Il doloroso caso della donna di Catania morta a seguito di un aborto spontaneo di una gravidanza gemellare ha riportato l’attenzione sulle difficoltà causate dall’obiezione di coscienza prevista dalla legge sull’aborto e cui fanno largamente ricorso i medici di tutta Italia, ma particolarmente di alcune aree tra cui la Sicilia.
L’esposto presentato dai familiari, che hanno tra l’altro lamentato il mancato intervento di un medico di turno obiettore, non ha per ora trovato conferma nelle verifiche effettuate dagli ispettori del Ministero, che non hanno riscontrato irregolarità nel come il personale dell’ospedale Cannizzaro ha affrontato l’emergenza purtroppo rivelatasi fatale.
Io, da semplice cittadino, non ho nessuna intenzione di sostituirmi agli ispettori né alla magistratura, e fino a diversa prova prendo per assodato che non ci siano responsabilità dei medici dell’ospedale nell’infausto esito di questo caso. Tuttavia, proprio da semplice cittadino, ritengo di avere il diritto e il dovere di giudicare intollerabili le condizioni di applicazione della legge 194 sull’aborto in Italia; e la principale ragione per cui queste condizioni sono intollerabili è l’istituto dell’obiezione di coscienza.
Di questo argomento su Hic Rhodus ha già scritto tempo fa Bezzicante, in un post con cui concordo pienamente e di cui riprenderò diverse considerazioni. Cominciamo con qualche dato: secondo la Relazione sull’attuazione della Legge 194/78 pubblicata a ottobre 2015 dal Ministero della Salute, il 70% dei ginecologi italiani sono obiettori, e lo sono anche il 49,3% degli anestesisti e il 46,5% del personale paramedico. Queste percentuali, alte e inoltre in aumento tendenziale, non sono per di più omogenee sul territorio nazionale: in Regioni come Molise, Basilicata, Sicilia e Puglia, oltre che nella provincia di Bolzano, più dell’85% dei ginecologi sono obiettori, il che evidentemente rende molto più difficile per le donne che vivono in quelle zone accedere al servizio di cui pure hanno diritto.
Ora, una precisazione è certamente opportuna: i medici obiettori esercitano un diritto che è loro riconosciuto dalla medesima legge 194/78; di più: questo diritto non è un’esclusiva della legislazione italiana, ma è ampiamente riconosciuto anche dalle leggi che regolano l’aborto nella maggior parte dei paesi europei. Quindi è chiaro che con questo post non intendo criminalizzare i medici obiettori, che fanno uso di una facoltà concessa loro appunto dalla legge. Va anche osservato che la stessa Relazione che ho citato sopra evidenzia il calo dei casi di aborto che si è verificato negli anni, e che è riassunto nel grafico qui sotto; il Ministero insomma afferma che nonostante l’obiezione di coscienza in Italia non esiste un problema di accesso al diritto di aborto.

Tuttavia, a mio modo di vedere questa visione ottimistica è falsa, e lo è per due distinte ragioni.
Per la prima, mi limiterò a citare la delibera, anch’essa dell’ottobre 2015, del Comitato Europeo dei Diritti Sociali che, sulla base di un ricorso presentato dalla CGIL, ha stabilito che l’Italia, a causa dell’applicazione dell’obiezione di coscienza sull’aborto, viola la Carta Sociale Europea, e in particolare:
- Il diritto a ricevere le migliori cure possibili (art. 11.1: “Everyone has the right to benefit from any measures enabling him to enjoy the highest possible standard of health attainable”);
- Il principio di non discriminazione rispetto appunto al diritto alla cura (art. E: “The enjoyment of the rights set forth in this Charter shall be secured without discrimination on any ground”). La delibera sottolinea che in Italia esiste sia una discriminazione geografica che una discriminazione verso chi ha bisogno di assistenza per un aborto rispetto agli altri pazienti;
- Il diritto alla dignità del lavoro (art. 26: “All workers have the right to dignity at work”), che è stato riconosciuto come leso nei confronti dei medici non obiettori, come denunciato in diverse occasioni anche dalla Laiga (Libera Associazione Italiana Ginecologi per Applicazione legge 194).
In sostanza: l’altissimo numero di medici che ricorrono all’obiezione di coscienza, e l’assenza di azioni efficaci del Ministero della Salute per garantire i diritti delle pazienti, causa serie discriminazioni a danno sia delle donne che vivono nelle aree dove di fatto non è garantito un accesso adeguato al servizio, con conseguenti costi e rischi, sia dei pochi medici non obiettori, su cui si accumula il carico degli interventi (non solo quantitativo: per quanto non obiettore, è difficile pensare che un ginecologo trovi soddisfazione nel praticare aborti!) e che oltretutto sono spesso anche penalizzati in termini di carriera.
La seconda ragione è che il confine tra diritto alla salute della donna e diritto all’obiezione del medico non è così semplice da tracciare. La legge infatti prevede che il medico non possa rifiutarsi di intervenire se “il suo personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”; ma come è realisticamente possibile accertare questa indispensabilità e questo imminente pericolo? Come si vede, non basta che dal mancato intervento del medico possa derivare un danno alla salute della donna: occorre l’imminente pericolo di vita. Come amaramente constata un documentato articolo contro l’obiezione di coscienza, “È normalmente impossibile stabilire con certezza se una qualsiasi condizione medica sia a rischio di vita e fino a che punto, finché il paziente non muore davvero”. Anche qui, il diritto a ricevere le migliori cure possibili è concretamente limitato dall’esistenza stessa dell’istituto dell’obiezione di coscienza.
A questo punto, la mia conclusione è netta: non esiste nessun diritto all’obiezione di coscienza da tutelare, ed essa va semplicemente abolita in toto. Quando la legge 194 è stata approvata, l’obiezione aveva un senso: i medici allora in servizio potevano in piena buona fede sostenere di aver abbracciato la loro professione in base a una filosofia per cui ogni vita è sacra, e di non essere disposti a cambiare il fondamento morale della loro attività in base all’approvazione di una nuova legge.
Oggi però, dopo quasi quarant’anni, simili ragionamenti non sono più difendibili. Chi oggi lavora in un ospedale pubblico (non parlo di una clinica privata magari gestita da un’istituzione cattolica, e sappiamo quante ce ne sono) si è iscritto a Medicina, si è specializzato in Ginecologia, ha seguito il lungo e faticoso iter che conduce fino a esercitare la professione nel servizio sanitario pubblico sapendo benissimo che tale servizio sanitario garantiva alla donna il diritto ad abortire. Nessuno ha obbligato questi medici a fare i ginecologi anziché gli ortopedici o i gastroenterologi, né a concorrere per un incarico ospedaliero, e se la pratica abortiva è per loro davvero inammissibile non mancavano e non mancano loro alternative all’esercitare in una struttura dove si verificano fatti così immorali. Le donne, invece, alternative non ne hanno, a meno di non chiedere loro di ricorrere, loro sì, a cliniche private o a ben peggiori soluzioni. In estrema sintesi, ogni paziente ha diritto a esigere che in una struttura sanitaria pubblica ciascun medico competente sia disponibile a fornirgli ogni forma di assistenza prevista. Punto e basta.
Ecco perché, un po’ donchisciottescamente, ho deciso di proporre una petizione pubblica su Avaaz.org per l’abolizione dell’obiezione di coscienza. Se siete d’accordo, firmatela e fatela conoscere. Grazie.