Banca d’Italia: tiriamo le somme?

Dopo il nostro precedente post in cui criticavamo il decreto sulla rivalutazione del capitale della Banca d’Italia, è successo un po’ di tutto. Alla Camera, dove il decreto è stato convertito definitivamente in legge, si è scatenata una furibonda battaglia dalla quale nessuno è uscito in modo particolarmente onorevole. Nel frattempo, la tesi sui “miliardi regalati alle banche” (che, semplificando, avevamo proposto anche noi come chiave di lettura critica del provvedimento) si è fatta sentire sui giornali e sul web, suscitando opposte prese di posizione, fino a indurre il Ministero dell’Economia a pubblicare una nota per confutare quelli che il Ministero chiama “argomenti privi di relazione con la realtà dei fatti”, e la stessa Banca d’Italia a emettere un “chiarimento” più sobrio di quello ministeriale, ma certamente meno algido dello stile abitualmente usato dal sussiegoso istituto di via Nazionale; comunque, delle fonti che difendono il decreto, questa mi appare la più esatta, e farò spesso riferimento ad essa, sebbene io sia nella sostanza di opinione nettamente opposta.

Altre letture argomentate del provvedimento sono state date ad esempio su noisefromamerika.org (molto vicino alla lettura del “regalo alle banche”), o su ilpost.it (equilibrato, ma relativamente vicino alla tesi “governativa”). Dato che le opinioni che abbiamo espresso rientravano indubbiamente tra quelle che il Ministero considera prive di relazione con la realtà, è forse utile rileggere il tutto, auspicabilmente con obiettività ma soprattutto evitando di farci disorientare da cortine fumogene, ora che il Parlamento ha definitivamente ratificato questo provvedimento. Un rischio che si corre, in questa situazione, è infatti di essere fuorviati da commenti che, come questo del quotidiano Europa, se la cavano mettendo in luce le imprecisioni di chi contesta il provvedimento anziché tentando di sostenere le presunte virtù del provvedimento. Chiariamo però che non ci interessa discutere le cronache parlamentari (su cui pure da dire ci sarebbe parecchio), ma il merito del provvedimento e del nuovo assetto della Banca d’Italia che ne deriva.
In sostanza, il decreto ora diventato legge è un atto necessario e “straordinariamente urgente”, che dà alla BI una governance e una struttura moderne e stabili, o è un espediente per spillare miliardi dalle casse della BI e dividerli tra Erario e grandi banche, che ottengono anche la garanzia di incamerare lauti dividendi futuri?

Proverò a rispondere in due diversi stili, e scegliete voi quello che preferite. Il primo stile è sintetico e ispirato, vorrei dire ricordando studi ormai remoti, all’impossibilità del moto perpetuo: non è possibile generare energia dal nulla, e non è possibile neanche generare ricchezza cambiando un numero su un pezzo di carta. Eppure, se si dovesse dar credito ai sostenitori del decreto, sembrerebbe che questo prodigio sia stato compiuto:

  1. Le banche ci guadagnano, non solo perché il valore nominale delle quote in loro possesso viene moltiplicato per 48.000, e portato a 7,5 miliardi di Euro, non solo perché questo nuovo valore viene di fatto garantito dalla Banca d’Italia stessa, che acquisirà a quel prezzo le quote in eccedenza (che le maggiori banche sono obbligate (sic) a vendere), ma anche perché il tetto del “dividendo” annuale che viene riconosciuto per Statuto ai proprietari delle quote viene portato a 450 milioni di Euro annui.
  2. Lo Stato ci guadagna, perché per via della rilevante plusvalenza prodotta dalla rivalutazione le banche pagheranno, con l’aliquota piuttosto clemente del 12%, circa un miliardo di Euro di tasse, che finiranno nelle casse dell’Erario. Non è un caso che il decreto originale unisse la “riforma” della BI con l’abolizione della seconda rata dell’IMU 2013, di cui ricorderete che non si sapeva come trovare la copertura finanziaria.
  3. Gli investitori che rileveranno le quote in eccedenza ci guadagnano, perché faranno un investimento a rischio zero ottenendo il 6% di interesse annuo, e scusate se è poco.

Come avviene questa magia? Evidentemente, per “pareggiare il bilancio energetico”, c’è qualche altro soggetto che ci rimette. Infatti un’analisi più accurata mostra che c’è: si tratta delle nostre tasche, nella duplice veste di legittimi proprietari delle riserve della BI (da dove escono i miliardi dei punti 1 e 2) e di cittadini dello Stato, che di fatto pagherà per il futuro i quattrini del punto 3. Sorprendente, vero? Ma per capirlo meglio dobbiamo ricorrere al secondo stile di risposta, che è quello analitico. Proviamo quindi ad affrontare uno a uno i nodi di questo ingegnoso decreto.

  1. Il “vero” valore delle quote. Avverto subito che secondo me questo punto è un tecnicismo usato come foglia di fico; in effetti la linea di alcune argomentazioni a favore del decreto è: vi dimostro che il valore ricapitalizzato è tecnicamente corretto, così mi sottraggo alle obiezioni di sostanza. Mi spiego: il valore delle quote della Banca d’Italia è finora stato largamente convenzionale: la BI è un soggetto specialissimo, direi unico; la fonte  maggioritaria dei suoi proventi è l’attività di emissione di valuta (il famoso signoraggio, pari a 1,3 miliardi di Euro solo nel bilancio 2012) i cui frutti non possono essere attribuiti a chi detiene le quote di capitale. Pertanto, è chiaro che non ha senso applicare alla BI i criteri per la determinazione del “fair value” delle azioni che si usano per le SpA. Non a caso la stessa BI nella sua nota di chiarimento scrive che la giusta valorizzazione delle quote “era incerta e ardua da determinare. Si è arrivati oggi a stimare il valore delle quote attraverso un calcolo complesso e con la consulenza di esperti nazionali e internazionali (da 5 a 7,5 miliardi di euro). Tradotto: provate a dimostrare che quel calcolo è sbagliato, se ne siete capaci. Beh, ci sarebbero molte obiezioni da fare, ma entrare in questo discorso significa a mio parere cadere nella trappola di un falso bersaglio.
    Bankitalia è Bankitalia, e per le banche, di cui essa è l’autorità di controllo, detenerne quote non è mai stato un investimento finanziario come quelli sul mercato azionario od obbligazionario. Fingere oggi che lo sia serve secondo me solo a fissare un valore “adeguatamente elevato” per il valore delle quote, e non a caso tra i metodi citati dagli “esperti” si è scelto quello che dava il valore più alto, e poi lo si è maggiorato ancora. Inoltre, finché come avveniva prima della privatizzazione delle Banche di Interesse Nazionale, le quote erano in mano di soggetti pubblici, la convenzionalità del loro valore non era un problema: tanto alla fine sia le quote che il capitale erano in mano pubblica.

    • Ora ammettiamo pure che 7,5 miliardi di Euro siano il valore “giusto” delle quote: allora non era lecito e possibile che lo Stato cedesse quelle stesse quote ai privati per un valore decine di migliaia di volte inferiore. Perché questa è l’impudicizia mal coperta dalla foglia di fico: tutta questa scrupolosa valutazione del valore delle quote la si fa solo adesso che le banche sono già state privatizzate (e stanno per rivendere a noi circa la metà di quelle quote), e non quando i privati hanno comprato le Banche di Interesse Nazionale! Allora, guarda caso, quelle quote non valevano praticamente nulla, e la BI si guardò bene dal farle stimare da un consesso di esperti come ha fatto ora che il valore delle quote incide direttamente sui portafogli degli azionisti di Unicredit o Banca Intesa. La verità è che lo Stato ha venduto la Banca d’Italia per X, e ora ci dicono che valeva 40.000 X, e che questo è il valore che le banche ora private hanno diritto, a nostre spese, a incassare o a mettere nel proprio attivo di bilancio. Nessuno dei commentatori favorevoli al provvedimento ha ovviamente detto una parola su questo dettaglio.
  2. La proprietà delle quote. Su questo ha ragione chi puntualizza che il nuovo decreto non cambia le carte in tavola: la privatizzazione delle quote di Bankitalia non è stata fatta ora, ma (ahimè) quando sono state progressivamente privatizzate le banche che le detenevano. Quello che è cambiato è che nessun soggetto può detenere oltre il 3% delle quote. Questo in sé è ovviamente positivo, anche se ha come effetto collaterale quello di “obbligare” Banca Intesa, Unicredit e altri “quotisti” minori a cedere circa 4,2 miliardi di Euro di quote in eccesso, che potranno essere acquistate appunto dalla Banca d’Italia utilizzando le riserve. In realtà, nell’impostazione originaria del decreto si coglieva l’intento di trasformare Bankitalia in una specie di public company, aperta a investitori anche non italiani. Questa apertura è sostanzialmente caduta dopo le modifiche che il decreto ha subito al Senato, e mi sentirei di dire che tutto sarà la Banca d’Italia meno che una public company (e non è detto che sia un male).
    Ma possedere le quote di capitale non significa possedere la Banca d’Italia: la Banca d’Italia è pubblica, non privata. Le quote non sono azioni, e non costituiscono un diritto di possesso, ma garantiscono altri diritti. Come riporta il “chiarimento” di Bankitalia, “La Banca d’Italia era e resta un istituto di diritto pubblico […] [Quello della Banca d’Italia] È un modello non dissimile da quello delle banche centrali di due tra i maggiori paesi del mondo avanzato, gli Stati Uniti e il Giappone. Nessuno mai penserebbe di considerare “private” la Federal Reserve americana o la Banca del Giappone”. Quindi, nessuno può permettersi di considerare “privata” la Banca d’Italia.
  3. Il nuovo assetto normativo della Banca. Sotto questa voce possiamo annoverare la maggior parte delle note positive di questo controverso provvedimento. Senza entrare troppo nel merito, possiamo dire che sia in termini di governance che di separazione tra dividendi delle quote e diritti sulle riserve si è fatta maggiore chiarezza.
  4. La proprietà delle riserve. Su questo non ci dovrebbero essere dubbi: come scrive la stessa Bankitalia, “In quanto derivanti da una tipica attività di interesse pubblico, queste riserve (così come le altre poste patrimoniali presenti nei conti della Banca d’Italia, incluso ovviamente l’oro) non sono di proprietà dei partecipanti [alle quote di capitale], i quali possono vantare diritti solo in relazione al capitale in senso stretto della Banca, diritti assegnati loro dalla Legge Bancaria del 1936 e ora rivalutati”. Quindi, incidentalmente, i prelievi che venivano fatti a beneficio dei “partecipanti” dalle rendite delle riserve erano ingiustificati, benché consentiti dal vecchio Statuto. Peccato che esattamente sulla possibilità di fare questi prelievi si sia basata la valutazione del valore delle quote… ok, ho promesso di evitare questo discorso. E se non sono dei “partecipanti”, di chi sono le riserve? Della Banca, perché la Banca non è di chi detiene le quote del capitale: la Banca, dal punto di vista delle sue finalità e della sua ragion d’essere, è nostra, come cittadini italiani, e nostre sono le riserve, nel senso che non sono alienabili e possono essere usate solo per scopi di pubblica utilità.
  5. Il “regalo” dei 7,5 miliardi. Su questo si è discusso moltissimo; la nota di Bankitalia dice che “Né lo Stato né i contribuenti sborsano alcunché per questa riforma. Il patrimonio della Banca (capitale + riserve) resta inalterato”. Questo è vero: peccato che, come abbiamo visto, il capitale sia delle banche e le riserve siano nostre. Il fatto quindi che 7,5 miliardi passino dalle riserve al capitale non è esattamente irrilevante, anche se il totale resta invariato e l’operazione è sostanzialmente contabile, ossia non “sposta” materialmente i soldi. E quest’ultima cosa non è propriamente vera: di questi 7,5 miliardi, circa 4,2 potranno essere acquistati dalla Banca attingendo alle riserve, depauperandole quindi anche in termini di cassa, oltre che nominali. Certo, poi la Banca potrà ricollocare le quote acquistate reintegrando le riserve, ma la mia natura diffidente mi fa prevedere che le quote saranno rivendute da Bankitalia a un valore più basso di quello che il decreto fissa per l’acquisto.
  6. L’incremento delle rendite. Il nuovo Statuto le fissa come massimo al 6% annuo del capitale, ossia a 450 milioni di Euro l’anno. Per fare un confronto, i “dividendi” riconosciuti ai partecipanti nel 2012 sono stati circa 70 milioni di Euro (qui sto trascurando un punto potenzialmente importante, ma questo post è già abbastanza indigesto così). La Banca argomenta che questo aumento non è così grande come sembra, perché la cifra di 450 milioni resterà fissa, mentre quella precedente era destinata a crescere con l’aumentare del capitale della Banca. Inutile dire che un aumento del 642% sembra sufficiente a coprire qualche millennio di crescita del capitale. Queste rendite peraltro non saranno a carico della Banca, ma della quota di profitti della Banca che vengono trasferiti allo Stato, quindi si tradurranno in circa 3-400 milioni di Euro l’anno di minori entrate erariali, che permetteranno quindi alle banche “quotiste” di rientrare in circa tre anni delle tasse sulla plusvalenza che ora saranno costrette a sborsare (il famoso miliardo di cui sopra).

Spero che tutto questo sproloquio sia stato, non dico cristallino, ma almeno utile a chiarire qualche punto. Certo, rimane sospesa una domanda: ma se questo decreto è così criticabile (e secondo me è eccezionalmente criticabile), cosa si sarebbe dovuto fare, invece?

Su questo si possono avere idee diverse. La mia è semplice: un Governo con gli attributi avrebbe dovuto dare attuazione alla legge del 2005 che stabiliva che lo Stato avrebbe dovuto comprare tutte le quote della Banca d’Italia, sanando così, ma in modo molto più logico e “robusto”, la situazione ambigua creatasi con la privatizzazione delle banche di interesse nazionale. Solo che questa “nazionalizzazione” si sarebbe dovuta fare attribuendo alle quote un valore enormemente più basso di quello “valutato” da Bankitalia; e ci sono eccellenti ragioni per affermare che, semmai, le banche quotiste hanno per anni incamerato soldi cui non avevano diritto (v. il punto 4 sopra). Certamente, questo avrebbe mandato in difficoltà diverse banche che avevano furbescamente e arbitrariamente gonfiato il valore di bilancio della loro partecipazione. Mi verrebbe alle labbra un’esclamazione impropria in questo contesto, e quindi mi limito a dire che ognuno risponde delle proprie azioni.

Un Governo povero di attributi, invece, avrebbe semplicemente dovuto rinunciare ad affrontare il tema delle quote, eventualmente limitandosi a intervenire sulla governance e l’assetto complessivo, v. il punto 3 sopra. Anche su questo ci sarebbe stato un “negoziato” con le banche, ma almeno il Governo avrebbe rappresentato gli interessi dei cittadini, e non la propria esigenza di coprire la seconda rata IMU. Perché, come molti osservatori equidistanti hanno notato, l’intervento sulle quote non rivestiva alcun carattere di urgenza, salvo appunto quella derivante dalle esigenze di cassa del governo e da quelle di patrimonializzazione delle banche.

Con questo, lasciamo l’argomento, salvo ovviamente rispondere a eventuali commenti e richieste di chiarimenti. Il decreto è ormai stato convertito in legge, e c’è poco da fare per riavere indietro i 7,5 miliardi graziosamente “conferiti” alle banche. Rimane necessario vigilare su questa faccenda, perché, al contrario di quello che sarebbe accaduto con una “nazionalizzazione”, resta l’anomalia di un ente pubblico il cui capitale è detenuto da privati. Nonostante la risistemazione normativa, abbiamo ormai imparato che queste anomalie hanno spesso un elevato costo, che non è mai pagato dai privati, se non dai privati cittadini.