Le parole e il potere

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Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti

Karl Marx e Friedrich Engels, Ideologia tedesca

Come avranno capito i lettori di Hic Rhodus mi piace ragionare sul significato di ciò che diciamo, considerando che ciò che diciamo è spesso ambiguo e impreciso. Vi propongo allora un primo post – di due – su quale sia la forza del linguaggio nella costruzione del nostro mondo sociale e, assieme, su quale sia la sua debolezza.

Questo primo post racconta di come le parole ingannino, ma non in maniera casuale bensì in funzione della cultura dominante della quale siamo permeati. Siete pronti?

Incominciamo leggendo questo divertente passaggio tratto da I fiori blu di Raymond Queneau (quello di Esercizi di stile e di Zazie nel metrò):

– L’espadrilla?

– Quegli affari che ficcano nel collo della bestia feroce.

– É sicuro che una cosa così si chiama così?

– Per il momento, io chiamo così una cosa così quindi la cosa viene chiamata così, e dato che è con me e non con un altro che lei sta parlando in questo momento, le conviene prendere le mie parole nel loro aspetto significante.

E adesso confrontatelo con quello di Lewis Carrol (da Al di là dello specchio – e quel che Alice vi trovò):

– […] Questo è gloria per te!

– Non capisco cosa intenda per “gloria”, – disse Alice

Tappo Tombo [Humpty Dumpty] sorrise sprezzantemente. – É naturale che tu non capisca… finché non te lo spiegherò io. Significa: “Questo è un ragionamento schiacciante per te!”

– Ma “gloria” non significa “ragionamento schiacciante”, – obiettò Alice.

– Quando io adopero una parola, – disse Tappo Tombo, in tono piuttosto sdegnoso, – significa esattamente quel che ho scelto di fargli significare… né più né meno.

– La questione è, – disse Alice, – se lei può fare in modo che le parole significhino le cose più disparate.

– La questione è, – disse Tappo Tombo, – chi è il padrone… ecco tutto.

Io li trovo fantastici.

Entrambi i brani hanno a che fare col rapporto fra significazione (ovvero il senso che si dà alle parole) e potere, tema assai antico che – fuori dal campo di competenze della semiotica – è già indicato nel celebre L’ideologia tedesca di Marx ed Engels, in un contesto e con significati ovviamente molto differenti.

Il succo è questo: le parole ingannano e l’inganno va a beneficio di chi lo perpetua e lo orienta. La forza dell’inganno non è quasi mai nella frode, volgare e facilmente smascherabile, ma nella costruzione di un artificio retorico nel quale l’interlocutore si perde e finisce per non accorgersi di una sola falla, quella che consente di mutare il senso delle cose che si dicono (e che si fanno).

Eppure non possiamo vivere senza linguaggio. Il linguaggio è la base della nostra socialità. Con esso costruiamo la nostra realtà che è diversa, per ciascuno di noi, a seconda delle parole che possediamo. E ciò vale per il linguaggio ordinario come per quello tecnico e scientifico. Questa affermazione ha più implicazioni di quanto possa apparire e rinvia ai “sistemi di riferimento” professionali e scientifici – essenzialmente chiusi e autoreferenziali – che costituiscono sistemi di senso le cui radici non sono messe in discussione; seguendo Wittgenstein potremmo dire che pratichiamo “giochi linguistici” (quello della riflessione economica, quello sociologico, quello della biologia molecolare, etc.) con regole specifiche che indicano cosa cercare, e come, e cosa sia valido e cosa no e così via (cfr. Wittgenstein, Della certezza, 1978, ed. orig. 1969). Se le discipline scientifiche sono giochi linguistici, ovviamente la linguistica è da intendere – sotto il profilo epistemologico – un “metalinguaggio”. Anche il linguaggio è un angolo prospettico limitato; l’interesse a segnalare il particolare punto di vista linguistico è sottolineato dalla queste semplici constatazioni:

  • il linguaggio costituisce l’unico medium disponibile per connettere informazioni fra una realtà indagata e la mente dell’osservatore; qualunque teoria scientifica o filosofica si sia sposata, qualunque approccio si sia considerato, qualunque tecnica applicata e qualunque formato abbiano le informazioni raccolte, esse sono un testo, una forma espressiva, soggetta a regole in buona parte ben note ma lasciate spesso a livello implicito. Noi non comprendiamo nulla al di fuori delle possibilità e dei limiti che ci fornisce il linguaggio, né come possibilità di indagine, né come possibilità di elaborazione, né come successivo utilizzo pratico;
  • il linguaggio è sempre interpretazione: non esiste un significato univoco per i termini più banali e di uso quotidiano, come conseguentemente per i concetti più complessi appannaggio del linguaggio scientifico; ma il linguaggio ha una sua pregnanza e forza creativa tale da determinare, o quantomeno condizionare, indirizzare, il nostro pensiero in relazione ai significanti utilizzati. Le due cose, assieme, costituiscono un mix di indiscutibile rilevanza per ognuno di noi: usiamo con ambiguità termini e concetti che poi condizionano il nostro pensiero e quindi il nostro agire;
  • infine: una conseguenza epistemologica di quanto si va proponendo qui è che il metodo della ricerca può essere considerato, di per sé, un linguaggio:

Una epistemologia che si fondi sul linguaggio [porta] a considerare la scienza come linguaggio […]. Ogni scienza particolare si configura così come una semiotica particolare (Greimas, Del senso, 2001, 21; 22).

Wittgenstein

Tutte le informazioni hanno evidentemente una natura comunicativa fondata su linguaggi: nelle scienze sociali tutte le opinioni e i giudizi raccolti con questionari e interviste sono fondate sull’espressività linguistica degli intervistati (ricordiamocelo quando ci propineranno il prossimo sondaggio!); ma anche i dati, nonostante la loro apparente diversa natura, altro non sono che un particolare linguaggio (quello dei numeri, della matematica, e delle discipline derivate, che sono un tipo di logica: Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 1999, ed orig. 1953) con molte analogie col linguaggio ordinario col quale esprimiamo opinioni. In ogni caso informazioni e dati sono il frutto di una rappresentazione mentale, o schemi (Neisser, Conoscenza e realtà, 1993) di alcuni elementi di realtà, fondati su regole procedurali condivise (linguistiche o matematiche), idonee a trasmettere giudizi, valori, descrizioni fra individui. Le diversità attengono semplicemente il maggiore valore connotativo delle informazioni testuali, e alla maggiore possibilità di formalizzazione e standardizzazione dei dati numerici.

Occorre partire da una condivisa considerazione in merito al fatto che tutto ciò che riguarda l’azione sociale (politica, programmazione, ricerca, produzione, arte…) è linguaggio. Sarebbe abbastanza facile mostrare miriadi di esempi confermativi di questa affermazione, ma questo testo è molto lungo e confido non ce ne sia bisogno.

Un’annotazione importante: l’azione fondante la relazione umana è la comunicazione, ovviamente, e non il linguaggio: non è (necessariamente) linguaggio la relazione affettiva, la quasi totalità delle emozioni, molte arti eccettuate – ovvio – quelle basate sulla parola (poesia, letteratura, teatro) e molto altro ancora. Ma senza il linguaggio la comunicazione, per quanto raffinata, resta a livello primitivo: è per questo che, com’è noto, la relazione affettiva necessita di poche parole e di molta comunicazione extra-verbale: perché ha valore proprio in quanto primitiva, pura, non mediata (dal linguaggio). Ma con i pittogrammi, col linguaggio del corpo e quello dei gesti sarebbe impossibile descrivere dettagliatamente un progetto, farlo condividere ai diversi attori interessati e infine realizzare correttamente una determinata azione sociale.

Il linguaggio è la formalizzazione della comunicazione, la sua razionalizzazione, che consente un’incerta condivisione e un’ambiguità limitata.

Le conseguenze per l’azione sociale (politica e programmazione innanzitutto) sono enormi, specie e soprattutto sul piano del metodo.

Alcune delle conseguenze, e scusate se vado per le spicce, sono queste:

  • dal punto di vista epistemologico diventa difficile insistere sull’oggettività della prassi (sull’ingegnerizzazione della progettazione sociale ed economica, sulla pretesa oggettiva della sua valutazione…). Il tema è ormai abbandonato dai più, ma io continuo a trovare – direi quotidianamente – persone (politici, tecnici, difensori dei diritti di cittadinanza…) che esprimono questa preoccupazione (la pretesa di un’oggettività misurabile) che nella loro testa, ovviamente, ha poi a che fare col controllo democratico e la trasparenza (ovvero: una buona intenzione politica arenata sul bagnasciuga epistemologico);
  • dal punto di vista “tecnico” (scrittura delle leggi, articolazione dei programmi…): impossibile non partire dai testi, che non sono semplicemente “testi scritti” (la delibera, la legge, il regolamento attuativo…) ma le rappresentazioni mentali degli attori principali che agiscono quella legge, quel programma; allora partire dai ‘testi’ significa partire da ciò che la gente pensa che il programma (o la legge…) sia, debba essere; partire dal confronto fra le idee in merito (perché state tranquilli che ci sono forti differenze fra le immagini mentali e le descrizioni esplicite che del programma fanno attori diversi);
  • dal punto di vista delle tecniche, infine, di chi deve valutarne l’efficacia, significa utilizzare quelle che aiutano a estrapolare tali ‘immagini mentali’, che aiutano a formulare ‘testi’ (e a confrontarli), e inevitabilmente penso a tecniche non standard, possibilmente di gruppo.

Il linguaggio veicola valori, plasmando la concezione del mondo che abbiamo, indirizzando l’organizzazione della scienza entro la quale operiamo. Il linguaggio non è mai neutrale, mai! Il linguaggio, espressione di visioni del mondo, tende a perpetuare tali visioni. Ciò accade nella nostra vita sociale, dove senza accorgercene parliamo con le parole altrui, e quindi pensiamo i pensieri altrui, e accade nei più ristretti ambiti tecnici, professionali e scientifici.

[Link al secondo e ultimo post]