Nel tentativo di riguadagnare propositività su temi di contenuto, il M5S è tornato a richiamare con forza attenzione sul proprio disegno di legge per il cosiddetto reddito di cittadinanza, che era già stato un cavallo di battaglia nella campagna elettorale per le scorse elezioni europee e che, alle precedenti elezioni politiche, in una forma o nell’altra e con maggiore o minore enfasi, aveva trovato spazio anche nei programmi di Scelta Civica (“reddito di sostentamento minimo”) e del PD (“reddito minimo”). Nonostante che alcuni giornali abbiano tentato di aiutare gli elettori a districarsi tra queste diverse proposte in ambito di welfare, mi sembra che tuttora ci sia parecchia confusione in materia. A questa confusione contribuisce anche il fatto che l’attuale proposta di legge del M5S è diversa da quella che era stata presentata nel 2013, e ovviamente da quelle che in diversa forma erano state delineate da altri partiti. Proviamo quindi a fare un po’ di chiarezza.
[Nota: questo post riprende uno precedente, che riteniamo utile aggiornare alla luce del nuovo DDL del M5S]
Il primo elemento di chiarezza penso consista nel sottolineare che quello di cui si parla come reddito di cittadinanza non è un reddito di cittadinanza. In realtà, un “vero” reddito di cittadinanza sarebbe incondizionato e uguale per tutti, basato appunto solo sul possesso della cittadinanza italiana. L’idea del reddito di cittadinanza non è infatti un’invenzione dei nostri politici, ma esiste da diverso tempo. Tuttavia, nonostante sia usato spesso questo nome, come dicevo le proposte sul tavolo sono una cosa diversa, e riguardano piuttosto l’introduzione di un reddito minimo garantito che, in diverse forme, è presente in molti Paesi europei; come riferimento, prenderò quella avanzata dal M5S, sia perché questa è la forza politica che sostiene questa ipotesi con più convinzione, sia perché il M5S ha presentato un vero e proprio disegno di legge che può quindi costituire una base di discussione meno aleatoria.
Cos’è quindi il reddito minimo proposto dal M5S? In sostanza, si tratta di un’integrazione al reddito individuale o familiare, che, per una persona sola, equivale a garantire un minimo di 780 Euro netti al mese. Questo reddito minimo corrisponde al livello di rischio di povertà fissato dall’Eurostat, che corrisponde al 60% del reddito disponibile medio in un dato paese, ed è quindi soggetto a essere rivisto di anno in anno. Chi percepisce il reddito minimo, se maggiorenne, è tenuto a mettere a disposizione di progetti utili alla collettività un massimo di otto ore settimanali, e ha l’obbligo di cercare attivamente lavoro e di accettare eventuali proposte sottopostegli per il tramite dei Centri per l’Impiego. Ora, spiegato sinteticamente di che si tratta, si pongono a mio avviso due diverse domande:
- Il reddito minimo è una buona idea?
- Il provvedimento proposto dal M5S è una buona concretizzazione di questa idea?
Cominciamo dalla seconda: a mio avviso, il modo in cui questa idea sarebbe realizzata secondo il DDL del M5S non va bene sotto diversi aspetti. Cercando di non essere troppo noioso, ne cito solo qualcuno, ma ce ne sarebbero altri:
- Il riferimento alla soglia di rischio di povertà, che è un indicatore relativo (e peraltro non corrisponde a quello di povertà relativa adottato dall’ISTAT): intervenire su tutti coloro che sono statisticamente classificati come “relativamente poveri” significa che il numero di beneficiari di questo reddito sarebbe sostanzialmente indipendente dalle condizioni economiche complessive del Paese. Infatti, la povertà relativa si definisce rispetto alla media; quindi, se per assurdo domani in Italia tutti guadagnassero il triplo, la povertà assoluta sparirebbe o quasi, ma il numero di poveri relativi resterebbe uguale ad adesso. Molto più significativo è appunto l’indice di povertà assoluta, di cui abbiamo parlato qui.
- L’importo del “reddito minimo” mi sembra… troppo alto. 780 Euro netti al mese (nella precedente proposta di legge del M5S erano 600. Speriamo che non ce ne sia una terza…) è una cifra troppo vicina al possibile reddito di un giovane neo-assunto perché non si corra il rischio che moltissimi giovani preferiscano fare i “disoccupati professionisti”, cercando lavoro solo fittiziamente.
- Se non mi sbaglio, non è prevista una durata massima per l’erogazione del reddito minimo (il testo precisa che “la fruizione del beneficio perdura fino al miglioramento della situazione economica del beneficiario e finché il beneficiario rispetti gli obblighi” previsti), e anche questa caratteristica, sebbene coerente con l’idea teorica di reddito minimo, in un contesto come il nostro aumenta il rischio di “istituzionalizzare” quello che dovrebbe essere un sostegno transitorio per chi si trovi in temporanea difficoltà.
- La necessità di istituire una serie di complessi strumenti tecnici e organizzativi per consentire di registrare, gestire e controllare la popolazione dei beneficiari e tutte le azioni intese a favorirne l’accesso al lavoro. Il DDL prevede l’istituzione di un libretto formativo elettronico del cittadino, da gestire attraverso una struttura informativa centralizzata, descritta per sommi capi nell’art. 6 del DDL. Inoltre, “i centri per l’impiego, al fine di agevolare la fruizione dei servizi, mettono a disposizione del beneficiario una pagina web personale nella quale l’utente visualizza le informazioni inerenti al proprio fascicolo personale elettronico del cittadino e può inserire il proprio curriculum”. Sbaglierò, ma a me sembra un’operazione che sarebbe lodevole ma che vedo complessa e sostanzialmente irrealistica.
- Infine, la proposta M5S prevede che “Per i soggetti di età compresa tra i 18 ed i 25 anni costituisce requisito fondamentale essere in possesso di qualifica o diploma professionale […] ovvero essere in corso di frequenza per l’acquisizione di uno dei predetti titoli”. Insomma, i cosiddetti NEET (Not in Education, Employment or Training) non sarebbero ammessi, col prevedibile risultato che molti s’iscriverebbero a corsi scolastici solo per fruire dell’assegno, senza peraltro dover studiare (non è richiesto un profitto minimo).
Ma torniamo al punto centrale: immaginando che i difetti della proposta M5S possano essere corretti, il reddito minimo sarebbe una buona idea? Qui ovviamente la risposta non è solo “tecnica”, ma politica. Un reddito minimo garantito è uno strumento di welfare a mio parere valido, a patto che sia alternativo e non sovrapposto a una serie di altri strumenti che oggi sono vigenti in Italia. Il reddito minimo, in sostanza, dovrebbe consentire una sussistenza accettabile a chi non ha lavoro o ne ha uno a tempo parziale, nell’ottica, a termine, di inserire comunque questi soggetti nel mondo del lavoro. In questo senso ha un valore, proporzionale all’affidabilità di due elementi chiave:
- l’attendibilità dell’identificazione dei soggetti realmente “poveri”;
- l’efficacia dei centri per l’Impiego nel gestire la formazione e l’inserimento dei beneficiari, e nell’individuare quelli che effettivamente cercano lavoro. Tanto per fare un esempio delle procedure ingenuamente farraginose che il DDL prevede, segnalo solo che i beneficiari sono tenuti a documentare quello che fanno per trovare lavoro “attraverso l’accesso dedicato al sistema informatico nazionale per l’impiego e con la registrazione delle azioni intraprese anche attraverso l’utilizzo della pagina web personale”, tenendo presente che “l’azione documentata di ricerca attiva del lavoro non può essere inferiore a due ore giornaliere”. Cioè, se ben capisco, ogni sera il disoccupato dovrebbe collegarsi alla sua pagina web, e scrivere cosa ha fatto quel giorno nella sua ricerca di lavoro, alla quale deve aver dedicato almeno due ore. Immagino che poi dovrebbe esserci qualcuno, al centro per l’impiego, che controlli che ciascun beneficiario abbia registrato attività di ricerca di lavoro per un minimo di due ore tutti i giorni. Onestamente quest’idea fa sorridere tanto è inverosimile.
In assenza di procedure di controllo semplici e concretamente attuabili, il rischio ovvio è che il reddito minimo diventi un benefit per chi non sta realmente cercando un lavoro, o perché ne ha già uno più o meno “in nero”, o perché è mantenuto dalla famiglia e non lavorerebbe in ogni caso. L’Italia infatti ha uno dei tassi di attività più bassi d’Europa, con solo il 63,5% della popolazione sopra i 15 anni che lavora o cerca lavoro: tolti i pensionati, sono quindi molti gli italiani che (almeno ufficialmente) non sono né occupati né in cerca di occupazione. Si rischierebbe insomma, paradossalmente, di incentivare il lavoro in nero.
Infine: quanto costerebbe e come potrebbe essere finanziato il reddito minimo? Secondo il DDL del M5S, il costo massimo del provvedimento sarebbe fissato in 17 miliardi di Euro, una cifra molto alta, per la quale il disegno di legge indica una lunga serie di fonti di copertura, da tagli alle spese militari a una patrimoniale, da un aumento delle imposte sui giochi pubblici all’abolizione di una serie di enti pubblici, dalle quote dell’otto per mille “inoptate” all’aumento di specifiche imposte e tasse (tra cui quelle sul settore petrolifero), a uno speciale prelievo sulle pensioni più alte, e così via. In pratica, per la copertura il M5S propone un mix di una “mini spending review” e di aumenti delle tasse, in particolare con una patrimoniale annua per tutti i patrimoni sopra i due milioni di Euro.
Inoltre, all’istituzione del reddito minimo il DDL prevede si accompagnino una serie di altri benefici e incentivi (alcuni socialmente importanti, come quelli relativi a un ulteriore contributo per chi paga un affitto; alcuni anche sorprendenti, come un bonus del 5% per coloro che si facciano versare il reddito minimo su una carta prepagata emessa gratuitamente dalle Poste Italiane) che a mio avviso non potrebbero che alzare ulteriormente i costi per il bilancio pubblico.
Non mi pare invece si proponga un riordino delle attuali forme di sostegno ai redditi più bassi, che logicamente dovrebbero essere sostituite appunto da questo reddito. Secondo uno studio di qualche anno fa, infatti, solo il 27% dei beneficiari delle attuali forme di assistenza economica ricade effettivamente nella fascia di povertà. Da questo punto di vista, quindi, questi trattamenti, almeno in teoria, potrebbero essere sostituiti più efficacemente dal reddito minimo garantito.
Tirando le somme, cosa dovremmo pensare del reddito minimo garantito? Sgombrato il campo dall’erronea e fuorviante espressione “reddito di cittadinanza”, si tratta di un istituto largamente diffuso in Europa, che rispetto alle varie forme di protezione sociale esistenti in Italia ha il vantaggio di essere meglio mirato alle fasce più povere di popolazione, e di poter essere associato alle politiche di inserimento/reinserimento nel mondo del lavoro.
D’altro canto, la formulazione proposta dal M5S non mi persuade, sia per i suoi difetti “tecnici”, sia per l’elevatissimo costo che, anche per il semplicismo con cui sono stati indicati i tagli di spesa che concorrerebbero alla copertura, rischierebbe di dover essere finanziato in larga misura con un ulteriore e insostenibile inasprimento fiscale, sia per la complessità del sistema di certificazione e controllo e per il ruolo cruciale che avrebbero i centri per l’impiego nella cui efficienza onestamente ripongo scarsa fiducia.
Se quindi, almeno a titolo personale, sono favorevole a porsi l’obiettivo di riformare il nostro welfare in questa direzione, ritengo che il primo passo non possa essere questa (un po’ demagogica e confusa) proposta di legge, ma una riforma complessiva del sistema pubblico di riqualificazione e collocamento dei lavoratori disoccupati, e dei trattamenti di sostegno al reddito che andrebbero assorbiti e unificati nel reddito minimo garantito, in modo da valutare con attendibilità le ulteriori risorse che andrebbero trovate per poterlo applicare. In realtà, il recente Jobs Act è già intervenuto a costituire un’Agenzia Nazionale per il lavoro, che dovrebbe coordinare l’azione dei centri territoriali; ma questo sarà probabilmente un altro capitolo della complessa dialettica tra Stato centrale ed Enti locali.