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Il male oscuro (ma non troppo) dell’Italia
Dopo il tonfo del prodotto interno lordo (Pil) nel 2009, anticipato da un calo nel 2008, l’Italia sta lentamente uscendo dalla più grave recessione del dopoguerra. Ne esce dopo aver rischiato di essere commissariata nell’autunno 2011 dalla cosiddetta Troika o di subire un umiliante default del suo gigantesco debito pubblico. Questo rischio è stato evitato dalle misure decise dal governo Monti (in particolare la riforma del sistema pensionistico presentata del ministro Elsa Fornero), votate in Parlamento dalle maggiori forze politiche nazionali.
Lo scenario economico non è molto cambiato da quel periodo, dato che il debito pubblico (in percentuale sul Pil) è aumentato di circa 12 punti (del 29% circa dal 2006). La politica “accomodante” della Banca centrale europea ha favorito la discesa dei tassi di interesse, alleggerendo l’onere degli interessi sul debito, che resta tuttavia pesante: circa 80.000 miliardi all’anno. Ciò smentisce una tesi assai diffusa, secondo cui la politica economica italiana avrebbe scelto l’austerità come via maestra per uscire dalla crisi, allineandosi così ai Diktat di Berlino e Bruxelles.
E’ singolare che quasi tutti i partiti politici impegnati nella campagna elettorale del 2018 abbiano scordato questi semplici dati essenziali. Hanno infatti promesso di espandere la spesa pubblica (con la speranza che qualcuno finanzi queste misure) e di abolire o modificare leggi che hanno contribuito a ridurre la dilatazione del debito e stimolare la crescita economica del paese.
Già: il male oscuro dell’Italia non è in realtà il debito pubblico (e quello, ingente dei privati, di banche e aziende). Il debito pubblico dipende certo da un sistema fiscale inefficiente, che consente una massiccia evasione fiscale e un pesante onere scaricato sui gruppi sociali adempienti. Il suo aumento, o meglio la difficoltà di contenerlo, dipende tuttavia anzitutto dalla modestia della crescita economica registrata in media negli ultimi decenni. Ne sono chiari indicatori la stagnazione della produttività totale dei fattori, in atto ormai da circa trent’anni e il mantenimento del divario tra il Nord e il Sud. Fattori correlati a questi fenomeni sono un livello medio di istruzione reale comparativamente sconfortante e l’emigrazione all’estero dei nostri giovani più preparati. E’una situazione che alimenta i conflitti distributivi, spesso mascherati sotto altre etichette.
All’esterno le forze che modellano il nostro sistema economico — rivoluzione tecnologico-organizzativa (la cosiddetta digitalizzazione) e globalizzazione — non sono controllabili dalla politica italiana. La difficoltà a cogliere e anticipare, o almeno ad adattarsi a, questi cambiamenti è stata a lungo un tratto caratteristico dei principali attori italiani negli ultimi tre decenni. Non solo i politici, però. Molti tra gli acquirenti di uno smart phone fanno fatica a rendersi conto che quello è solo uno dei prodotti di una più estesa rivoluzione in atto, che ha già cambiato e cambierà stili di vita, dinamiche sociali ed economiche, stratificazione sociale del nostro e di altri paesi.
Sulle cause e rimedi del male italiano, oscurato più che oscuro, la recente campagna elettorale non ha detto molto di rilevante. Esso è difficilmente curabile, come si è visto, da un aumento della spesa e del debito pubblici.
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Vinti e vincitori
La sconfitta elettorale del PD, che segue la disfatta del voto referendario del dicembre 2016, segna il fallimento della strategia di Matteo Renzi, seguita coerentemente — anche se con alti e bassi — nella legislatura 2013-18. Questa azione politica era iniziata nel segno della cosiddetta “rottamazione”. Nelle intenzioni del suo proponente non si trattava solo, o soprattutto, di mandare in pensione alcuni esponenti politici del suo partito, quanto di tagliare le radici a un sistema di potere. Esso veniva e viene esercitato in Italia mediante il veto, la dilazione ad infinitum delle decisioni politiche (anzitutto da parte della burocrazia centrale e locale), e un’appropriazione di risorse pubbliche e private non proporzionale rispetto ai contributi forniti — da parte di gruppi di interesse, di sezioni della classe politica e anche di una gigantesca industria del crimine. Quest’ultima controlla numerosi territori della Repubblica Italiana, ha raggiunto una dimensione internazionale, e va ormai considerata come un attore di prim’ordine nella politica locale e nazionale.
La strategia del PD di Renzi era accompagnata da azioni di redistribuzione (i famosi 80 euro, il sostegno alla povertà, l’addolcimento della legge Fornero per alcune categorie, ad esempio) e da misure intese a stimolare la crescita economica (il Jobs act, la Buona scuola, la riforma della pubblica amministrazione). Era una strategia dotata di senso, fondata su un’analisi realistica della società italiana. Prima di queste elezioni, essa era però stata già bocciata dagli elettori nel dicembre 2016 — grazie anche alle resistenze interne al PD, sfociate poi nella scissione del partito. Il rifiuto del progetto di cambiamento della seconda parte della Costituzione (poco chiaro ai più, data la quantità di modifiche proposte) mostrò con nettezza la forza degli oppositori alla strategia del PD: di destra, di sinistra e anti sistema. A margine, va notato che nell’occasione Renzi fece un errore grave, non dando seguito alla sua promessa di ritiro dalla vita politica. Sarebbe stato più razionale se avesse deciso di mantenere la promessa e di diventare una riserva della politica nazionale. Avrebbe così potuto attendere che le cose cambiassero e che gli eventi successivi gli avessero dato ragione. Dopo questa seconda, netta, sconfitta, un passo indietro da parte di Renzi sembra però un atto obbligato. Le tensioni all’interno di quel partito provocheranno probabilmente un altro scisma interno, guidato da chi propone un accordo con il M5S.
Nella campagna elettorale, Movimento 5 stelle e i partiti della coalizione di destra hanno proposto azioni politiche diverse da quella del PD di Renzi. Su alcuni punti importanti esse non sembrano incompatibili. Data la distribuzione geografica dei consensi, è però difficile che possano trovare un accordo duraturo. Va inoltre notato che la somma dei consensi ottenuti in queste elezioni è nettamente superiore alla percentuale dei voti contrari alla riforma costituzionale.
Il M5S sfonda in modo impressionante nelle regioni meridionali e in regioni del Centro, i cui elettori sono stati probabilmente interessati dalla proposta di un esteso reddito di cittadinanza. Il suo merito principale è aver condotto un’opposizione intransigente, rivolta anzitutto ai perdenti delle nuove tecnologie, della globalizzazione e delle riforme necessarie a riequilibrare il paese. Ora si propone di rottamare con maggiore e diverso vigore il sistema di potere esistente: dall’industria di Stato, alle aziende controllate dalla politica, alla burocrazia. E non solo. La coalizione di centro-destra ottiene un risultato inferiore alle attese, almeno se diamo retta agli exit polls e alle proiezioni. Né l’uno né l’altra propongono un programma chiaro e deciso a favore della modernizzazione del paese, malgrado i loro proclami.
Si apre un periodo confuso, in cui molte carte si rimescoleranno. Al momento in cui scrivo questo commento (lunedì 5 marzo, alle 12.00) non è possibile azzardare se e come possa essere risolta questa crisi politica. La soluzione preferibile sembra il ritorno alle urne. Un governo provvisorio potrebbe non danneggiare il paese e stimolare qualche riflessione aggiuntiva tra gli elettori.
La crescita economica e la modernizzazione del paese attenderanno.
Questo pezzo è stato chiuso a fine mattinata del 5 Marzo, prima della comunicazione dei dati definitivi.