La notte che verrà

Leggo un post del presidente della Croce Rossa che – in un dispiegarsi di orrori – segnala fra l’altro “3.000 i casi di violenza a operatori sanitari italiani registrati nel 2018”. Otto al giorno. Ora: 3.000 è un numero tondissimo e le vere cifre (come dice lo stesso presidente) non sono chiarissime, potrebbero essere di meno o di più, e poi “violenze” in che senso? Aggressioni solo fisiche o anche verbali? Ma potremmo anche dire che non ha nessunissima importanza il numero esatto, né la precisa specificazione delle modalità di tale violenza. Che operatori sanitari, accorsi per curare, proteggere, soccorrere una persona sofferente siano non già agevolate, favorite, benedette dalla folla circostante, ma in qualche qualche modo ostacolate e aggredite, è una cosa che mi fa rizzare in testa i pochi capelli superstiti.

(QUI la campagna nazionale della CRI per sensibilizzare al tema)

Indagando un po’ scopro fra l’altro che a Napoli la CRI ha avviato corsi di autodifesa per i soccorritori. Perché accade? Non lo so. leggendo le numerose cronache spicciole si vedono molti casi legati al razzismo (impedire il soccorso di un africano ferito), di ubriachezza, di bullismo di adolescenti, di violenza o tentata violenza sessuale… ma, appunto: c’è un po’ di tutto e non dispongo di analisi sistematiche che permettano di descrivere compiutamente il fenomeno.

Comunque, leggendo di questo fenomeno, mi sono via via venute in mente le sempre più frequenti aggressioni agli insegnanti da parte di genitori e alunni. Le aggressioni a personale delle ferrovie. Le aggressioni contro agenti di polizia. Contro autisti d’autobus, assistenti sociali…

Queste aggressioni sono differenti da quelle contro i migranti, gli anziani e altre categorie deboli. Se queste seconde sono vilissime espressioni di un bullismo schifoso, le prime mostrano un fenomeno differente: i sanitari, i professori, i controllori non sono “categorie deboli” ma persone al servizio della collettività. Svolgono un ruolo da utile a indispensabile nella riproduzione sociale. Il concetto di ‘riproduzione sociale’ viene qui usato in maniera neutrale e descrittiva, come concetto sociologico per esprimere il ruolo dell’educazione, che potremmo sintetizzare brevemente così: ogni generazione viene “educata” alle regole sociali, culturali, morali che consentono di riprodurre la società nei suoi principi fondamentali.

Qui si apre uno spazio enorme per la critica (generalmente marxista) all’implicita costrizione di questa educazione a valori borghesi dominanti; si apre la critica al modo di manifestare dissenso, al modo di manifestare innovazione rispetto all’irrigidimento culturale di questo modo di intendere l’educazione, e così via, questioni che qui non tratteremo.

Ciò che voglio segnalare è l’evidente frattura fra un mondo dove i conflitti erano fra classi (i poveri contro i ricchi, i proletari contro i detentori dei mezzi di produzione) a uno – quello attuale – in cui i conflitti non solo non sono razionali (come i precedenti, giusti o errati che fossero) ma istintivi, umorali, irriflessi, contro individui che rappresentano la società nel suo tentativo di riprodursi ordinatamente. Questa società ordinata, vagheggiata dalla socialdemocrazia e dal liberalismo dal secondo dopoguerra, promette un mondo ordinato: si nasce, si viene educati, ci si avvia al lavoro, se ci si ammala qualcuno ti cura, puoi viaggiare, leggere, giocare entro le regole, poi vai in pensione e muori lasciando un piccolo contributo alla successiva generazione.

Questa idea di mondo ordinato  e autoriprodotto è venuta meno a causa di diversi fattori: la perdita dei legami sociali forti e una “scomparsa del futuro” conseguenze di globalizzazione e tecnologia 2.0 (non spiegherò il perché, ne abbiamo scritto in lungo e in largo qui su HR). Andando di corsa al caso specifico, fra le conseguenze pragmatiche del cambio di paradigma sociale che stiamo vivendo c’è anche la crescente manifestazione di un’animalità sociale che credevamo almeno in parte domata dalla cultura del secondo Novecento. Una cultura borghese, sì, e in questo grandemente criticabile, ma una cultura di convivenza, dove a piccoli passi si cercava l’integrazione, e poi l’inclusione, e in qualche modo, all’orizzonte, un principio di uguaglianza se non di fratellanza.

L’edonismo egoistico, il particolarismo clanico, il vitalismo subitaneo, la gratificazione immediata, assieme a una istruzione incerta, una cultura variabile, una socialità fragile, tutto questo porta con facilità a trasformare il dispiacere in dissenso, e quindi in odio e poi in azione violenta. Questo, fra l’altro, è quanto accade nei social, con la terrificante facilità con la quale perfetti sconosciuti augurano la morte agli autori di post sgraditi, salvo cadere dalle nuvole qualora l’aggredito chieda di rendere conto in sedi legali (un cortocircuito culturale, perché questa risposta dell’aggredito è parte del vecchio mondo borghese non capito, non visto proprio, dall’aggressore).

Questo è lo scivolamento nelle barbarie. Barbarie tecnologiche, iper-comunicative, facilitate e facilitanti, dove il vecchio mondo borghese, condannato, muore assieme alle garanzie, muore assieme alla responsabilità, muore assieme ai processi inclusivi, muore assieme a principi regolatori fondamentali.

Ciò che si intravede in sostituzione non è chiaro. Potremmo assistere a una spirale involutiva, dove si compirà il processo di frammentazione sociale; crollerà l’Europa, innalzeremo muri, ci barricheremo in casa scattando selfie e armando il cane del nostro revolver, le scuole ristagneranno come parcheggi per togliere i figli dai piedi dei genitori, ognuno avrà pretese, ognuno avrà lamentele, ognuno si incattivirà perché gli altri, gli altri, gli altri non assecondano le loro pretese…

Oppure.

Qualcuno continuerà a tenere acceso un fuocherello. Poi due, poi tre. Dieci, cento fuochi nella notte che verrà.

E aspetteremo l’alba.