Oggi la Catalogna, e domani?

In questi giorni in cui quel che succede fra Madrid e Barcellona preoccupa grandemente chiunque veda nel dialogo e nell’unione i fondamenti del pacifico sviluppo delle nazioni, mi colpisce come si argomenti sul diritto all’autodeterminazione dei popoli senza decidere, prima di avventurarsi su un terreno così impervio, se se ne voglia discutere in chiave etica e filosofica oppure alla luce del diritto internazionale. Non è una questione da poco: a seconda della “chiave” scelta, lo sviluppo del discorso e le conclusioni alle quali eventualmente si giunge risultano estremamente diversi. Se si discute in chiave filosofica o etica, si farà inevitabilmente riferimento a principi illuministici e giusnaturalistici, e presumibilmente verrà presa a modello la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, quando dice che

(…) sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini (il perseguimento degli inalienabili diritti dei popoli, fra i quali la vita, la libertà e il perseguimento della felicità, NdR), il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità.

E quindi, una volta definite ed enunciate le loro ragioni, i Catalani avrebbero tutto il diritto a dire che anche per loro sia sorta

la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto a un altro popolo e assuma tra le potenze della terra lo stato di potenza separata e uguale a cui le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno diritto.

I problemi cominciano quando si tiri in ballo, come è inevitabile in questi casi, il Diritto Internazionale, unico strumento di riferimento disponibile per definire (o tentare di definire), sulla base di un complesso di norme e principi sviluppato fra mille difficoltà, i rapporti tra Stati e altri soggetti internazionali. Come ho già accennato in un precedente scritto, le attuali tendenze in materia di autodeterminazione e di secessione tutelano la specificità nell’ambito delle autonomie e accettano il diritto alla secessione solo in caso di occupazione militare da parte di una potenza coloniale o violazioni dei diritti umani. Su queste basi, appare assai difficile che una qualunque Corte Internazionale di Giustizia possa considerare una colonia la Catalogna, unita alla Spagna (sia pure inizialmente come unione personale e con alterne vicende) da prima della Reconquista del XV secolo. Né, almeno al momento e per quanto è dato di sapere, vengono messe in dubbio l’indipendenza della magistratura spagnola e l’imparzialità dei processi da essa istruiti. E ancora, sempre in quest’ottica, appare perfettamente legale e dovuto l’avvio di un procedimento penale nei confronti di persone che, con i loro atti (con i loro ATTI, non per le loro idee!) si pongono in contrasto con la Costituzione di uno stato democratico, o almeno finora riconosciuto come tale.

Certo, le regole non sono perfette o intangibili, ma possiamo farne a meno? Nel valutare l’atteggiamento dei protagonisti, ci deve guidare l’etica individuale o la legge condivisa, come si chiedeva pochi giorni fa, in senso più generale, Bezzicante? Come lui, anche io credo che civiltà significhi condivisione di regole, e che queste regole siano il distillato della nostra umanità, siano ciò che siamo stati capaci di condividere, per vivere assieme, con la nostra storia. E che la loro applicazione debba essere valutata, di volta in volta, a seconda della oggettività della situazione. Proprio per questo non riesco a provare altro che fastidio e disappunto nei confronti dei protagonisti degli eventi che si stanno succedendo in Catalogna, tutti. Non riesco a provare simpatia per i duri e puri del movimento indipendentista catalano, che trovo velleitari e privi di progettualità: davvero credono che sia così facile? davvero credono che l’ipotetico nuovo stato verrebbe immediatamente riconosciuto? davvero credono che l’economia non ne risentirebbe pesantemente? Il fatto che i meccanismi che fanno girare il mondo non ci piacciano (e in molti casi non piacciono neanche a me) non ci autorizza ad ignorarli e a non prendere in considerazione le conseguenze di azioni che ci pongano in rotta di collisione con l’ordine costituito. Essere capaci di farlo o meno fa la differenza fra il riformatore o il rivoluzionario e l’agitatore. Potrò sbagliarmi, ma sulla base di quel che ho visto finora tendo ad ascrivere i leader del separatismo catalano a quest’ultima categoria.

Del pari, non riesco a provare simpatia per il governo centrale spagnolo che, con le sue azioni oscillanti fra indecisione, arroganza, chiusura al dialogo e superficialità sembra mettercela tutta per fare la felicità degli oltranzisti catalani. Il referendum era anticostituzionale, ma era necessario impedirlo con la forza? Promuovere atti contrari alla Costituzione è un reato in qualunque paese del mondo, ma davvero Sanchez e Cuixart non si potevano denunciare a piede libero, senza arrestarli? No, non riesco a provare simpatia per dei “lealisti” che con un comportamento esageratamente “muscolare” fanno passare in secondo piano elementi assai seri a carico dell’avversario: ad esempio, il fatto che prima del 1 ottobre la percentuale di catalani a favore dell’indipendenza fosse assai forte ma non maggioritaria o, ancor di più, la assai discutibile trasparenza di un referendum che negava qualsiasi meccanismo di controllo alle opposizioni all’interno del Parlament , per dirne solo una. Per non parlare delle scelte di tempo: proclamare la sospensione dell’autonomia catalana nel fine settimana ha offerto su un piatto di argento la possibilità di una bella manifestazione di massa, quando con un minimo di astuzia si sarebbe potuto aspettare un giorno lavorativo e ridurre drasticamente e senza colpo ferire la possibilità di partecipazione. Sia chiaro che questo è un discorso abbastanza cinico che nulla ha a che fare con l’identificare torti e ragioni ma, anche considerato che una certa dose di cinismo è intrinseca alla politica, mi serve per sottolineare una gestione oltre che discutibile anche dilettantesca. Come scriveva Martin Caparros sul New York Times il 29 settembre:

Il governo centrale dice che il referendum è illegale. Lo è, ai sensi della legge, però non sempre il testo di una legge ne traduce lo spirito. È difficile, in una democrazia, sostenere che un popolo non abbia diritto di esprimersi alle urne. Ed è ancor più difficile reprimerlo quando cerca di farlo. Il referendum è forse illegale. Ma, con la sua violenza, lo stato centrale lo sta legittimando.

Né, infine posso sentirmi consolato dal comportamento di Monsieur Juncker, arroccato in un “non è di competenza dell’UE”, ignava interpretazione letterale di comodo dei limiti conferiti dagli Stati membri all’UE, ed incapace anche di un sommesso richiamo al dialogo ed alla ragione.

In tutto questo la stampa nostrana, anziché fornire approfondimenti punta su titoli e “servizi” acchiappaclick (è interessante come, in assenza di grossi incidenti, il posizionamento degli articoli sulla Catalogna sia gradualmente sceso sempre più indietro nei palinsesti), incentrati sugli aspetti esteriori di una vicenda complessa e potenzialmente destabilizzante non solo per la Spagna. Su queste basi, non stupisce più di tanto che il 43% degli italiani si dica favorevole all’indipendenza della Catalogna, come indica un sondaggio citato da La Stampa. In fondo, assistendo dall’esterno ad uno scontro si tende, istintivamente, a parteggiare per il più debole, salvo poi magari scoprire che quello grosso è Garrone e quello piccolo è Franti. Non è assolutamente questo il caso di figura (ho già detto, e ripeto, che non approvo il comportamento fin qui tenuto dal governo centrale spagnolo) ma il fatto che nessuna delle altre sedici comunità autonome spagnole sembri mostrare particolare solidarietà con il governo catalano, nemmeno la Navarra o i Paesi Baschi non mi sembra un fattore di secondaria importanza, e sarebbe interessante saperne di più. Allo stesso modo, non sono riuscito a trovare approfondimenti di rilievo in merito ai già accennati e discutibili meccanismi di conduzione del referendum. Niente. Nessun organo di informazione prova poi a spiegare che esiste una fondamentale differenza fra stati federali, in cui stati diversi si uniscono per mutua decisione, e stati unitari quali la Spagna e l’Italia, le cui Costituzioni contengono la clausola di indivisibilità dello Stato. Solo il Dolomiten, organo di un movimento non esattamente nazionalista quale la Südtiroler Volkspartei, prova a illustrare quest’ultimo punto con una intervista al senatore Karl Zeller, chiarendo che l’equivalente del famigerato e “liberticida” articolo 155 (il cui testo è disponibile QUI), è da sempre contemplato anche dagli Statuti delle Regioni a Statuto Speciale italiane (art. 49/bis per il Trentino-Alto Adige 50 per la Sardegna, il 22 per il Friuli-Venezia Giulia, l’8 per la Sicilia e il 43 per la Valle d’Aosta, tutti con formulazioni pressoché identiche e che non prevedono in nessun caso la revoca delle autonomie):

Il Consiglio provinciale può essere sciolto quando compia atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge (…) Con lo stesso decreto di scioglimento è nominata una commissione (…), che (…) indìce le elezioni del nuovo Consiglio provinciale entro tre mesi (…)

o, se è per questo, anche dalla Costituzione della Repubblica Federale di Germania (art. 37).

Ancora una volta, la stampa rinuncia al suo dovere di fare vera informazione e di fornire ai cittadini gli elementi necessari per formarsi un’opinione ragionata.

Oggi la Catalogna, e domani? Restando a casa nostra, le differenze fra Bolzano, Milano, Cagliari, Trieste e fra di loro e Roma non sono poi inferiori a quelle fra Barcellona e Madrid, no? Svariati movimenti indipendentisti e separatisti, in prima linea i Freihetlichen sudtirolesi e la signora Eva Klotz (d’altronde, noblesse oblige) hanno prontamente gridato all’esempio che apre la strada. Hanno ragione, oppure una simile iniziativa, qualora replicata in casa nostra, troverebbe diversa accoglienza, al grido di “vedi quegli egoisti che adesso se ne vogliono andare”? Non lo so, ma mi chiedo in quanti siamo a porci questa domanda.

Le diversità ci sono, certo. Spesso sono anche assai significative, e se ne deve tenere conto, ed hanno il diritto di pretendere riconoscimento e considerazione. Ma (al di là di come venga spesso gestita, che è un discorso che ci porterebbe lontano) una cosa è l’autonomia, che è rispetto e tutela delle peculiarità e delle esigenze specifiche nella condivisione delle grandi opere, della sicurezza, della politica estera, della politica di difesa e di sicurezza, delle norme generali di salute pubblica, della giustizia. Altra cosa è il separatismo, che è contrapposizione, è “noi siamo diversi da voi”, è erigere muri, è un nuovo nazionalismo. É facile e comodo credersi diversi e migliori degli altri, credere che tutti i mali vengano da quelli che si trovano più lontani, da quelli che non sono nostri parenti, che non sono nostri vicini, che non sono dei nostri. Essendo facile, è più comodo e più rassicurante: e di fronte all’aumento delle disuguaglianze, alle crisi, agli errori economici è facile dire “Roma (o Madrid, o Bruxelles) … ladrona”. Ma porta la progressiva riduzione del raggio in cui si esercita la nostra solidarietà, basata sempre più sull’identificazione degli uguali, dei simili, dei differenti, degli alieni e sulla loro differenziazione? Quanto ci vorrà prima che in occasione di una qualche calamità “io” che sto “qui” mi rifiuti di aiutare “te” che stai “là” perché mica è un mio problema se vivi in una regione a alto rischio idrogeologico, anche se abbiamo lo stesso passaporto? Quanti si rendono conto che l’insorgere di sempre nuovi – e sempre meno folkloristici – separatismi potrebbe portarci alla balcanizzazione del Continente, e per chi riesce a ricordarsi i tempi della dissoluzione della Jugoslavia non è che sia una gran bella prospettiva?

Non è una bella situazione, di figure di statisti in grado di gestirla non se ne vedono, e i motivi di ottimismo bisogna andarseli a cercare. Vedo comportamenti e reazioni più pertinenti a un mediocre fumettone che a un evento di tremenda serietà, quale la possibile disgregazione di uno dei più antichi stati unitari del Vecchio Continente e al riemergere dei fantasmi di tempi che si sperava fossero consegnati alla storia.

Mi sembra che uno dei più gravi (fra i tanti) errori della mia generazione sia il non voler e non riuscire a far capire quanto beati siano i tempi in cui viviamo in confronto a quelli in cui sono vissute le generazioni precedenti, e come le conquiste economiche e sociali di cui godiamo siano state possibili anche, e in larga misura, grazie al superamento degli attriti e delle divisioni fra stati e nazioni.

Per conto mio e per quel che può valere, pur essendo fermamente contrario ai separatismi, credo ancor più fermamente nelle autonomie. Ma le ragioni delle autonomie non possono prescindere dal rispetto dello stato di diritto, dalla negoziazione, dai principi costituzionali, dal dialogo costante con gli altri livelli di governo. Solo in questo modo possono rappresentare un valore aggiunto per l’intero sistema e un antidoto al risorgere dei separatismi venati di nazionalismo. Allo stesso modo credo che, se una istanza è un chiaro sintomo e segnale di disagio di una popolazione nel suo rapporto con lo stato, il fatto che venga presentata in maniera irrituale o addirittura incostituzionale non autorizzi il governo di quello stato ad ignorarla.

Da inguaribile idealista e fiducioso recidivo nella fondamentale assennatezza delle persone, spero e mi auguro che questa lite si sgonfi e si ricominci a ragionare, fornendo così un vero e valido esempio di come vadano affrontati i problemi regionali in uno moderno stato democratico. E spero anche che un tale ragionamento porti a riconoscere come, alla luce delle nuove dinamiche sociali, politiche ed economiche, sia giunto il momento per una seria riflessione, a livello europeo e nazionale, sull’opportunità di rilanciare il valore del regionalismo all’interno del rinnovato contesto internazionale. Anche se è una faccenda scomoda, faticosa, impegnativa: l’alternativa, vale a dire il ritorno ai pittoreschi staterelli del XVIII secolo e alla possibilità di dover mostrare tre volte il passaporto e pagare tre dazi per andare da Trieste a Torino, non mi sembra allettante.

Articolo scritto per Hic Rhodus da Maurizio Sulig

Centurione per quasi quarant’anni, più della metà dei quali al comando di qualcosa di 
nazionali o multinazionale. Sei turni in ex-Iugoslavia e Afghanistan. Si esprime in 
inglese e tedesco senza essere causa di frizioni internazionali. Vive in Alto Adige con 
famiglia e gatto (rosso).