Sinistra radicale o sinistra populista? O populismo e basta?

C’è voglia di populismo nella sinistra radicale italiana. Lo dice Fassina:

Propongo una politica di alleanze basata sui programmi, che non si preclude il rapporto con nessuno, nemmeno con il M5S (intervista a la Repubblica, 16 Gennaio),

lo hanno detto, in maniera più contorta e a mio avviso inconcepibile, Freccero e Strumia:

Sin dalle origini la parola populismo implica un’opposizione al potere “di pancia” non appoggiata su dati scientifici. Facendo propria la vocazione marxiana di socialismo scientifico, contrapposto al socialismo utopistico precedente, l’attuale sinistra delle varie “Terze vie”, pensa di doversi opporre al populismo. E la sinistra radicale approva, in linea di massima. Ma siamo di fronte a un paradosso: il populismo, pur con le sue derive in senso nazionalistico e tradizionale (dio, patria, famiglia) rappresenta oggi, nel bene e nel male, l’unica forma di resistenza esistente al “robinsonismo” del pensiero unico. Come tale va appoggiato e non combattuto […]. Meglio una società conservatrice da sovvertire (dio, patria, famiglia) che nessuna società da cui riprendere il cammino (il manifesto, 29 Dicembre 2016).

Carlo Formenti parla esplicitamente di

populismo come forma attuale della lotta di classe (su Micromega, 24 Dicembre 2016)

e, citando Porcaro che cita Formenti (!), precisa che

il populismo non è un nemico da esorcizzare ma è piuttosto la forma storicamente determinata della lotta di classe, è un campo nel quale bisogna situarsi senza timore, per meglio condurre una battaglia per l’egemonia finalizzata a trasformare il populismo stesso in una direzione coerentemente anticapitalista e socialista, sconfiggendone le inevitabili e ben radicate tendenze di destra”; e questo perché: “se la compattezza sociologica della classe è stata programmaticamente dissolta, se l’efficacia politica della sua lotta è stata consapevolmente ostacolata, se i grandi partiti di massa sono stati visti come la ragione di ogni male e se gli spazi di espressione democratica si sono drasticamente chiusi a svantaggio dei lavoratori, è assolutamente inevitabile che la stessa lotta di classe si presenti come populista.

Scusate. So che quest’ultima è stata una citazione difficile, ma l’intero testo di Formenti è assai indigesto ma anche assolutamente illuminante – se siete disponibili a questo genere di sforzi esegetici.

Mi sacrifico per voi e vi propongo la sintesi di un pensiero che non è oggi quello della sinistra radicale ma di diversi suoi esponenti, anche autorevoli, che stanno cercando di portare il dibattito, e le scelte politiche (per esempio al prossimo Congresso di Sinistra Italiana), in questa direzione (oltre ai tre autorevoli radical-populisti già citati potrete facilmente trovarne non pochi altri su Internet). La sintesi è la seguente: le attuali condizioni storiche hanno scompaginato l’idea di classe sociale basata sul vecchio conflitto sui mezzi di produzione. In epoca post-industriale globalizzata le disuguaglianze sono diventate ampie e incontrollabili e occorre recuperare sovranità e decisionalità popolare; il populismo è quindi la risposta spontanea che la sinistra deve interpretare e trasformare in forza antagonista, anticapitalista, socialista. I populisti, quindi, sono una specie di “popolo in sé” (il riferimento alla marxiana “classe in sé” sarà evidente) che – guidato dall’élite intellettuale della sinistra radicale (quella intelligente che ha capito tutto, non gli “imbecilli” – come li apostrofa Formenti – che sono marxisti ma non hanno capito un cazzo) deve divenire una rivoluzionaria “classe per sé”. Chi conosce un pochino Marx, la storia del pensiero marxiano e della lotta operaia troverà facilmente, anche in questa mia modesta sintesi, molti riferimenti.

Capito tutto? I populisti sono capre che si agitano inconsapevoli e ingenue contro l’ordoliberismo (yes!), ma le élite marxiste le guideranno verso il sol dell’avvenire.

Potremmo fare spallucce ritenendo che la capacità di Fassina di incidere profondamente su Sinistra Italiana, quella di Freccero dalle pagine del manifesto o quelle di Formenti nelle complicate circonvoluzioni onaniste pubblicate su Micromega, non siano sufficienti per creare una forza d’impatto capace di modificare seriamente gli equilibri politici. Questi politici e intellettuali, frazionati in molteplici circoli e consorterie, in permanente delirio autoreferenziale, fanno sempre più parte di un folklore un po’ triste, come gli ultimi indiani che avvicinano i turisti per vendere falsi copricapi di Toro Seduto. Ma ci priveremmo di un’interessante possibilità, quella di capire – con ottiche forse diverse dalle nostre e proprio per questo più interessanti – il fenomeno del populismo e la sua crescente pericolosità. Non vogliamo ripetere cosa sia realmente il populismo: un misto di qualunquismo e fascismo, l’abdicazione del popolo dal diritto democratico di partecipare per inseguire quello utopico del decidere, l’incompetenza eletta e metro di giudizio. Tutte

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(Click per ingrandire)

cose scritte molteplici volte qui su HR e che ricordiamo rinviando alla recente Mappa dove abbiamo incluso tutti i nostri principali testi su questo tema.

Il passaggio dalla coscienza in sé alla coscienza per sé, in Marx, avviene attraverso l’acquisizione diffusa nei proletari di una coscienza di classe che passa attraverso le coalizioni per la difesa del salario, poi nei raggruppamenti di coalizioni per resistere alla repressione dei capitalisti; a questo punto le organizzazioni proletarie assumono un carattere politico. Lenin sosterrà che in realtà gli operai, da soli, non vanno oltre l’associazionismo sindacale, mentre solo con un aiuto esterno, di intellettuali organici (tipo Fassina, per intenderci) si può sviluppare una lotta di classe (mi fermo; potete leggere QUI un approfondimento). Il “popolo in sé” – tornando a noi e ai nostri tempi – dovrebbe quindi passare dal rivendicazionismo spontaneo (anziché la difesa dei salari di 100 e più anni fa potrebbe essere, che so? la lotta al signoraggio bancario, il reddito minimo e altre analoghe questioni) alla lotta politica (non più “di classe” ma di popolo, il popolo contro la finanza globale, il Bilderberg, la Troika e gli Illuminati).

Anche se in modo un po’ leggero ho descritto la visione degli esponenti marxisti citati all’inizio. E adesso mi tocca la pars destruens che sarà veloce proprio per i molti riferimenti che potete trovare nella nostra Mappa già citata:

  • il popolo, indifferenziato e indignato, non ha un comune denominatore e un comune avversario come ai tempi di Marx e Lenin; la difesa del salario era ovvia, sacrosanta, visibile e tangibile; era il problema; oggi – per ragioni che non approfondisco ma già trattate su HR – il popolo è sempre più composto da individualità e piccoli gruppi variabili: anche restando nelle classi estremamente povere i problemi sono il lavoro (prima del salario), la casa, i servizi per l’infanzia; ma appena appena si sale (come nel caso della piccola borghesia di 100 anni fa, inclusa nell’analisi di Marx) i problemi diventano l’ambiente, la sanità, i diritti civili… Fra i populisti ci sono razzisti e pro-migranti, vaccinisti e anti vaccinisti, piccoli imprenditori e Neet, perché il “popolo” non è una “classe” e non ne può avere l’omogeneità e la comunanza di esperienze e di priorità. Nella società del secondo millennio, poveri estremi a parte, c’è il problema dell’animalismo, del veganesimo, dei diritti LGBT, delle scie chimiche e del Grande Ordine Mondiale…
  • l’interclassismo populista si regge proprio sul fatto che è prepolitico (non antipolitico) e lega moltitudini di indignati attraverso gli umori, non con la lente del ragionamento; i populisti “sentono” la loro avversione al sistema ma non hanno analisi e spiegazioni soddisfacenti se non slogan semplicistici, idee pseudo-programmatiche difficilmente realizzabili, devota credulità alle balle diffuse dai loro vertici;
  • il populismo non è pertanto un’idea (o meglio un atteggiamento) realizzatrice; il marxismo, con la sua pretesa di scientificità, voleva costruire un mondo diverso, basato su un programma economico e sociale chiaro; il populismo non vuole costruire qualcosa, vuole protestare. I populisti non lo sanno, sia chiaro; loro credono di avere un programma: credono che dire “reddito minimo!”, “trasparenza!”, “due soli mandati!” sia un programma politico, poi si vede come si comportano quando devono davvero governare.

Alla fine della storia, quindi, troviamo questo: il populismo non è educabile; è una forza distruttiva, eversiva, ignorante. Non ha storia, non possiede teoria, non riesce a formulare programmi, è involutivo. Ma quelli che – a partire dalla straordinaria intelligenza individuale, dalla storica e nobile teoria, da decenni di prassi – intendono cavalcare il populismo (tutto quel ben di dio di popolo, e basta un po’ di buona dottrina per incanalarlo contro gli storici nemici di classe!!) scherzano col fuoco. Il populismo è un virus politico, che fa marcire le radici della democrazia, e non consente a nessuno di mettergli le briglie. Gli intellettuali della sinistra radicale sentono una sintonia perché loro stessi sono, in fondo, un po’ populisti (il populismo di sinistra esiste, è noto, è deprecabile come quello di destra); semplicemente sostituiscono al Grande Capo tipico del populismo di destra l’idea della Grande Verità di quello di sinistra (il sol dell’avvenire, la lotta di classe, il materialismo storico…). I populisti di sinistra sono certi della loro Grande Verità e mortificati dalla loro nullità, e vorrebbero educare il popolo populista diffondendo il verbo, trasformandolo in una novella “classe per sé” lanciata – da loro intellettuali – come un ariete sulle malvagità dell’ordoliberismo. Ma non succederà. Succederà invece che avremo qualche populista in più, che sfoggerà qualche vecchia teoria leninista per spiegare perché Grillo, in fondo in fondo, qualche ragione ce l’ha e valga la pena di sostenerla.