Periodicamente, l’Oxfam, una ONG specializzata nella lotta globale alla povertà, pubblica dati e rapporti che evidenziano il crescente divario tra ricchi e poveri nel mondo. Quello che è però significativo, ed evidente nel rapporto 2016 sulla disuguaglianza economica, è che, mentre la distanza tra paesi “ricchi” e paesi “poveri” tende a ridursi, si allarga quella tra i ricchi di tutto il mondo e tutti gli altri (non solo i poveri). Il rapporto s’intitola Un’economia per l’1%, perché parte dal fatto che l’1% più ricco della popolazione mondiale possiede più della metà dei beni del pianeta. Ci siete anche voi?
Se la risposta è sì, tutto sommato potete essere soddisfatti dell’economia globale (o forse no, come vedremo tra poco); altrimenti, forse è il caso che diamo insieme un’occhiata ad alcuni fatti che rischiamo altrimenti di sottovalutare, e che meritano un approfondimento certamente maggiore di quello che potremo fare in questo post.
Innanzitutto, torniamo al punto di partenza: secondo l’Oxfam (ma su questo ci sono pochi dubbi tra i vari commentatori), “L’1% più ricco possiede oggi più di tutto il resto del mondo insieme. Il potere e i privilegi sono usati per distorcere il sistema economico e allargare il divario tra i più ricchi e il resto. Una rete globale di paradisi fiscali inoltre consente alle persone più ricche di occultare 7,6 trilioni di dollari”. E, peraltro, questo 1% non è omogeneo, perché tra i privilegiati ci sono i privilegiatissimi; nel tentativo di far capire quanto il sistema economico globale sia sbilanciato, l’Oxfam aggiunge che le 62 persone più ricche del mondo possiedono maggiore ricchezza del totale di 3,6 miliardi di persone, ossia la metà più povera dell’umanità. Solo cinque anni prima, nel 2010, per arrivare a questo bisognava sommare il patrimonio delle 388 persone più ricche del mondo. D’altra parte, nello stesso periodo, la ricchezza di quelle 62 persone è cresciuta del 45%, mentre la “ricchezza” della metà più povera del mondo è diminuita del 38%, come si vede nel grafico qui sotto.

Eppure, se si guarda la situazione dal punto di vista dei paesi “poveri”, la storia recente evidenzia importanti successi. Lo stesso rapporto osserva che “La quota di popolazione mondiale che vive in povertà estrema è calata dal 36% del 1990 al 16% del 2010, tanto che l’obiettivo del Millennium Development di dimezzare la povertà estrema è stato raggiunto con cinque anni di anticipo rispetto alla scadenza fissata del 2015”, questo soprattutto grazie ai progressi nei grandi paesi asiatici.
Il rapporto dedica invece molto spazio alla situazione nei paesi a economia avanzata, e in particolare agli Stati Uniti, evidenziando che la distribuzione della ricchezza al loro interno è ormai drasticamente orientata a favore del famoso 1%. Nel grafico qui sotto, relativo agli USA, è evidente la differenza nella ripartizione dei benefici della crescita economica tra i capi d’azienda, gli investitori finanziari e il “normale” lavoratore appartenente all’ormai fantomatica “classe media”.

Io trovo particolarmente significativo il fatto che un’organizzazione dedicata alla lotta alla povertà dedichi tanta attenzione al fenomeno della disuguaglianza innanzitutto all’interno dei paesi “ricchi”. E non si tratta di un’attenzione isolata, anzi: nell’ultimo decennio, anche economisti, accademici e istituzioni “ad alto tasso di capitalismo” si sono dedicati a studiare questo argomento: oltre al celebre libro Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty, si possono citare i libri (ultimo tra i quali La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla) di Joseph Stiglitz, già consigliere economico di Bill Clinton e Chief Economist della Banca Mondiale, che è addirittura diventato un punto di riferimento del movimento Occupy Wall Street, o quelli di altri economisti come Anthony Atkinson. La Harvard Gazette ha aperto una serie di articoli sulla disuguaglianza e sui suoi effetti negativi (uno di questi articoli s’intitola Sempre di più si tratta dei ricchi e di tutti gli altri), e gli esempi sarebbero innumerevoli. La crescente disuguaglianza, insomma, oggi è considerata un problema gravissimo non da sindacati e partiti socialisti, ma all’interno delle stesse istituzioni economiche e finanziarie dove operano proprio quelle élite che decidono le politiche economiche e che in larga parte ne beneficiano. Stiglitz, nell’introduzione al suo libro che citavo, racconta di aver partecipato a una cena informale affollata di appartenenti all’1%, che discutevano di come eludere il fisco e di come contrastare i “parassiti” che avrebbero voluto politiche di ridistribuzione della ricchezza, salvo poi ricordarsi l’un l’altro il rischio che gli eccessi di disuguaglianza sociale riportassero in auge “la ghigliottina”.
Ma perché la disuguaglianza è un problema così grave? Perché, dopo decenni in cui l’ideologia economica reaganiana degli anni ’80 ha prevalso con il messaggio che il mercato si autoregola e che la redistribuzione del reddito sottrae incentivi a chi può creare maggior benessere per tutti, ora anche nei centri vitali del capitalismo occidentale ci si preoccupa della distanza ormai siderale che separa stili di vita e obiettivi esistenziali dei pochi grandi ricchi rispetto a tutti gli altri?
La realtà è che si misurano ormai i costi di questo modello così clamorosamente sbilanciato, e la cui sperequazione accelera anziché rallentare. Si tratta di costi sociali ma anche economici, perché concentrare la ricchezza in poche mani riduce la domanda interna per la maggioranza dei beni tranne quelli di extra-lusso, e anche perché ampie fasce della popolazione non si sentono più parte della “società del benessere”, e questo alla lunga danneggia l’intero sistema, inclusi, forse, i super-ricchi. Il successo sconcertante di Donald Trump, e in generale quello dei politici populisti, ne è una testimonianza.
Uno dei motivi è che questo livello enorme di disuguaglianza, e la sua accelerazione tanto maggiore in anni di stagnazione economica, schiaccia verso il basso la mitica “classe media” e porta a un’erosione della coesione sociale. Gli effetti negativi sono esplorati ad esempio nella serie di articoli di Harvard che ho citato sopra, e qui mi limiterei a citare la complessa questione sanitaria, anche collegandomi al recente post di Bezzicante sull’argomento e a un altro di qualche tempo fa in cui toccavo appunto la relazione tra spesa sanitaria e salute pubblica.
Ebbene, una ricerca USA ripresa da un articolo del New York Times mostra la relazione tra reddito e salute, e non sorprendentemente evidenzia che chi è ricco vive più a lungo. La relazione è evidente nel grafico qui sotto.

Questo effetto ovviamente non è sorprendente, anche se è molto accentuato. Più sorprendente è che sia molto poco omogeneo tra le diverse aree degli USA. Il grafico qui sotto mette a confronto l’area di New York con quella di Detroit:

La dipendenza della longevità dal reddito, e in particolare la penalizzazione per i redditi bassi, è molto più forte a Detroit, eppure le differenze assolute di reddito a New York non sono certo inferiori: l’aspetto strettamente economico si combina evidentemente con uno sociale. Un altro importante studio ha recentemente evidenziato che in particolare in alcune aree degli USA tra i bianchi di mezza età c’è stato un aumento della mortalità dovuto essenzialmente a comportamenti a rischio e autolesionistici, come si vede nel grafico qui sotto. Questi comportamenti (alcolismo, suicidi, uso di droghe, ecc.) sono indicativi di una trasformazione in negativo del livello di realizzazione esistenziale che non è questa la sede per approfondire, ma che certamente ha qualcosa a che fare con la percezione di essere o meno inclusi e “protetti” dalla società in cui si vive. Fino a un certo punto, le disuguaglianze rappresentano un incentivo per la classe media, l’evidenza delle opportunità offerte a chi ha capacità e iniziativa; oltre un certo limite, le disuguaglianze dividono irrevocabilmente il mondo tra privilegiati e “sfigati”, quelli che non possono aspirare a far parte dell’1%, e i cui figli hanno prospettive peggiori dei genitori.

In questo post, come avrete notato, non ho espresso alcun giudizio morale. Questo non è dovuto al fatto che io consideri fisiologico che un ragazzino, perché figlio di una famiglia che fa parte dell’un per mille dei super-privilegiati, a 18 anni possieda una Lamborghini e possa mostrare su Instagram la foto del suo iPhone (o, un po’ peggio, del suo Kalashnikov) placcato in oro 24 carati. I Rich Kids of Instagram di tutto il mondo si divertono a pubblicare foto che farebbero sentire una pezzente Maria Antonietta con tutte le sue brioches, solo per ostentare status symbol; ebbene, a me questi oggetti e comportamenti appaiono senza senso, fatti per sottolineare di non essere parte della comune umanità, ma questa mia opinione non è quello di cui mi interessava parlare. Semplicemente, volevo farvi osservare che un fenomeno di queste dimensioni ha implicazioni politiche ed economiche che superano le valutazioni morali personali, e incidono sul tessuto stesso della società che, in ultima analisi, alimenta i forzieri dei super-ricchi. Ecco perché ad Harvard si preoccupano…
La foto di apertura è di Clarisse Lafleur, diciottenne figlia di un ricco imprenditore e una dei “Rich Kids of Instagram”