La Rete e l’anonimato che non c’era

Credo che il punto di partenza del ragionamento non possa che essere una precisazione: identificare una persona online, anche senza alcuna delle misure di strong authentication di cui parla Ottonieri, è già possibile, e anzi abbastanza frequente. 

Ogni dispositivo che utilizziamo per connetterci è identificato da un indirizzo IP che può essere geolocalizzato, e la Polizia ha il diritto di chiedere agli ISP tutti i dati relativi a un determinato IP. E questo è il motivo per cui già oggi le forze dell’ordine sono in grado di smantellare reti di pedofili, terroristi e punire crimini commessi online.

Va da sé che la facoltà di richiedere questi dati è una prerogativa della polizia. È giusto che sia così, perché non è altro che l’applicazione in ambito digitale di un principio che rappresenta uno dei pilastri delle democrazie liberali: solo le forze dell’ordine, e solo nei casi e modi stabiliti dalle legge e con tutte le garanzie per gli imputati, possono invadere la sfera privata del cittadino. Gli articoli 14 e 15 della Costituzione sanciscono rispettivamente l’inviolabilità del domicilio e la segretezza della corrispondenza; personalmente sono d’accordo con Rick Falkvinge quando afferma  che i diritti validi nel mondo analogico dovrebbero essere tutelati in egual misura anche nel mondo online (chi vuole approfondire può leggersi questo piccolo pdf).

Vero è che gli utenti un po’ più “smaliziati” sanno come complicare la vita alla Polizia Postale; camuffare il proprio indirizzo IP è possibile, ma raggiungere l’anonimato totale è un qualcosa di cui molti cominciano a dubitare. Possiamo dire che anche un “buon camuffamento” implica una serie di accorgimenti, tecnici e non (andare dall’altra parte della città a cercare una wifi non protetta; installare TAILS su una USB e lanciarla in live mode, usare TOR come browser) che sono assolutamente al di fuori dalla portata dell’utente medio. E che, soprattutto, quasi mai riguardano i Social Network, dove anzi molte persone ci tengono a pubblicare col proprio vero nome e cognome, desiderose come sono d’avere un pubblico che penda dai loro pixel.

Tuttavia, quand’anche uno o più Stati decidessero davvero di rendere obbligatorio un documento per iscriversi a un qualunque Social Network, la conseguenza immediata sarebbe verosimilmente il crollo della popolarità di quello specifico Social, la fuga degli utenti e il boom di altre piattaforme che non dovessero richiedere -almeno all’inizio- alcun documento. Si innesterebbe così un surreale gioco del gatto col topo, con gli Stati costretti a “rincorrere” ogni nuova piattaforma che nasce e i creatori di bufale a metterne in piedi sempre di nuove. Per non parlare del fatto (che dovrebbe essere lapalissiano ma ormai è d’uopo ribadire) che Internet non è sinonimo di Social Network. Già oggi Whatsapp è un’altra valida cassa di risonanza per le bufale più ignobili, e molti altri infiniti sistemi verrebbero molto verosimilmente ideati.

A questo punto qualcuno dirà: tagliamo la testa al toro ed obblighiamo la gente ad esibire documenti al momento stesso della connessione, magari lasciando agli ISP (cioè le varie Telecom, Fastweb, Wind etc.) il compito di identificarli. Purtroppo (o, dal mio punto di vista: per fortuna) anche questo non sarebbe risolutivo. Internet è semplicemente l’infrastruttura che connette vari dispositivi tra di loro. Creare una (o più) rete Internet parallela è già tecnicamente possibilissimo anche senza alcun ISP: tutto quello che occorre fare è comprare un’antenna da 80€, piazzarla sul tetto, collegarla al pc e connettersi agli altri nodi. E no, non è mera teoria: già oggi esistono svariate Reti di questo tipo (Community Wireless Network), in giro per il mondo; la più grande in Italia è Ninux

Se per accedere alla Rete “ufficiale” diventasse obbligatorio esibire documenti d’identità, è verosimile pensare che queste reti comunitarie possano conoscere un boom e proliferare. 

In fin dei conti, non è molto diverso da ciò che accade ogni volta che uno Stato imbocca la via del proibizionismo: dilagano il contrabbando e il mercato nero.

Detto in termini iper semplificati e “politicamente scorretti”: se la preoccupazione principale è quella di garantire la punibilità di chi commette crimini online, allora l’opzione migliore ad oggi è lasciare tutto così com’è. Con la gente convinta di essere anonima solo perché usa “pippo” come pseudonimo su Facebook, o magari che basti aprire una finestra anonima di Firefox per essere al sicuro.

È un male lo pseudoanonimato?

Chiarito dunque che l’anonimato in Rete in realtà è esso stesso una mezza Fake New, si può d’ora in avanti usare il più corretto termine pseudoanonimato. E la domanda che dovremmo porci è: esso è positivo o negativo? La migliore risposta l’ha scritta (su Twitter) Stefano Zanero:

 i dittatori e i bulli detestano lo pseudonimo che consente di dire che il re è nudo.

Una frase che ci ricorda come anche nel mondo offline gli Stati prevedano, in determinate circostanze, la tutela dell’anonimato di alcuni cittadini. E’ il caso delle fonti dei giornalisti, o di chi segnala episodi di corruzione (i c.d. Whistleblower, a tutela dei quali pochi anni fa è stata finalmente approvata una legge, con risultati ottimi: in un anno sono raddoppiate le segnalazioni). 

Sotto questo punto di vista, lo pseudoanonimato in Rete rappresenta una situazione quasi ideale: se denunci un mafioso, e la tua denuncia è fondata, hai reso un servizio alla comunità e il mafioso non sa che sei stato tu. Se invece la denuncia è infondata hai commesso il reato di diffamazione, e siccome la polizia può risalire al tuo IP puoi essere punito.

Questo, naturalmente, per non parlare dei numerosi regimi dittatoriali sparsi per il mondo, in cui è considerato un crimine il dissenso verso il Governo. O l’essere omosessuali.

Ah, e poi c’è la Cina. Il Paese che fa impallidire Orwell e ormai anche la serie Black Mirror. La Cina ha introdotto da qualche tempo una cosa chiamata “punteggio sociale”, una sorta di rating del buon cittadino in base al quale a chi si “comporta male” viene impedito di usufruire di certi servizi (ad esempio i treni ad alta velocità), finché non riguadagna punti facendo “buone azioni”. Un grottesco e mostruoso apparato di sorveglianza statale fatto di telecamere in ogni angolo, riconoscimento facciale e qualsiasi possibile diavoleria atta a monitorare h24 un’intera popolazione.

Conosco l’obiezione a quest’ultimo paragrafo. “Beh, ma qui siamo in Occidente, abbiamo delle solide Costituzioni liberali e un sistema di check and balances che ci mette al riparo da abusi”. 

Vero. Ma le Costituzioni si possono cambiare, e in questi ultimi anni anche nel caro vecchio Occidente abbiamo visto approvare riforme costituzionali sistematicamente improntate a più autoritarismo e meno libertà; in Ungheria nel 2013, in Turchia nel 2017. 

Le democrazie, e con esse le garanzie liberali, vanno e vengono. Invece i filmati delle telecamere, le registrazioni delle nostre conversazioni e in generale qualsiasi nostra azione sul web, beh quelle restano. Chi pensa di non avere “niente da nascondere” sta semplicemente dando per scontato che un domani saranno considerate “da nascondere” le stesse cose che pensiamo oggi; ma potrebbe non essere così.

Cinquanta sfumature di falso

C’è poi una questione meno tecnica e più sostanziale: la definizione stessa di “fake news”. 

Quando, di preciso, una notizia può essere considerata falsa? E quando, invece, “solo” tendenziosa? E una notizia “semplicemente” tendenziosa siamo sicuri che faccia molti meno danni di una bufala eclatante?

Cerco di spiegarmi con un esempio. Se scrivessi che sotto l’attuale Governo l’Italia è uscita, nei primi mesi del 2019, da una recessione che durava dall’anno precedente, tecnicamente non sto dicendo nulla di falso. Ma è del tutto evidente che sto omettendo di proposito tutta una serie di dati altrettanto veri che, se presentati assieme a quelli citati, darebbero al lettore un quadro completamente diverso, e meno elogiativo del Governo. Potrei ad esempio aggiungere che il PIL italiano è tra quelli che cresce meno in Europa, che lo Spread sta ormai stabilmente sopra i 250 punti base e molto altro ancora. Esistono cioè vari modi di mentire: omettere una parte della verità è tra i più antichi ed efficaci, e certamente non è un prodotto esclusivo di Internet.

Credo sia quasi impossibile definire un criterio accettato dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica su cosa considerare “fake new” e cosa no (vd. sotto). Ergo: vogliamo davvero che un potere del genere venga affidato ad aziende private transnazionali, le quali potrebbero avere tutto l’interesse a favorire un candidato o un partito rispetto ad un altro?

Regalare altri dati agli Zuckerberg?

E veniamo al dulcis in fundo. 

Scrive Ottonieri che 

Lungi dall’essere vista come un danno per i fornitori di servizi online, l’introduzione della Digital ID rappresenta un’opportunità di business

Se mi è concessa una battuta, direi che i fornitori di servizi online hanno ben presenti le opportunità di business legate ai dati personali, anche senza Digital ID. 

E credo anche che le Fake News stiano alla manipolazione psicologica di massa come il dito stia alla luna, nel celebre modo di dire.

Mi riferisco al fatto -ormai acclarato e documentato in svariate occasioni- che il grande “mercato delle vacche” digitale fatto coi nostri dati personali ha già avuto conseguenze sulla vita democratica di diversi Paesi. Fatti alla mano è corretto affermare che eventi come la Brexit e l’elezione di Trump non sarebbero mai potute avvenire, senza il ruolo decisivo svolto da Cambridge Analytica, che mettendo le mani sui dati di milioni di americani e britannici ha elaborato campagne di comunicazione politica individualizzate, basate sull’analisi psicologica degli elettori. Un’operazione fantascientifica fino a pochi lustri fa, ma resa oggi possibile dal fatto che tutto ciò che scriviamo online viene memorizzato, “impacchettato” e dato in pasto ad algoritmi di intelligenza artificiale, in grado di capirci a livello psicologico intimo. 

Non c’è nulla di complottistico, in queste affermazioni. È la stessa Cambridge Analaytica (di cui Steve Bannon era vice-direttore) ad aver più volte spiegato il suo modus operandi (e i video si trovano anche su YouTube).

Come siamo arrivati a tutto ciò? Nel suo post, Ottonieri faceva riferimento all’intervento di Carole Cadwalladr al Ted Talk. Personalmente ho sempre trovato molto più incisivo quello di Zeynep Tufekci, dal significativo titolo “Stiamo costruendo una distopia solo per far cliccare la gente sulle pubblicità”.