Nazione 4.0? Fregatene dell’innovazione

Un anno fa ci ha lasciati Stefano Sappino, che aveva contribuito alla creazione di questo blog e scritto diversi contributi con lo pseudonimo di Signor Spok. Era un amico intelligente e tenace, competente, critico. Abbiamo deciso di ricordarlo e onorarlo riproponendo quattro dei suoi contributi e concludendo poi con l’intervista al coautore di un volume scritto da Sappino, uscito postumo.

Con questo gioco di parole nel titolo si possono riassumere i regressi dell’Italia nell’ambito della gestione digitale della Nazione. Perché, da quando abbiamo descritto, un anno e mezzo fa, lo stato dell’arte e i meccanismi necessari per portare fuori lo Stato Italiano dal micidiale mix rinascimental/ottocentesco dei suoi processi, è cambiato davvero tutto, per dirla con il Principe di Lampedusa: il Governo, il Digital Champion, la strategia, i risultati, il modo di presentarli.

E tutto questo ha trovato la sua incarnazione nel recente evento alla Venaria a Torino, presente il Presidente del Consiglio. Non del tutto imprevedibilmente, questo convegno ha innescato una serie di polemiche, tanto che alcuni entusiasti sostenitori hanno lanciato l’hashtag #innovaefregatene (delle critiche), dal gusto retrò che personalmente trovo molto dubbio.

E’ giunto forse quindi il momento di fare una analisi razionale per trovare, all’interno di questo rumore di fondo, qualche dato significativo. Di conseguenza non tratteremo di interventi di marketing (gli sponsor), politici (il PdC, la Madia) e di pubblicità progresso (il Digital Champion che sponsorizza la sua dubbia associazione di “volontari” del digitale), perché vorremo trovare in questo evento epocale tracce di una Strategia, declinata in Piani, contenenti Obiettivi funzionali e numerici, basata su Interventi di tipo legislativo e normativo (perché altrimenti la macchina dello Stato non cambia).

In un’epoca di BigData, come dice il PdC, occorre saper decodificarli, pena non saper agire sulla realtà. Ci saremmo quindi attesi un eccesso di informazioni sui piani che traformeranno la Nazione. Ebbene, siamo stati smentiti. Quel che esiste è il “toolkit Venaria” dell’Agid, relativi ai progetti in corso, le “Linee guida per il design per i siti web della PA“, e la promessa di una azione da condurre entro due anni per uscire dallo stato disastroso di fanalino di coda digitale della EU. Nè sembra che il consigliere per l’innovazione del PdC possa dire molto di più: il suo articolo sull’evento, ovviamente favorevole, è molto tecnico, contenendo ben due link a… pagine wikipedia. E qui entriamo in pieno clima “Back to the future”: cosa è stato detto (fatto sarebbe pretendere troppo), che non fosse già definito anni fa?

L'Italia, con un punteggio complessivo pari a 0,36 (indice DESI), è venticinquesima nella classifica dei 28 Stati membri dell'UE (fonte: “Indice dell'economia e della società digitali 2015 Profilo per paese – Italia”) e appartiene all’insieme dei paesi poco performanti:
L’Italia, con un punteggio complessivo pari a 0,36 (indice DESI), è venticinquesima nella classifica dei 28 Stati membri dell’UE (fonte: “Indice dell’economia e della società digitali 2015 Profilo per paese – Italia”) e appartiene all’insieme dei paesi poco performanti. La “banda larghissima” non è un prerequisito per la digitalizzazione della PA

Scorriamo rapidamente i contenuti esposti dall’Agid:

Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID), Anagrafe Unica Digitale (ANPR) e Pagamenti Elettronici (pagoPA) sono progetti risalenti a diversi anni fa, cui diede forte impulso operativo dal 2013 l’allora DC Francesco Caio ed erano, al temine del suo mandato, già completamente definiti.

Open Data: pur essendo un tema di moda, gli Open Data, strumento essenziale di trasparenza, non sono utilizzabili per la digitalizzazione dei servizi della PA (vedremo poi perché) ma, qualora fossero di alta qualità (ovvero aggiornati, sempre disponibili e veloci nella disponibilità), potrebbero essere utilizzabili da terze parti che, grazie alla combinazione da fonti diverse, otterrebbero servizi a valore aggiunto per i cittadini (presumibilmente a pagamento). E’ da rilevare come non esista un programma controllato e scadenzato per garantire da parte della PA centrali e locali neppure la pubblicazione degli Open Data con le caratteristiche suddette (esiste un obbligo di legge, che è tutt’altra cosa).

Linee Guida siti web PA: è una pagina illogica e triste. Nel 2015, quando Germania e Francia si incontrano a livello di primi ministri per definire le caratteristiche dell’industria 4.0 (standard per dati e servizi interconnessi in real time in filiere virtuali digitalizzate, vantaggio competitivo enorme rispetto a chi operi, supponiamo, con telefono e sito web: notare come la voce Wiki in italiano non esista neppure), la risposta strategica italiana è… “un sistema condiviso di riferimenti visivi relativi al design dei siti“. In una nazione seria (una di quelle che ha una strategia digitale) questo argomento sarebbe un punto secondario e sconosciuto in quanto ovvio del piano di interventi strutturali. Inutile dire che anche per questo, comunque, non esiste un piano nè un obbligo di adesione da parte delle PA. Del resto il sito dell’evento di Venaria spinge sulla grafica (de gustibus non disputandum est) e per totale assenza di contenuti. E’ quanto accade con regolarità quando competenze di pura comunicazione pensano di poter dare le priorità, secondo la loro sensibilità, allo sviluppo di aree delle quali non hanno alcuna contezza.

Quindi, povera Italia, nulla di strategico. E neppure di nuovo. Ah, beh no. Ora sappiamo come (ri)fare i siti e quali colori usare. Come se, in caso di minaccia immediata Klingon, il Comandante della Flotta della Federazione annunciasse a schermi unificati i nuovi schemi di pittura da adottare sulle astronavi.

Ma è quindi la digitalizzazione materia così difficile? No, ma come non vi fareste (ritengo) operare al cervello da uno che si è esercitato all’allegro chirurgo, non va lasciata in mano a chi, per mestiere, fa tutt’altro. Oltre ad essere stata oggetto di studio serio e di interventi su larga scala realizzati negli anni passati in UK, Olanda, Austria, Danimarca, per citare alcuni paesi (per chi volesse approfondire, qui uno studio, in inglese, molto interessante della EU), ne parla regolarmente con cognizione di causa e chiarezza concettuale il prof. Fuggetta del Politecnico di Milano. La ricetta è semplice: investire in modo massiccio sulla integrazione in real time dei dati e dei servizi nel backend (ovvero nei luoghi non visibili all’esterno della PA) per poter sviluppare rapidamente servizi efficaci e comodi da usare per i cittadini. Questa strategia corretta (e adottata dai paesi precedentemente nominati) è però complessa da comunicare (e, potrebbe essere per alcuni, da capire). Quindi, si preferisce annunciare che si è scelto il colore delle tegole di un tetto della casa che, con questi metodi e la assenza di piani reali ed incisivi, non si avrà mai (non per questo rinunciando a spendere una quantità rilevante di prezioso denaro pubblico).

Infine, questo approccio “leggero” evita anche al Governo di affrontare il nodo vero che impedisce la digitalizzazione: il groviglio di norme e competenze, fissate per legge, senza il cui ridisegno, che tocca però interessi molto forti ed equilibri molto delicati, l’innovazione vera è impossibile. E questo ridisegno è una responsabilità squisitamente politica. L’hashtag di chi ha in mano la strategia digitale italiana sembra essere ora come in passato #faifintaefregatene.