Molti di voi avranno seguito in queste ultime settimane le violente polemiche legate alla vicenda piuttosto sconfortante dell’Opera di Roma, dove a seguito delle dimissioni del Direttore Riccardo Muti si è giunti all’annuncio del licenziamento in blocco degli orchestrali e dei coristi. Nelle discussioni, che peraltro sono ancora in corso visto che la questione è ancora aperta, è a mio parere possibile cogliere innanzitutto lo scontro tra presupposti estremamente diversi sulla cultura, sul suo ruolo sociale, su come possa e debba essere finanziata.
Dato che su Hic Rhodus siamo molto sensibili ai temi culturali (includendo come parte essenziale della cultura quella scientifica), vogliamo proporre il nostro punto di vista, a partire appunto da quello che nel titolo un po’ provocatoriamente chiamiamo prezzo della Cultura.
La prima domanda che ci si potrebbe porre, infatti, è: è giusto che la Cultura (ossia le attività culturali destinate al pubblico) sia finanziata dalla collettività, e non sia un’attività imprenditoriale come un’altra? Ovviamente non parliamo qui dell’istruzione e della ricerca scientifica, ma di quelle attività, come quelle artistiche, museali, ecc., che hanno un pubblico e che quindi hanno degli incassi diretti. La risposta qui è forse abbastanza semplice: sì, è giusto che queste attività vengano finanziate anche dallo Stato e non solo da chi ne fruisce direttamente pagando il biglietto. Questo però ha una conseguenza: queste attività devono produrre per la collettività un beneficio effettivo e proporzionato alla spesa. In altre parole, essere finanziati dallo Stato non comporta un minore obbligo di contenere i costi e di massimizzare qualità e quantità del prodotto del proprio lavoro, bensì il contrario: un’attività che si autosostiene economicamente può benissimo spendere più del necessario, una che si finanzia pescando nelle tasche dei contribuenti no. E fin qui teoricamente dovremmo essere tutti d’accordo.
Un secondo punto che vorrei affermare chiaramente è che anche in ambito culturale (e tanto più non culturale) nessuno può rivendicare il diritto a una spesa “variabile indipendente”, ossia il diritto a spendere una cifra X indipendentemente dai vincoli complessivi del bilancio dello Stato, da un lato, e dal valore più o meno misurabile dei suoi prodotti dall’altro. Anche questo principio dovrebbe essere pacifico, ma a mio avviso non lo è affatto, e le reazioni alla “vicenda Opera di Roma” lo mostrano chiaramente.
Infine, per terminare le premesse “ovvie”, l’Italia (sulla carta) spende molto poco, anzi troppo poco, per la cultura. Non solo il livello di spesa pubblica per questo settore è basso, ma è in contrazione; secondo un rapporto di Eurostat, infatti, la spesa pubblica italiana per il settore Recreation, Culture and Religion nel 2012 è stata la più bassa rispetto a tutti gli stati dell’Unione Europea: lo 0,7% del PIL (per confronto, la Germania spende lo 0,8%, UK l’1%, la Francia l’1,4%) oltretutto in forte calo dal già modesto 1,1% del 2011. Credo sia insomma facile concludere che l’Italia non può permettersi di tagliare ulteriormente i finanziamenti alla cultura, anzi sarebbe necessario aumentarli.
In particolare, parlando di Lirica, il grosso dei finanziamenti sono erogati tramite il Fondo Unico per lo Spettacolo, che negli anni mostra un andamento di decrescita ahimè “spettacolare”, perdendo il 56% del suo valore reale a partire dal 1985. Almeno all’apparenza, quindi, ci sono stati drammatici tagli alla spesa culturale, e per i teatri lirici in particolare.

Dato che la Lirica è la principale beneficiaria del FUS, questo calo riflette quello degli stanziamenti pubblici per questo settore. Mi sembra chiaro che sia necessario invertire questa tendenza (considerato che i numeri assoluti sono relativamente modesti, quindi non si tratta di trovare miliardi), e contemporaneamente rendere concrete le parole che da anni si ascoltano sul coinvolgimento dei privati. Una fonte (tra le tante) che offre una valida panoramica di spunti di trasformazione del settore della cultura è offerta ad esempio dagli Stati Generali della Cultura del Sole 24 Ore, un’iniziativa che un paio d’anni fa produsse un manifesto ricco di pregevoli idee rimaste lettera morta.
Bene, ma a quale conclusione conducono queste considerazioni teoricamente tutte condivisibili? A dire che bisogna aumentare i finanziamenti al Teatro dell’Opera e riassumere tutti i licenziandi? Secondo me, no. Dire che gli stanziamenti per la cultura sono insufficienti non significa dire che si debbano spendere in modo inefficiente e opaco; anzi, significa esattamente il contrario: ogni istituzione che viene finanziata ha l’obbligo di avere una gestione sana e contemporaneamente di realizzare prodotti qualitativamente e quantitativamente all’altezza.
Vediamo quindi come mai l’Opera di Roma versi nella situazione attuale. A questo scopo, partiamo dal bilancio del 2012, che è l’ultimo che ho trovato in Rete (peraltro incompleto, e non sul sito del Teatro, ma su quello del Ministero):
- i ricavi derivanti dalla vendita di biglietti, abbonamenti e “altre prestazioni” ammontano a poco meno di 7,4 milioni di Euro, con un calo del 7,2 % sul 2011
- i contributi pubblici ammontano a oltre 48,8 milioni, con un aumento di circa il 3% sul 2011
- i costi derivanti dai soli salari e stipendi ammontano a 25,7 milioni di Euro
- complessivamente, i costi di produzione superano le entrate, comprensive dei contributi pubblici, di quasi 700mila Euro.
In realtà, la situazione debitoria del Teatro è pesantissima, e la stessa Corte dei Conti ha aperto un’indagine sulla precedente gestione, che avrebbe (il condizionale è d’obbligo) speso moltissimo a beneficio di diversi soggetti, interni ed esterni. Di fronte ai debiti, agli oneri di gestione e, non ultimo, a un elevato livello di contenzioso sindacale (francamente singolare per una categoria non propriamente di colletti blu), il Teatro dell’Opera aveva una sola possibilità per non essere costretto a chiudere: definire e applicare un rigoroso piano di risanamento per accedere ai fondi previsti dalla Legge Bray, che avrebbe potuto riequilibrare il bilancio a determinate condizioni. In questo, il Teatro dell’Opera di Roma non era e non è solo: sono numerose le Fondazioni operistiche in dissesto finanziario, che costeranno centinaia di milioni alle casse statali oltre i finanziamenti correnti, mentre c’è chi definisce “progetto di declassamento” quello della “famigerata legge Bray”. Evidentemente chi spende senza controllo il denaro pubblico non è famigerato.
Eppure, nonostante fosse evidente che si trattava dell’unica via praticabile, il piano del nuovo Sovrintendente Fuortes, approvato dalla maggioranza dei dipendenti, è stato rifiutato e boicottato da una parte dei sindacati e del personale artistico, con agitazioni e scioperi che hanno azzoppato, tra l’altro, la recente stagione lirica estiva a Caracalla. Impedire all’Opera di aumentare i propri magri incassi, rendere aleatori i programmi per le tournée, organizzare scioperi selvaggi obbligando a rimborsare i biglietti o a far accompagnare i cantanti da un pianoforte solo, sono comportamenti discutibili in tempi di vacche grasse, ma intollerabili e fatali quando si è a un passo dal fallimento. Tanto per capirci, la ragione addotta dagli scioperanti per impedire la rappresentazione della Bohème a Caracalla è stata: “Chiediamo concorsi regolari per ampliare gradualmente l’organico dell’orchestra in modo che si arrivi alle 117 unità concordate anni fa da Teatro, Comune, Ministero e parti sindacali”. Ma come? Sei praticamente in bancarotta e vuoi i concorsi per nuove assunzioni?
Ebbene, chi ragiona così, considerandosi una “variabile indipendente” svincolata da qualsiasi obbligo di coerenza e compatibilità con le condizioni generali del sistema in cui opera, è inevitabile che prima o poi si debba confrontare col “mercato” come tanti dei cittadini che forse troppo a lungo gli hanno pagato lo stipendio. Una posizione simile l’hanno espressa anche i sindacati (CISL e UIL) che attribuiscono la responsabilità del precipitare della crisi allo “stato di agitazione pressoché permanente” e alle “azioni di minaccia e agli scioperi effettuati” da CGIL e Cisal.
Le dimissioni del “Direttore Onorario a vita” (sic) Riccardo Muti sono la conseguenza più plateale della drammatica spirale in cui il Teatro si avvitava, ma anche senza di esse sarebbe stato impossibile evitare provvedimenti radicali.
Peraltro, la vicenda dell’Opera di Roma è purtroppo emblematica; come abbiamo visto, per molti Teatri Lirici i tagli ai finanziamenti pubblici sono stati solo virtuali: si è consentito alle Fondazioni che li controllano di accumulare debiti che rappresentano un onere aggiuntivo per i contribuenti, un vero e proprio finanziamento sommerso estorto alla collettività, spesso utilizzato in modo opaco e non propriamente a eterna gloria dell’Arte. La legge Bray è un tentativo di mettere ordine in questa giungla, salvaguardando contemporaneamente la sussistenza degli enti indebitati, purché questi cambino drasticamente rotta.
Dopo questa lunga disamina, arrivo infine alla (mia) conclusione: qual è il prezzo giusto della Cultura? Lo dico chiaramente: non quello di tenere in piedi strutture organizzate come centri di spesa sommersa consociativi tra “manager”, fornitori, sindacati e dipendenti per spillare quattrini allo Stato. Enti gestiti con questa logica per me, cultura o non cultura, possono e anzi devono essere commissariati, ridimensionati e magari chiusi, perché sia chiaro che le risorse pubbliche non sono res nullius. Dobbiamo entrare in una logica secondo cui a chiunque spenda denaro dei contribuenti, anche se artista od organizzatore di attività artistiche, venga chiesto conto dell’efficacia e dell’efficienza con cui lo spende, più ancora che nelle imprese private, proprio perché la Cultura è preziosa: bisogna garantirle più risorse economiche, più pianificazione strategica, ma anche più rigore nella gestione; e la gestione, ad esempio di un Teatro d’Opera, non è fatta solo dai Sovrintendenti. Bisogna finanziare (di più) e premiare le strutture sane, produttive e trasparenti, e ridimensionare o chiudere quelle deficitarie, inefficienti e opache; anche nella Cultura.