Sempre più spesso leggiamo di nonnini e nonnine ultracentenari, e qualche veloce servizio giornalistico ci fa vedere i visi segnati da troppi inverni, le bocche sdentate, i capelli stopposi, gli occhi qualche volta appannati e qualche volta meno mentre, circondati da nugoli di parenti, spengono le candeline della torta. Ora sappiamo che i biologi affermano che potremmo campare anche 115 anni, e oltre. Ci pensate? 115 anni e oltre! 116? 120 forse? E chissà, fra altri dieci anni, col progresso medico e tecnologico, potremmo forse arrivare a 130? Ma – è questa la vera domanda, per me – per fare cosa? Vivere 115-120 anni perché? Non si starà confondendo “vivere” con “campare”? Perché io ho questa convinzione: a 120 anni, ma anche molti meno, una persona può campare, ma difficilmente riesce a vivere.
In Italia siamo messi già benino: abbiamo alla nascita una speranza di vita di 82,3 anni, e siamo undicesimi al mondo in questa particolare classifica.
Fonte: IndexMundi.
Secondo uno studio pubblicato da Lancet e riportato da Repubblica, nel 2030 in Corea l’aspettativa della vita femminile sarà di 90 anni e otto mesi; in Italia – sempre fra le prime posizioni – di 87,28 anni. Quello che deve colpire è la velocità con la quale si innalzano le speranze di vita alla nascita. In Corea, per esempio, in due decenni le speranze di vita sono cresciute di ben sei anni. Facile quindi immaginare che nei paesi ricchi, occidentali, progrediti, tenori di vita sempre migliori, cure mediche, buona alimentazione favoriscano un rapido aumento di questo indicatore. Da tenere presente poi che l’aspettativa di vita è un valore medio, che include persone più sfortunate che muoiono presto e, appunto, gli ultracentenari. Non sarà quindi per me, o per una parte dei miei lettori, ma per le giovani generazioni si prospetta un futuro di lunga vita. Ma, ancora, per fare cosa?
Certo, in questo momento, sentendomi attivo, vigile, mentalmente sveglio (almeno credo, mia moglie dubita un pochino…) non avrei alcuna voglia di morire; questo senso di presenza nel mondo tendo probabilmente a proiettarlo nel breve futuro, immaginandomi tal quale fra un paio d’anni, fra cinque… sempre uguale qui con la mia Maya a passeggiare pensando a quali post scrivere su Hic Rhodus. Ma l’esame di realtà mi fa distaccare da questa illusione del mio ignaro io interiore; io lo so che fra un numero di anni non poi così ampio Maya non ci sarà più, faticherò a fare le mie solite passeggiate, non troverò sufficienti motivazioni per scrivere e, facendolo, sentirei una nuova, inedita stanchezza; scrivere, che è la cosa che più mi piace fare, incomincerà a pesarmi, le idee saranno più confuse e la loro formulazione più penosa. Ci sono fior di intellettuali di alcune decadi più vecchi di me che appaiono, alla lettura, lucidissimi e vigorosi, certo; altri meno. Dicono che il lavoro intellettuale mantiene sveglio il cervello e quindi ho qualche speranza ma, al dunque, davanti a me c’è il declino, non il suo contrario. Allora mi immagino vecchietto, parzialmente inabile e da accudire, non in grado di scrivere o – peggio – di utilizzare le tecnologie di blogging disponibili fra qualche anno; impacciato a guidare l’auto e sempre più consapevole dello spavento dei miei familiari quando decido di uscire di casa. Insomma: so che arriverà quel momento, quel momento in cui sarò lucido abbastanza per capire che sarò arrivato alla vera fine: quella dell’incapacità di essere il me stesso idealizzato che ancora rappresento: mentalmente aperto e vivace, capace di relazioni, di scambio, di evoluzioni interiori. Da quel punto in poi io so che non vivrò più, anche se potrò ancora campare a lungo.
La differenza fra vivere e campare è a me chiarissima. Vivere è scrivere, leggere, viaggiare, avere relazioni ricche. E’ osservare con pungente interesse la crescita di mio nipote. E’ accogliere come sfida il problema professionale ed essere in grado di immaginare soluzioni innovative per risolverlo. E’ comprendere il mondo, o credere di comprenderlo, e relazionarmi attivamente ad esso. Campare è il contrario di tutto ciò; se il mio organismo è “vivo”, respira, mangia, dorme, ma la mia mente sarà spenta, appassita davanti alla televisione senza comprenderla, parcheggiato davanti a una finestra a fissare, nel vuoto, qualche frammento di ricordo confuso, quella non è vita. La vita è quella della mente, non quella del corpo. Il disabile Stephen Hawking è mille volte più vivo dell’ultimo tronista della De Filippi.
Posso immaginare un futuro, più lontano, in cui alla speranza di vita si accompagni anche una qualità di vita, con centenari che alla mattina fanno jogging e poi vanno al lavoro (non vorrete che legioni di centenari arzilli vadano in pensione a 65-70 anni?) e alla sera si rotolano fra le lenzuola con le loro spose, parimenti centenarie. Sarà probabilmente così, ma oggi no. La vecchiaia, per il nostro organismo, è una patologia. L’evoluzione non ci ha programmati per vite troppo lunghe:
- il 50% dei tumori appare fra persone oltre i 70 anni (40 volte maggiormente a rischio rispetto ai giovani – fonte);
- il 75% di ictus colpisce le persone oltre i 65 anni (fonte);
- la demenza senile è in crescita nei paesi occidentali e, in Italia, colpisce l’8% degli ultra sessantacinquenni e il 20% degli ultra ottantenni (fonte).
Siamo diventati longevi troppo in fretta, non per progressione evolutiva ma a colpi di progresso medico, biologico, farmaceutico. Non a caso gli anziani sono grandi consumatori di farmaci, fino a 3 volte superiori al dato medio nazionale (fonte), perché i disturbi vanno alleviati, le malattie prevenute e, sostanzialmente, la paura della morte incombe.
La paura della morte ci inganna. Il Grande Ignoto ci terrorizza e finiamo per accettare il vile compromesso del campare. I familiari ti ricattano affettivamente, con le pasticche non stiamo poi così male, qualche amico defunto ti ha dato il senso della tua fragilità spaventandoti, il domani è a portata di mano, andiamo avanti ancora un po’, ancora un po’… Pur dubitando di statistiche di questo genere, secondo StatisticBrain sono ben il 68% gli americani che avrebbero paura di morire; possiamo immaginare abbastanza attendibile la stima e generalizzarla anche ai nostri lidi. La paura di morire, è abbastanza noto e accertato anche da alcune ricerche (p.es. questa), non riguarderebbe tanto il “chissà cosa c’è dopo” ma il trapasso in sé, l’eventuale malattia, il dolore e la paura del processo che ci fa spegnere questa vita. Molti affermano “non ho paura di morire ma del possibile dolore della morte”; può essere vero, ma io credo lo sia solo in parte e, probabilmente, per persone più giovani.
La paura di morire, io credo e mi potrò sbagliare, è la paura di non avere vissuto. Chi vive non dovrebbe avere paura della morte. Non è il morire, il problema, ma come vivere, come si è vissuto, cosa si è donato.