La divulgazione scientifica provoca danni?

Spoiler: pare di sì. Intendiamoci, sto per affrontare un tema estremamente scivoloso, perché dovrò basarmi su una definizione di danno che sarà di per sé controversa, e che potrebbe essere contestata dalle stesse persone che indicherò come concausa del danno in questione. Insomma, sto per infilarmi in un ginepraio da cui potrei non uscire.

Eppure, è difficile ignorare la questione, e tanto più difficile lo è per noi che già in passato abbiamo pubblicato diversi articoli sulla (crescente?) tendenza dei cittadini di paesi progrediti e dove la cultura scientifica è sviluppata, se non necessariamente diffusa, a compiere scelte irrazionali e contrarie alle evidenze, appunto, scientifiche. Io stesso, in alcuni post (ad esempio questo e questo) ho cercato di superare i limiti della semplice osservazione del fenomeno per addentrarmi nel più insidioso territorio della ricerca delle cause del fenomeno stesso.

Ma andiamo con ordine. Cominciamo quindi da un articolo pubblicato sulla rivista medica Lancet, intitolato The State of Vaccine Confidence, nel quale si annota con preoccupazione che

“L’OMS ha riportato 52.958 casi di morbillo in Europa a partire dall’inizio del 2018, più del doppio dei 23.757 casi riscontrati in Africa nello stesso periodo. Nell’inverno 2017-2018 gli USA hanno registrato circa 80.000 decessi per influenza a seguito di un record di oltre 950.000 ricoveri per ragioni legate all’influenza”

Cosa vuol dire? Essenzialmente che la disponibilità di vaccini contro il morbillo o contro l’influenza non basta a evitare un aumento delle vittime di morbillo e influenza se i cittadini per i quali la vaccinazione è raccomandata non si vaccinano.
Ovviamente, i vaccini non sono tutti uguali; anzi, parlare di “vaccini” è fuorviante, come se tutti avessero la stessa efficacia, gli stessi effetti collaterali, le stesse indicazioni e controindicazioni, e soprattutto come se tutte le malattie che essi prevengono fossero ugualmente diffuse e pericolose. Tutti questi parametri, e altri, contribuiscono alla valutazione che conduce le autorità sanitarie a stabilire quali vaccinazioni siano raccomandate e per chi; ed è appena il caso di osservare che noi normali cittadini non solo non abbiamo accesso a tutte le informazioni necessarie a questa valutazione, ma non disponiamo (soprattutto) delle conoscenze e delle metodiche necessarie per compiere la valutazione stessa, frutto della ricerca scientifica. Per decidere a quale quota e velocità è opportuno che viaggi un aereo di linea è certamente necessario conoscere una serie di dati sull’aereo, la rotta, le condizioni meteorologiche, eccetera. Tuttavia, se anche io conoscessi perfettamente tutti questi dati resterei incapace di stabilire quota e velocità ottimali per l’aereo: l’informazione non è condizione sufficiente per la conoscenza.

Premesso questo, il motivo per cui ad esempio in Europa ci sono molti più casi di morbillo che in un continente più popoloso e con standard igienici e sanitari mediamente molto inferiori è probabilmente ricercabile nell’affollata figura qui sotto, pubblicata nella ricerca The State of Vaccine Confidence 2016, che mostra chiaramente come l’Europa sia di gran lunga il continente più scettico circa la sicurezza e l’utilità dei vaccini (inutile dirlo, tra i paesi più scettici c’è l’Italia), mentre i paesi africani e del sud-est asiatico sono i meno scettici.

Fonte: EBioMedicine, The State of Vaccine Confidence 2016

Inutile osservare che l’Europa è anche, generalmente parlando, una delle aree dove i cittadini hanno più facilmente accesso a informazioni di ogni genere, incluse quelle di carattere scientifico e medico. La ricerca infatti ha riscontrato che

“Paesi con alti livelli di istruzione e un buon accesso ai servizi sanitari sono associati a livelli più bassi di opinioni positive [verso i vaccini], indicando l’emergere di una relazione inversa tra le opinioni sui vaccini e le condizioni socioeconomiche”

Cosa si può concludere da queste osservazioni? Una possibilità, naturalmente, è che chi è scettico verso i vaccini (o, forse più esattamente, verso le raccomandazioni delle autorità sanitarie) abbia ragione: nessun farmaco è assolutamente sicuro, né è giustificato un atteggiamento fideistico verso “i vaccini” o qualsiasi altro trattamento medico, e anche le autorità possono commettere errori per mille ragioni, incluse quelle dolose. Forse la maggiore disponibilità di informazioni fa sì che gli scettici europei abbiano capito quello che sfugge ai meno informati africani? L’esperienza dice il contrario: senza pretendere di discutere qui la letteratura in materia, il morbillo tra gennaio e settembre 2018 ha provocato 37 morti in Unione Europea, di cui sei in Italia su circa 2.600 casi: sono numeri sufficientemente bassi da non generare un vero allarme, ma basta risalire all’inizio degli anni Ottanta per trovare nel nostro paese medie annue di 40.000 – 50.000 casi segnalati (stimati essere forse il 10% di quelli reali), con il conseguente pedaggio in termini di parecchie decine di morti l’anno e molti più casi di complicazioni gravi. A fronte di questo, la frequenza tipica di complicazioni derivanti da effetti avversi del vaccino combinato è riportata nella tabella qui sotto. In pratica, anche se tutti i neonati italiani fossero vaccinati entro il primo anno di età, l’effetto sarebbe avere in media uno o due casi di complicazioni gravi ma non fatali. La differenza tra il costo sociale delle complicazioni da vaccino e quello della maggior diffusione della malattia è un danno quantificabile, sostenuto a più livelli da tutti i cittadini, e imputabile appunto alle scelte divergenti dalle raccomandazioni di cui sopra.

Fonte: http://www.epicentro.iss.it

Ma naturalmente queste sono solo informazioni: e le informazioni da sole, come abbiamo visto, non generano di per sé conoscenza, né cambiano il modo preconcetto di pensare delle persone. Al contrario: l’ampia disponibilità di informazioni, più o meno attendibili e certificate, fa sì che ciascuno tenda a selezionare e “adottare” quelle che possono essere interpretate a favore delle sue credenze preesistenti, trovando invece modi per dichiarare inattendibili quelle che le confuterebbero (“non crederete mica alle statistiche dell’OMS, vero? Vi indico io una fonte affidabile!”).

Anzi, un recente articolo della rivista Scientific American riporta risultati di alcune ricerche in ambito psicologico che fanno ritenere che una maggiore preparazione su argomenti scientifici e sulla matematica, e un “punteggio” più alto in quello che gli autori definiscono “actively open-minded thinking”, non solo non riducano la tendenza ad accettare solo l’evidenza scientifica che rafforza i propri preconcetti, ma addirittura l’accentuino. Come evidenzia la figura qui sotto, relativa alle opinioni sul riscaldamento globale, più aumenta il grado di “alfabetizzazione scientifica” delle persone, più queste tendono ad adottare con forza l’opinione allineata con il proprio schieramento politico.

Fonte: Scientific American, cit.

Come spiegare risultati così sorprendenti? L’autore di alcune ricerche citate nell’articolo propone questa interpretazione:

“E’ razionale a livello individuale per i comuni componenti del pubblico [della comunicazione] recepire le informazioni in modo tale da ricondurle saldamente alle posizioni che prevalgono nel gruppo sociale o politico in cui essi si identificano”

Insomma, per molti la conferma del proprio senso di identità è più importante di sostenere un’opinione scientificamente corretta, e disporre di maggiori informazioni e preparazione serve solo a essere più efficaci nel trovare conferme ai propri preconcetti “di schieramento” nel mare delle informazioni cui abbiamo accesso. Anche essere abituati a riflettere sulle proprie posizioni (l’indice CRT della figura, che sta per Cognitive Reflection Test) non sembra condurre a opinioni più scientificamente corrette, anzi. E, come dicevo in apertura, adottare attivamente non solo opinioni, ma anche scelte pratiche, divergenti dalla migliore policy definita dagli esperti sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili, ha un costo personale e spesso sociale che si traduce in un danno collettivo più o meno grave (si noti che questo è un caso diverso da quello di chi, ad esempio, pur sapendo che il fumo fa male continua a fumare: una cosa è rifiutare di seguire una raccomandazione sanitaria per ottenere un piacere, un’altra cosa è rifiutare di seguire una raccomandazione sanitaria senza contropartita perché si rifiuta di credere che essa sia valida).

Il paradossale risultato è che aumentare gli sforzi nella divulgazione scientifica potrebbe avere come risultato il rafforzarsi delle opinioni antiscientifiche, e investire per rendere “aperto” l’accesso alle informazioni di base (che non sono conoscenza) ha probabilmente l’effetto di moltiplicare le interpretazioni errate delle informazioni stesse!

Dobbiamo quindi giungere all’amara conclusione che “si stava meglio quando si stava peggio” e che non ci sia modo di indurre il cittadino medio del mondo sviluppato a utilizzare in modo intellettualmente corretto la messe di informazioni e gli strumenti di informatizzazione di base di cui dispone? Oppure trincerarci in una posizione “antidemocratica” e cercare piuttosto di sottrarre all’opinione pubblica la possibilità di influenzare le policy pubbliche su temi scientifici?

Lo stesso articolo di Scientific American propone una possibile alternativa: l’attitudine che, unita all’alfabetizzazione scientifica e alla disponibilità di informazioni conduce a ridurre la polarizzazione delle opinioni sarebbe la curiosità scientifica. Il grafico qui sotto indica che la probabilità che una persona preferisca leggere un articolo che sostiene una posizione opposta a quella che si è predisposti a sostenere aumenta quasi proporzionalmente a un indice scelto per misurare la “curiosità scientifica”.

Fonte: Scientific American, cit.

Il risultato è che se si ripete la prova precedente, si vede che la distanza tra i due “poli” su un argomento politicamente divisivo come il riscaldamento globale si riduce al crescere della “curiosità scientifica”:

Fonte: D. Kahan et al., Science Curiosity and Political Information Processing

Conclusioni? A mio avviso, una che confuta le mie precedenti convinzioni e una che le conferma:
1) la formazione e l’informazione scientifica “convenzionali” non solo non aumentano la conoscenza scientifica diffusa ma rischiano di produrre l’effetto opposto. Chi fa divulgazione e comunicazione su argomenti scientifici (incluso immagino articoli come questo…) deve chiedersi se non stia agendo in modo controproducente rispetto ai propri obiettivi.
2) la scienza non è una collezione di informazioni e teorie ma un metodo di formazione della conoscenza, che si basa sui fatti e non su schemi preconcetti. Promuovere quel metodo e la passione per la ricerca della conoscenza è più importante che diffondere “informazioni”.
D’altronde, anch’io devo accettare i fatti anche quando non sono in linea con le mie idee presistenti, no?