Ride Elsa chi ride ultimo

Da molti anni (troppi, forse, ma ne riparleremo) qui su Hic Rhodus pubblichiamo articoli contro il facile populismo sulle pensioni. Abbiamo sempre sostenuto l’impostazione della Legge Fornero, evidenziando l’insostenibilità delle ipotesi di un suo “superamento” (solo per fare un esempio, potete rileggere l’articolo Viva Elsa Fornero), e stigmatizzato la vergognosa demagogia di chi, approfittando dell’irresponsabilità di essere all’opposizione, faceva sit-in sotto casa sua chiamandola “criminale”.

Oggi, gli stessi personaggi che per dieci anni hanno inveito contro Elsa Fornero sono, ahimè, al governo e, verrebbe da credere, avrebbero dovuto avere come primo pensiero abolire la criminale Legge Fornero. Ebbene, no: dopo più di un anno, la Legge Fornero è ancora lì, anzi, il Documento Programmatico di Bilancio 2024, firmato dal ministro leghista Giorgetti, che delinea le tendenze della finanza pubblica fino al 2026, non reca traccia di ipotesi di modifiche strutturali alle norme (e quindi alla spesa) relative alle pensioni. La proposta di Legge di Bilancio 2024 presentata in Parlamento, a sua volta, prevede semmai, nell’Articolo 30, l’introduzione di nuove restrizioni alle forme di anticipo pensionistico (APE, Opzione Donna, Quota 103) che, già esistenti nel 2023, sono state prorogate al 2024. Contemporaneamente, la stessa proposta di legge prevede ulteriori restrizioni all’adeguamento delle pensioni all’inflazione; non a caso, le misure previste per le pensioni sono al centro della mobilitazione dichiarata in particolare da CGIL e UIL. Se io fossi Elsa Fornero starei davvero godendomi lo spettacolo dell’ignoranza e della malafede di Salvini & C. messa così platealmente allo scoperto.

Il Governo quindi sbaglia? Dovrebbe adottare misure più generose verso i pensionati e i pensionandi? Neanche per sogno.

Nonostante che il trascorrere degli anni mi faccia ormai rientrare tra coloro che sono direttamente interessati alle misure di pensionamento anticipato, ripeto quello che qui abbiamo sempre scritto: ogni Euro speso per prepensionare un anziano, rispetto alla scadenza prevista dalla Legge Fornero, è un Euro speso male. Il Governo non deve esercitare alcuna “generosità” verso i lavoratori anziani e i pensionati; semmai, deve riconoscere loro quello che loro spetta. Sia l’una che l’altra cosa sono molto lontane dalla mentalità dei nostri politici e, purtroppo, di tanti nostri concittadini.

Misure come l’Opzione Donna o Quota 103 sono ingiustificate, inique e inutili. Ingiustificate perché comportano costi addizionali per lo Stato che immotivatamente riguardano specifiche categorie di genere e anagrafiche, inique perché semmai sono i giovani a essere penalizzati dal nostro sistema previdenziale, inutili perché i mille laccioli che il Governo è costretto ad applicare a queste misure per limitarne il costo le rendono poco convenienti anche per la maggioranza delle persone a cui sono destinate.

Altrettanto iniquo e ingiustificato è trattare la rivalutazione delle pensioni non come un obbligo ma come una concessione, una spesa discrezionale su cui intervenire per “tagliare” di fatto anno dopo anno le pensioni più alte.

Entrambe queste distorsioni, in dare e in togliere, derivano dall’incapacità della politica di trattare le pensioni come dovrebbero essere ormai dalla riforma Dini, ossia come un sistema in cui i lavoratori hanno diritto a un reddito commisurato ai contributi che hanno versato. Quindi, prepensionare lavoratori secondo criteri ad capocchiam è iniquo, così come è iniquo imporre, di fatto, una tassa surrettizia decurtando l’adeguamento delle pensioni “alte” all’inflazione. Ma evidentemente ai politici fa molto più comodo ragionare “a mani libere” su come usare i soldi della previdenza, anziché sentirsi vincolati a fare esattamente e solo il loro dovere, ossia restituire ai lavoratori quello che ai lavoratori spetta, e non elargire a nessuno quello che non gli spetta.

Se è vero che a governarci ora ci sono dei cialtroni, è altrettanto vero però che nessun governo precedente ha voluto evitare questo abuso, ossia voler usare il sistema previdenziale per perseguire scopi politici, e in particolare inseguire il consenso di questa o quella categoria. Inutile far qui la storia dei mille trattamenti pensionistici ad hoc riservati a questa o quella nicchia di lavoratori, a partire dai politici stessi, ovviamente; limitiamoci a ripetere che ogni norma ad hoc è sbagliata, punto.

Resta da rispondere a una domanda: ma è quindi impossibile dare una risposta equa e sostenibile alle questioni alla base di queste misure inique e sbagliate? Non è detto, a patto di restare coerenti con l’impianto della riforma Dini del 1995, che stabilì che, fatta salva una fin troppo lunga fase transitoria, le pensioni dovessero essere calcolate col sistema contributivo, ossia, come scrivevo prima, restituendo di fatto a ciascun lavoratore una cifra corrispondente ai contributi versati. Vediamo quindi, restando fedeli a questa impostazione, quali siano le questioni aperte e quali possano esserne le soluzioni. L’importante è però tener presente che le risposte saranno altrettanto poco “generose” quanto lo è il principio per cui a ciascuno viene semplicemente reso ciò che aveva versato.

La prima questione è il pensionamento anticipato. Da molti lavoratori l’età di 67 anni è avvertita come troppo elevata, ed essi vorrebbero smettere di lavorare prima.

La seconda questione è il peso molto elevato che grava sul sistema previdenziale per la necessità di adeguare all’inflazione le pensioni in essere, mentre magari gli stipendi (e quindi i versamenti correnti) non crescono con la stessa rapidità.

Ebbene, risposte eque a entrambe queste questioni esistono, sono state proposte da due diversi Presidenti dell’INPS, e sono state ignorate da tutti i politici. Perché? Perché non regalano niente a nessuno.

La risposta alla questione del prepensionamento fu offerta da Pasquale Tridico nel 2021: chi vuole, vada pure in pensione a 62 o 63 anni, ma incassi solo la quota contributiva della sua pensione, calcolata in base ai contributi versati fino a quel momento e all’età che ha. Poi, dall’età di 67 anni, riceverà anche la quota retributiva calcolata come se fosse andato in pensione solo allora.
Il costo (teorico) di una misura simile per le casse dell’INPS sarebbe zero (dico teorico perché ovviamente i flussi di cassa sarebbero diversi e per altri motivi tecnici), e ognuno andrebbe in pensione quando gli pare. Però…

La risposta alla questione del carico delle rivalutazioni si potrebbe ricavare dalla proposta, più ampia e articolata, presentata da Tito Boeri già nel 2015 e da noi a suo tempo commentata: le pensioni retributive, ossia quelle che non rispettano il principio per cui a ciascuno va in funzione di quanto ha versato, rappresentano un elemento di insostenibilità che non risponde a principi di equità, e quindi anziché “limare” le pensioni in base al loro importo sarebbe equo ridurre la quota retributiva non corrispondente a contributi effettivamente versati. Però…

Però, entrambe queste soluzioni, proposte indipendentemente da due ben diversi Presidenti, hanno il difetto di contrastare con l’uso del sistema pensionistico come ammortizzatore sociale, molto caro alla politica. Se si permettesse a tutti di andare in pensione contributiva a 62 anni, si “scoprirebbe” che a quell’età la maggioranza dei lavoratori non avrebbe maturato una pensione sufficiente. A obbligarli a continuare a lavorare non sarebbe una legge frutto della volontà della malvagia Elsa Fornero, ma il semplice fatto che non avrebbero accantonato abbastanza contributi per sostenere i molti anni di pensionamento che la statistica prevede. Ad andare in pensione prima sarebbero solo i “ricchi”, che potrebbero permettersi di accettare una pensione più bassa di quella che avrebbero a 67 anni. Allo stesso modo, incidere sulla componente retributiva delle pensioni porterebbe alla luce il semplice fatto che il sistema retributivo aveva (e quindi ancora ha) una forte componente assistenziale, che finanzia non solo le pensioni minime ma in generale tutte quelle più “vecchie”. Anche in questo caso, insomma, scopriremmo che si tratterebbe di una misura regressiva (e infatti la stessa proposta Boeri prevedeva di applicarla in senso progressivo, in modo crescente rispetto all’importo della pensione).

Questo è il nodo: il nostro sistema previdenziale è stato usato, e largamente lo è ancora, per trasferire risorse anziché semplicemente per differirne la disponibilità nel tempo. E il modo in cui questo trasferimento avviene non garantisce affatto che a beneficiarne siano i più bisognosi e a pagarne i costi siano i più ricchi: il solo importo della pensione è un indicatore molto parziale del benessere di una persona. Anziché prevedere un sostegno economico agli anziani poveri, si è intervenuti sulle pensioni; anziché offrire servizi alle madri quando ne hanno bisogno, si inventano anticipi pensionistici dipendenti dal numero di figli; eccetera.

Ecco perché è praticamente impossibile che la nostra politica prenda decisioni eque in campo pensionistico: è per essa troppo comodo usarlo come “serbatoio” a cui attingere per contentare questa o quella categoria, portatrice di esigenze più o meno legittime. L’unico limite che chi sta al governo non può ignorare è che ormai soldi da spendere in questo modo non ce ne sono, e non c’è proclama demagogico che possa crearli dal nulla. Ecco perché oggi Salvini tace, ed Elsa Fornero con ogni probabilità sogghigna.