Pierre fu colpito dall’infinita varietà degli intelletti umani, la quale fa sì che nessuna verità appaia in modo eguale a due persone diverse.
Lev Nikolaevic Tolstoj, Guerra e pace
Questo post parla del concetto di |verità| per sostenere che il concetto è pericoloso e probabilmente la verità non esiste. Fa parte di un trittico noiosissimo che includerà anche |Bene| e |Giusto| e che scrivo per mettere, anche qui su Hic Rhodus, i tasselli fondamentali della comprensione del nostro agire sociale ideologico; e quindi limitato ed eterodiretto. Ciò che sosterrò in questo trittico è che siamo spesso legati a preconcetti, idee demagogiche, retoriche quando non irreali ma molto potenti, che limitano fortemente la nostra capacità di giudizio e, conseguentemente, d’azione. Oltre che di una qualche utilità pratica quando andiamo a fare la spesa o guardiamo la TV, mettere in discussione in concetto di verità ha molta importanza quando parliamo di grandi scelte collettive (cosa sia meglio fare per aumentare il benessere della popolazione) e quando esercitiamo il nostro agire politico. In politica tutti siamo “di parte”; ma si può essere di parte contrapponendo argomenti oppure brandendo una qualsivoglia verità. Ed è chiaro che nessun argomento ha una probabilità minima di scalfire una Potente Verità Assoluta. Ecco perché affronto questo argomento. Perché siamo un popolo molto innamorato della verità, anche se ne sposiamo una diversa ogni qualche decennio, e questo ci rende immobili, vecchi, stanchi, astiosi.
Poiché ho già annunciato che si tratta di post noiosi, e che leggerete a vostro rischio e pericolo, posso procedere tranquillo precisando – excusatio non petita – che questo non è un blog per filosofi e il presente post non può essere altro che un breve e conciso testo preliminare e veloce con l’obiettivo di sensibilizzarvi a un sano relativismo.
Prima di tutto fatemi precisare i limiti coi quali discuterò di verità. Chiaramente non intendo affrontare discussioni teologiche. Se credete in un dio, tanto più se di una religione abramitica, avete una buona scorta di verità in cui credete ciecamente. Non ho nessuna intenzione di affrontare una tenzone sulla verità della transustanziazione, quindi rilassatevi. Eviterò anche discussioni su presunte e pretese “verità scientifiche”, e qui ammetto un po’ di vigliaccheria perché sosterrei volentieri che non esistono neppure loro (seguendo la sorte di quelle di cui vi sto per parlare) ma avrei bisogno di discorsi più complessi – per convincere i più restii – e farei perdere troppo tempo a tutti. Quindi sarà per un’altra volta. Quel che resta, e non mi pare affatto poco, è ciò che per brevità chiamerò verità sociale, cioè quella che nasce nel contesto di relazioni ordinarie fra individui (‘ordinarie’ = basate sul linguaggio ordinario). E poiché la politica è uno dei temi principali per Hic Rhodus, questo discorso sulla verità riguarda fortemente la politica, come detto, ed è per questo che ne scrivo.
Adesso dobbiamo sgomberare il campo da alcune ambiguità, perché il concetto di |verità| si interseca, in qualche modo modificandosi, con quello di |realtà| (e altri, come ‘oggettività’, ma devo semplificare) e si rischiano confusioni. Propongo quindi:
- realtà: è il nome che diamo a una rappresentazione non sempre necessariamente “vera”; p.es. i sogni sono “reali”, come ci insegna la psicoanalisi; i romanzi di fantascienza sono reali, e anche le allucinazioni; le amicizie e gli amori sono reali, almeno fino a quando finiscono. Viviamo in una realtà che include anche il falso (o almeno: ciò che potrebbe essere definito tale). Sono reali le nostre fantasie, i nostri progetti, le nostre speranze, anche se immateriali, anche se col tempo si modificano e scompaiono. Salvo relegare la realtà alla sola meccanica delle cose fisiche, non possiamo non considerare tutta la sfera psichica e sociale come parte della nostra realtà; ma anche il linguaggio – che è reale – include la falsificazione, il cosiddetto “doppio legame” e una quantità di noti paradossi che non sono né veri né falsi ma appartenenti a un altro regno;
- verità: un concetto spinoso e delicato, quasi religioso; e comunque non necessariamente “reale” per una ragione logica: la verità appartiene a ciò che può venire asserito, diversamente dalla realtà – che potremmo immaginare come esistente al di là dell’asserto (per alcuni questo è opinabile) – e diversamente dall’oggettività che è un giudizio sull’asserto, e quindi ha un’altra natura. La verità ha a che fare con l’assetto dei valori ai quali mi riferisco; essi sono un prodotto storico-sociale, com’è – a mio avviso – auto-evidente per il fatto che al mondo ci sono milioni di verità diverse, discese dall’arena delle idee per confrontarsi anche sul terreno delle armi;
Andando per le spicce potremmo dire che la relazione fra i due concetti può essere così semplificata: la realtà è l’oggetto dei nostri discorsi ed è indipendente da essi; la verità è una sua proprietà (= caratteristica) particolare che esiste solo in quanto detta; è quindi una forma del discorso. Che natura ha questa “proprietà”? Alcune proprietà possono essere misurate (altezza, peso…), altre contate (numero di lettori di questo post), altre solo classificate (il colore dei capelli, la squadra di calcio che ammiriamo…). La proprietà |verità| è di quest’ultimo tipo; non c’è una misura possibile per la verità ma solo l’attribuzione di uno stato fra i seguenti: Vero / Non vero. Per esempio:
- Bezzicante è bellissimo: Vero;
- Bezzicante è alto due metri: Non vero.
Alcune di queste affermazioni possono essere oggetto di verifica (e quindi verificate/falsificate) con artifici più o meno complicati. Se non mi conoscete di persona potete dubitare della mia altezza, ma se non mi venite a misurare non potrete smentire alcuna affermazione. Ma sul fatto che io sia bellissimo come la mettiamo? L’unica soluzione è fare un complicato concorso di bellezza e vedere cosa dicono dei giudici… Ma la mia mamma diceva sempre che ero bellissimo, e se i giudici non confermassero questo giudizio penserei certamente a una congiura ai miei danni.
Tutti gli asserti basati su opinioni (relativi a proprietà non misurabili o enumerabili) hanno questo problema: che le opinioni possono essere legittimamente diverse. In realtà poi, se volessimo approfondire, anche asserti su argomenti apparentemente misurabili sono tali solo in modo apparente: se così non fosse gli economisti sarebbero ricchissimi e gli statistici i veri profeti della nostra epoca. Il problema della verità si riduce quindi a questo: parliamo differentemente di questioni che non hanno possibilità di essere viste e comprese da tutti nello stesso modo ma, al massimo, in modo simile. Anche se queste ultime frasi sono parte dell’esperienza comune di tutti gli individui, per ragioni misteriose ci abbarbichiamo a nostre pretese verità, dichiarate e agite come assolute, contro quelle altrui. Proprio al volo fatemi ricordare come questo relativismo rappresenti uno strappo fondamentale rispetto al positivismo delle origini, che pretendeva, a partire dal Discorso sul Metodo di Cartesio, che la verità fosse unica. Non posso spiegare qui perché le persone abbiano opinioni differenti sulla medesima realtà. La psicologia, la sociologia, l’antropologia e la linguistica l’hanno illustrato benissimo in molteplici studi e semmai ci tornerò in prossimi post.
Gli asserti basati su “dati” non hanno meno problemi. Qui il discorso si potrebbe allungare troppo, anche perché siamo tutti abituati a considerare “i dati” cose oggettive (oops…); sapendo di prendermi i rimproveri di molti lettori educati alle hard sciences, dirò solo che le proprietà misurabili o enumerabili di un qualche interesse per la maggior parte dei nostri discorsi quotidiani (anche politici) sono in numero irrisorio; che sulle questioni misurabili (molte di quelle economico-finanziarie, per esempio) i dati sono sempre molteplici e contraddittori, al netto degli errori di rilevazione, dei casi mancanti, degli aggiustamenti e arrotondamenti arbitrari e del dolo (fattori, questi ultimi, frequentissimi, come sa bene chi maneggia dati). Ciò che molti cultori dei numeri non ammettono volentieri è che l’insieme magmatico di ciò che chiamiamo “dati” necessita, sempre, di scelte a monte (quali dati, come rilevarli, come trattarli…) e di una sempre opinabile interpretazione a valle; interpretazione che, ovviamente, modifica assai la pretesa di oggettività-dura-e-pura del numero.
Riepilogo fin qui, prima delle conclusioni:
- Nella nostra vita sociale, di relazione, esprimiamo opinioni di varia natura; ad alcune attribuiamo la proprietà del “vero” (“Io credo che sia vero che…”);
- tale verità si basa a volte su dati interpretati e altre volte su asserti e tentativi di argomentazione; e quindi sempre sul linguaggio;
- il linguaggio inganna; è manipolatorio, impreciso, interpretabile, vago; è facile quindi che interlocutori diversi si intendano differentemente in merito a un concetto – peraltro assoluto – come |vero|;
- in una concezione rigida della realtà sociale, manichea, fortemente orientata dal positivismo scientifico, la verità è un elemento molto circoscritto rispetto a tutto il resto che è non-verità (Figura 1 qui sotto); la verità è unica, è solo quella cosa, in quella forma, descritta in quel modo. Fanno parte di questo tipo di verità molte affermazioni religiose e scientifiche;
- in una concezione più elastica della realtà, alla luce delle considerazioni proposte in merito alla vaghezza del linguaggio e di un certo relativismo temperato, si può pensare che la verità non sia un punto fermo inamovibile ma un’approssimazione, un discorso concettualmente più ampio e comprendente, e che sia accettabile un’approssimazione di verità che concili linguaggi, esperienze e sensibilità differenti, pur nell’ambito di definizioni chiuse e non prive di identità specifica (identità riconosciuta come univoca dai diversi interpreti del discorso – Figura 2 qui sotto);
- infine – e questo è relativismo radicale – possiamo pensare che nelle relazioni sociali (e in politica) non ci sia una sola verità ma molteplici. Di egual valore anche se alternative, perché ciascuna motivata da contesti differenti, da esperienze differenti, da prospettive differenti rispetto alle quali semplicemente non c’è alcuna possibilità di paragone, di misurazione, di confutazione e quindi di primazia di una sull’altra (Figura 3 qui sotto).
Tornando alle ragioni che mi hanno portato a scrivere questo post: tramontata da tempo la pretesa di fondare il comunismo su teorie economiche ferree (“vere”), e consumatasi nel blob economico-finanziario di questi decenni ogni eventuale analoga pretesa del liberalismo; constatato per esperienza quotidiana che ciascuno di noi elabora differentemente le medesime (?) esperienze e che pertanto sì, a qualcuno piace Justin Bieber; verificata l’impossibilità di intendersi in maniera univoca, concorde, su cosa significhi |Amore|, |Giustizia|, |Democrazia|, |Felicità|… perché allora non convincersi che chi la pensa differentemente da noi, in politica per esempio, non sia necessariamente un mascalzone?
Se |verità| è un concetto che può coniugarsi con una visione religiosa del mondo, e basta, allora come pretendiamo di applicarlo alle molteplici varietà di esperienze, e competenze, e sensibilità, e circostanze in cui ci troviamo?
Il relativismo non è affatto una forma di qualunquismo gnoseologico, buono per tutte le “verità”, anche le più atroci. Così lo dipingono gli oscurantisti depositari di verità intoccabili:
relativismo come mancanza di valori, come falsa equivalenza – se non indifferenza – verso cose (in genere valori) invece molto diverse, alcune manifestamente buone e giuste, altre palesemente false e malvagie.
Scrive Zagrebelsky (Contro l’etica della verità, Laterza 2008):
Relativismo […] non significa che una cosa vale l’altra e dunque nulla ha valore. Sul piano della vita individuale, significa che le convinzioni, i valori, le fedi sono, per l’appunto, relativi a chi li professa e che nessuno può a priori imporli agli altri; sul piano della vita collettiva, relativismo significa che queste ‘relatività’ devono poter entrare nel libero dibattito per cercare condivise soluzioni normative ai problema del vivere comune, senza veti pregiudiziali. La democrazia deve essere orgogliosa di questo suo carattere” (pagg. 88-89).
Questo è il significato profondo di |relativismo| e la ragione per la quale va ricercato e perseguito. Nulla a che fare con l’atteggiamento indifferente e a-valoriale di chi non sa distinguere, non sa collocare in una prospettiva relativa gli avvenimenti e le opinioni, e quindi propone un pensiero stereotipato, immobile, fondato su credenze e certezze come lo intende Giovanni Jervis nel suo Contro il relativismo, Laterza 2005.
Zagrebelsky parla da giurista interessato a indicare vie per la democrazia. Raccomandandovi la sua lettura vi ricordo anche un vecchio libro, L’uomo senza certezze e le sue qualità di Gian Paolo Prandstraller (Laterza, Bari 1991), uscito senza scalpore più di vent’anni fa per mano di un sociologo che questo diceva: che il dubbio vivifica e la certezza condanna alla ristrettezza culturale, all’incapacità a dialogare, alla limitatezza del comprendere e – rispetto agli altri – alla feroce e sterile contrapposizione, agli auto da fé e alle inquisizioni, tutti temi ripresi anche da Zagrebelsky.
Risorse (oltre ai volumi indicati sopra):
- Se volete una dotta esposizione tecnico-filosofica: Verità di Massimo Dell’Utri, Treccani.it;
- Sulla difficoltà a utilizzare dati hard ha scritto Ottonieri qui su Hic Rhodus: Insidie e valore della Statistica: non facciamo la figura del pollo;
- Sul linguaggio, le trappole argomentative e ideologiche in un contesto tecnico e metodologico ho scritto molto nel mio volume La linea d’ombra. Problemi e soluzioni di ricerca sociale e valutativa, Franco Angeli, Milano 2011.