Piccoli slittamenti amorali

signore-delle-mosche

Gli uomini fanno il male come le api il miele (Golding)

Con un certa sofferenza personale devo esplicitare – prima di tutti a me stesso – questa consapevolezza che prende forma nella mia coscienza: l’impossibilità di perseguire una verità, se volete utilizzare subito categorie importanti, o anche solo l’impossibilità della linearità della condotta, quella della semplicità della conciliazione fra pensiero e azione. Noi – questo il succo della mia riflessione – non solo non pensiamo sempre le stesse cose, non professiamo sempre gli stessi valori, cambiandoli invece con impressionante velocità in base alle circostanze e convenienze ma, di più, riteniamo di difendere valori fondamentali che sono costantemente traditi dai nostri comportamenti. Siamo dei concentrati di contraddizione solitamente non rilevata, non riconosciuta. Vorrei allora provare a farvela notare per fare una sorta di esperimento esistenziale: vorrei segnalare dei casi esemplari di tale contraddizione; ammesso che la rileviate anche voi – non è detto – cosa ne pensate? Vi lascia indifferenti? Anticipo che lo scopo non è di infastidirvi o farvi rammaricare per le vostre contraddizioni; nelle conclusioni cercherò di recuperare il senso profondamente umano di questa schizofrenia dell’esistere.

Esempio n° 1 – In America un pedofilo viene sorpreso in azione dal padre di una giovanissima vittima, viene gonfiato di botte e lasciato esanime a terra; la polizia e il sistema giudiziario americano appoggiano il padre, che non viene perseguito per le gravissime lesioni, mentre il pedofilo viene condannato a 25 anni. Vi invito non tanto a leggere l’articolo ma i commenti sull’HuffPost. Una quantità di persone appoggiano il padre e pochissimi sostengono tesi contro la giustizia-fai-da-te. Voi cosa ne pensate? Io credo due cose contemporaneamente: credo che se fossi stato il padre avrei fatto la stessa cosa e credo che – non essendolo – devo condannare il padre e il sistema di giustizia americano, dove il corsivo su ‘devo’ significa che escludo dal giudizio la mia soggettività emotiva, il mio senso di partecipazione come padre, la mia identificazione nella vittima dell’abuso. Quando, in questi casi, i giustizialisti ti chiedono “vorrei vedere come la penseresti se fosse stato tuo figlio ad essere molestato” sbagliano, perché cercano di sottrarre il tuo pensiero dalla sede di distaccata razionalità, di equilibrio e di tentativo di giudizio generalizzabile (per quel che si può) per farti precipitare nel buco nero dell’identificazione passionale, della rabbia emotiva, della difesa primordiale del proprio territorio e della propria tribù. Lo scostamento, fuori da immagini figurate, è quello fra morale e amoralità. La morale, essendo un costrutto complesso di asserti, è ovviamente sempre inadeguata ai contesti, deve sempre cercare di modellarsi e rimodellarsi e quindi si presta a critiche, a incompletezze, ad errori. L’amoralità (e quell’a- privativo chiarisce bene) non è regole, non è asserti, non è costrutti logici ma la loro assenza. L’assenza è sempre equilibrio, mentre la presenza è sempre condannata al disequilibrio. Io probabilmente a parità di condizioni avrei gonfiato di botte il pedofilo, così come avrei sparato ai ladri intrufolatisi in casa, ma ciò che individualmente e violentemente avrei fatto come individuo è giustamente sanzionato dalla società.

D’altronde non siamo noi che condanniamo le giustizie sommarie degli altri? L’adultera lapidata in seguito a una sentenza di un qualche tribunale tribale, la donna linciata e bruciata dalla folla inferocita perché avrebbe distrutto pagine del Corano e poi, guardate, aggiungo per sovramercato gli infedeli sgozzati dai tagliagole Isis: il fatto che facciano orrore a noi, ma sembrino atti giusti e addirittura santi a loro, non vi fa pensare che solo una presunzione etnocentrica piuttosto ingenua vi permette di giudicare? Sia chiaro, su queste stesse pagine anch’io l’ho fatto: io condanno i barbari islamisti che bruciano, tagliano gole, lapidano eccetera, ma proprio per questo, per ritenere legittimo il mio atto di condanna, devo avere un comportamento completamente differente. La differenza non può essere tribale (loro sozzi primitivi, noi legittimi custodi di ciò che ci pare e piace) ma morale: una morale costruita nei secoli in Occidente basata su giustizia e tolleranza, morale fallace, come ho già detto, difficile da praticare ma necessariamente universale: non ci si fa giustizia da soli. L’altro tipico argomento che “tanto in Italia il pedofilo se la cavava con un anno di domiciliari mentre il padre violento sarebbe finito in galera e avrebbe dovuto spendere un sacco di soldi in risarcimenti” (o altre critiche analoghe) non deve ingannarvi: questo genere di critiche afferisce al sistema giudiziario italiano, non alla morale. Che in Italia la giustizia sia un disastro non significa che allora ne approfitto per farmi giustizia da me. La giustizia da riformare è un problema politico. L’idea di una giustizia guidata da principi universali è una questione di etica. I due ambiti concettuali sono interconnessi ma separati.

la-morale-e-lanimale-L-Ytw5wmEsempio n° 2 – Senza bisogno di circostanziare nomi e cognomi, mettetene voi uno a caso, sono seriamente convinto che una percentuale di politici chiacchierati o addirittura indagati o condannati per corruzione siano partiti con onesta convinzione di far qualcosa di buono per il prossimo e si siano trovati invischiati in un meccanismo subdolo e poco identificabile all’inizio che li ha lentamente trascinati in un gorgo. Provate a immaginarvi potenti, con leve di comando nelle vostre mani, pronti a fare Il Bene Del Popolo. Avete le idee chiare, l’appoggio degli elettori, vi sostiene la stampa ma c’è un particolare: vi manca una manciata di voti in Parlamento. Un altro politico, non così di primo piano ma abbastanza credibilmente vicino alla vostra orbita vi dice che ci può pensare lui, quei pochi voti ve li può assicurare ma, certo, dovete ricambiargli il favore (una prebenda, un sottosegretariato, una particina in tv per l’amante…). Allora il dilemma che vi si pone è semplice:

  1. A) fare il bene del popolo facendo passare il provvedimento in cambio di un peccatuccio veniale, non illegale, politicamente non significativo

oppure

  1. B) non cedere di un millimetro, non macchiarsi della più piccola colpa, questa davvero trascurabile, ma rinunciare al bene del popolo oggi e – probabilmente – anche domani.

Mi sembra un bellissimo problema di etica pubblica: il bene di molti vale un piccolo “male” relativo, senza danneggiare nessuno, che neppure si saprà? Vediamo cosa succede se rispondete ‘Sì’ oppure ‘No’. Nel primo caso credo che siate fritti; cedere su una piccola e innocua cosa vi sottopone ad altre e maggiori pressioni, nonché a ricatti. Avete fatto un “favore”, non potete non farne un secondo, probabilmente più impegnativo e grave; avete ricevuto un vantaggio, ma ve ne serviranno altri; incomincia a esserci gente in giro che sa che non siete incorruttibili, che favorite il clientelismo, il nepotismo, lo scambio, la turbativa politica… Il piano inclinato è inizialmente inavvertibile ma presto diventa una china pericolosa, dove ogni azione che volete intraprendere viene sottoposta a trattative con i molteplici che si possono mettere di traverso. Ma se rispondete ‘No’ che razza di politici siete? Tutti Robespierre incorruttibili, capaci certo di grandi denunce ma di nessuna azione. Non contate nulla. Non servite. Tutti vi volteranno le spalle. Naturalmente ho ridotto all’essenziale il problema, spero che ne vogliate cogliere la sua rappresentazione esemplificativa. Qual è il corretto bilanciamento fra agire pagando un certo prezzo morale (nel senso di venire a patti con la propria etica, con i roboanti discorsi fatti nelle piazze) e non agire affatto perché qualunque azione ci sporca, ci può sporcare, deve scendere a compromessi?

etica3Esempio n° 3 – Tempo fa conobbi un importante esponente locale (di quale località non dirò) di un partito di sinistra (tacerò anche su quale sinistra fosse); era un capopopolo nato, guidava un partito che andava bene alle elezioni e aveva incarichi locali di governo, successi ottenuti ovviamente con le parole d’ordine tipiche di quell’area politica: giustizia, uguaglianza, fratellanza, lavoro etc. Quest’uomo di successo era ovviamente amato, o quantomeno stimato, da una discreta fetta di elettorato che gli riconosceva una leadership politica. Pochi di codesti sostenitori conosceva però un particolare privato nella vita di quest’uomo. Maltrattava la moglie. La picchiava. Quest’uomo che difendeva i diritti delle masse oppresse picchiava la moglie. Io credo che il gesto violento verso la donna sia intollerabile e spero la pensiate così anche voi, ma quello che intendo sottolineare è l’incongruenza apparente fra il ruolo sociale e il comportamento privato. Il picchiatore di donne io lo immagino rozzo, semi-analfabeta, manovale ubriacone… invece questo è laureato, colto, socialmente integrato. Gli stereotipi non funzionano principalmente perché tendono a collocare in classi distinte (i buoni e i cattivi, i probi e i picchiatori di donne…) mentre la realtà è indistinta, sfumata. Tutti i buoni hanno lati oscuri. Tutti i cattivi hanno lati amabili.

Tutte le verità sono parziali, tutti i mostri sono stati bambini, tutte le tragedie si sono compiute a partire da premesse nobili, tutti i potenti hanno pensato giusto il loro potere, tutti gli assassini ritengono in qualche modo giustificabile le loro azioni dato il contesto, date le condizioni, data l’infanzia infelice il padre severo la società ingiusta, così ingiusta! Ed eccoci arrivato sul bordo dell’orrido: siamo tutti colpevoli e quindi nessuno, in fondo, è colpevole? Tutti peccatori, tutti disponibili al delitto, tutti uguali quindi nelle nostre debolezze e quindi consoliamoci, teniamoci per mano, dai, il politico briccone, lo stupratore, il corrotto alla fine siamo noi. Je suis una canaille. No, non è questa la conclusione. La conclusione può partire dal riconoscimento della nostra debolezza per andare oltre, verso una dimensione morale più avanzata. Una persona priva di tensione positiva verso orizzonti morali sempre più integrati, inclusivi e aperti al mondo non serve alla società. Interrogarsi sull’orizzonte etico, sforzarsi di migliorare pur sapendo di cadere e sbagliare, questo è il senso del nostro posto nel mondo. Faccio (e sbaglio) cercando di far bene (per quel che posso capire), rammaricandomi del male e combattendolo, a partire da quello che inevitabilmente faccio e farò io. Io faccio il male. Ma non è che debba continuare, che non possa pentirmi, che non possa smettere. Vedo che anche tu fai il male. Non devo fingere di non vederlo, non devo necessariamente accettarlo, anche se posso comprenderlo.