 1962). Estendendo l’idea di Kuhn, potremmo dire che accade qualcosa di simile anche nell’arte (la scoperta della prospettiva, il realismo di Caravaggio, l’impressionismo…) e in ogni aspetto della vita sociale: assetti consolidati, pensieri ripetuti, abitudini assunte come regole, vengono messi in discussioni da gruppi di avanguardie sociali, culturali, scientifiche, letterarie, politiche; a volte, queste avanguardie sono in grado di mostrare la bontà delle loro nuove idee, che si impongono come nuovo paradigma (il concetto di ‘paradigma’ è sempre di Kuhn) finquando il nuovo diventa regola, si stabilizza, diviene a sua volta norma, in attesa di una nuova rivoluzione.
Visto in prospettiva è facile. Guardare indietro e affermare “Sì, quello è stato un nuovo paradigma che si è affermato, facendo progredire il genere umano”, è abbastanza facile. Difficilissimo vedere il cambiamento attorno a noi, coglierlo nella contemporaneità.
Perché è importante una riflessione sugli intellettuali? Perché dovremmo volgere lo sguardo verso loro, verso ciò che loro scrivono e dicono, per la semplice ragione che c’è una possibilità (non la certezza) che loro vedano cose che noi non abbiamo ancora visto, che le vedano sotto un profilo che a noi è sfuggito, che ne indichino una prospettiva che noi non abbiamo creduto possibile. Questa attenzione, questo nostro interesse, dovrebbe essere parte di una ricerca interiore motivata da una crescita personale e collettiva, individuale e sociale. Volere capire di più, e meglio, per vivere meglio, con la capacità di dare un senso maggiore e più soddisfacente alla nostra vita e, contemporaneamente, riuscire a svolgere un ruolo, sia pure minimo, nello sviluppo della società di cui facciamo parte. Questa è la motivazione. Motivazione all’intellettualità (essere intellettuali, ricercare il pensiero degli intellettuali).
Vale nell’ambito tecnico-professionale, in quello scientifico, artistico, ed evidentemente politico.
Allora, poiché ho scritto fin troppo sull’argomento, rinvio ad alcuni testi che reputo tuttora validi per arrivare velocemente a una conclusione.
Sul tema degli intellettuali ho scritto:
- L’intellettuale e la sua solitudine; se avete fretta vi raccomando almeno questo testo, dove ho scritto tutto quello che serve per definire ‘intellettuale’;
- La tragica incomprensione fra popolo che sente e intellettuali che sanno;
- Facciamocene una ragione: gli intellettuali fanno pena; uno fra i tanti articoli critici che abbiamo scritto sul massimalismo e l’ideologismo degli intellettuali; questo ha il pregio di essere breve e di concludere con un elenco di tre punti che sto per riprendere.
Proprio per la critica all’ideologismo e – di contro – la necessità di argomentare a dovere le proprie tesi, ricordo l’ultimo articolo di Ottonieri, a proposito del “caso Rovelli”: I Rovelli e gli intellettuali.
Il tema ci sta così a cuore, e lo riteniamo così rilevante, che vi abbiamo dedicato diversi passaggi, e le conclusioni, nel volume Pensare la democrazia nel terzo millennio, Bonanno ed., 2022.
La conclusione sugli intellettuali è pertanto la seguente: è intellettuale, a prescindere dal ruolo sociale e dal titolo di studio, chi:
- pensa, scrive, discute, in ogni caso si espone, con un’esplicita volontà di cambiamento sociale;
- compie uno sforzo significativo in contrasto col pensiero dominante e/o allontanandosi dalle ideologie, dai preconcetti, dal mainstream consolidato.
È così facile, che pare impossibile.
Se il punto n° 1 è piuttosto condivisibile, credo, il secondo resta ambiguissimo, e non c’è alcun modo per disambiguarlo.
L’idea di contrastare e combattere il mainstream è probabilmente la convinzione di un buon 90% della popolazione, che non passa giorno senza pensare che “la gente sia stupida” (escludendo ovviamente se stessi). Il ritornello “pensa con la tua testa”, semmai tutto in maiuscolo e con 4 punti esclamativi, è stato per anni lo slogan dei grillini rampanti, che gruppo più stupido e omologato è difficile trovarlo. Il fatto è che le ideologie (religione inclusa) affondano le radici nei valori basilari degli individui, quelli che compongono e plasmano la nostra personalità; non li vediamo neppure più come costrutti alieni, come parole e pensieri fondati su a priori insostenibili, e metterli in discussione non solo è difficilissimo, ma ci porta a dolorosi scontri frontali coi nostri gruppi sociali (amicali, familiari) di riferimento.
Quindi: chi può veramente dire che stiamo combattendo contro il mainstream, e non semplicemente proponendo una battaglia ideologica? Chi può veramente affermare che una certa dichiarazione sia una possibile apertura a un pensiero nuovo e più avanzato, e non semplicemente una difesa identitaria, uno scivolone narcisistico, l’adagiarsi a un conformismo fosse anche minoritario?
La risposta, oltre che in molti dei post già citati, l’ha data Ottonieri nel suo ultimo testo quando, criticando le uscite di Rovelli, scrive:
L’intellettuale che pretenda di essere tale non può essere superficiale, sommario, populista. Non può parlare per slogan, o sfuggire all’onere di analizzare davvero le questioni su cui si esprime.
Certamente questo punto è fondamentale, ineludile, ma, malgrado sia di per sé in grado di fare già una bella cernita, non dirimente.
Certamente lo scivolone di Rovelli è stato preceduto dallo scivolone di Saviano, da diversi della Murgia, e via enumerando “intellettuali” in pectore che qualche banalità, qualche boiata, qualche “verità” intrisa di ideologismo l’hanno detta e scritta eccome.
Questo introduce a un terzo punto, oltre ai due precedenti:
3. l’intellettuale non è mai un portatore di verità; non solo perché periodicamente dice o scrive lui stesso delle sciocchezze, ma perché la ‘verità’ è un concetto religioso, non sociale; non di politiche sociali, non di economia, non di programmazione, non di geopolitica; l’intellettuale, nella sua vicenda umana, mostra le medesime debolezze e carenze di qualunque altro essere umano, e il fatto che abbia strumenti intellettuali per meglio ragionare, per resistere alle derive ideologiche, per informarsi meglio, non significa che sempre e comunque lo possa e lo sappia fare.
Quindi l’intellettuale ci illumina a tratti; per una stagione, per una singola battaglia, per una specifica idea, e non è detto che a fianco di quella specifica e straordinaria idea non ne convivano altre più miserabili e meschine, il che ci porta al quarto e ultimo punto:
4. l’intellettuale non può eccellere in ogni campo della vita sociale; ognuno ha settori elettivi di competenza affiancati ad altri dove la sua approssimazione e fallacia è del tutto simile a qualunque persona comune. È la luce che emana dai settori primari di competenza che lo fanno illudere di avere saggezze, competenze, anche in altri settori, e che sia indispensabile che li renda pubblici.
Quindi tutti gli intellettuali (inclusi i citati Rovelli, Saviano, Murgia etc.) sono, sì, degli intellettuali; meritano il nostro interesse, il nostro sguardo, il nostro soffermarci a prendere in considerazione le loro dichiarazioni; ma possono sbagliare, essere a loro volta ideologici, male informati, posseduti più da una passione politica che da una ragione razionale. L’antidoto (altrettanto fallace e parziale) è da cercare nella nostra intellettualità. Ciascuno di noi è potenzialmente un intellettuale (vedi i primi due punti, sopra) se i) pensa, ragiona, ii) contrastando il comodo e facile pensiero dominante; essere di sinistra senza pensare che la destra sia indiscutibilmente fascista; essere accoglienti e misericordiosi senza pensare che dobbiamo aprire le porte a tutti i migranti; essere per i diritti delle donne senza gli orrori da caccia alle streghe del MeToo americano; essere sinceramente a favore dei diritti degli omosessuali senza sentirsi in dovere di annullare la biologia… In questa difficile temperie, si può quindi rispettare Saviano (o Rovelli, Murgia, etc.) senza sentirsi in dovere di prendere per oro colato ogni loro affermazione, e anzi sapendo dire, quando occorre, “No, qui hai detto una fesseria”.
Solo se ciascun individuo si fa intellettuale, se ciascuno combatte i propri mostri interiori (ideologismo, credenze a priori, identità, certezze rassicuranti, pensiero sociale dei gruppi primari di appartenenza…), solo così, solo allora, il pensiero dominante non ci schiaccerà; faremo anche noi errori imbarazzanti, diremo cose che non andavano dette, ci saremo ingenuamente fidati di chi non meritava, ma avremo cercato di costruire piccoli sentieri, spesso sterili, a volte efficaci. Saremo, in una parola, stati un po’ più liberi.