In un precedente post si ragionava di come l’iper-regolamentazione statale sia causa primaria di burocrazia, e di come quest’ultima a sua volta generi corruzione.
Ripartendo da quel principio vorrei oggi affrontare un argomento entrato da tempo nel dibattito pubblico italiano, per ovvi motivi: il Reddito di Base.
Battaglia storica del M5S, che l’ha declinata nel famoso “reddito di cittadinanza”, misura che, come vedremo, per come è stata realizzata è la quintessenza dell’approccio “all’italiana” a tutti i problemi.
Come lettura preliminare raccomando questo articolo: presenta una storia dell’idea di Reddito di Base, precisa le differenze tra alcune formulazioni (reddito minimo garantito, reddito di cittadinanza etc.) ma soprattutto mostra come quest’idea non sia appannaggio esclusivo di una determinata parte politica; tra i suoi sostenitori si annoverano tanto i liberisti quanto i socialisti.
In questa sede vorrei però concentrarmi su una particolare visione dell’UBI (Universal/Unconditional Basic Income), cioè di un reddito minimo elargito all’intera popolazione di un Paese senza condizione alcuna: quella dei “libertarians“, cioè di coloro che si identificano nello slogan “Minimum Government, maximum freedom”. Si tratta di una corrente politica che si rifà al liberalismo classico (Adam Smith e dintorni), e che vorrebbe appunto lo Stato minimo, che garantisse ai cittadini la massima libertà sia civile sia economica. Condividono col Partito Repubblicano statunitense le battaglie per abbassare le tasse e ridurre la burocrazia, e col Partito Democratico quelle pro-aborto, antiproibizioniste e per la libera immigrazione.
Perché, dunque, queste persone dovrebbero essere favorevoli all’UBI, apparentemente una misura assistenzialista?
La risposta è semplice: a differenza di pressoché ogni altra corrente di pensiero pro-UBI, i libertarians propongono di elargirlo in sostituzione del Welfare State, anziché in aggiunta ad esso (come invece proponeva il referendum svizzero in proposito, tra l’altro bocciato dalla stragrande maggioranza dei votanti).
In estrema sintesi, il ragionamento si pone in questi termini: posto che è dovere morale dello Stato assistere i poveri e operare una qualche redistribuzione della ricchezza, si tratta di capire quale sia la strada migliore per ottenere questo risultato. Finora la risposta dei Paesi europei è stata il Welfare State, cioè la gestione diretta da parte dello Stato di alcuni servizi (sanità, istruzione, ma anche varie forme di sostegno al reddito) finanziate attraverso la fiscalità generale e altre entrate. Com’è noto, tuttavia, la gestione dei servizi pubblici pone dei problemi strutturali intrinseci: l’inefficienza della PA, la non sempre alta motivazione di una parte dei dipendenti pubblici, la scarsa meritocrazia, la corruzione. Problemi noti a noi italiani forse più che ad altri popoli, ma presenti ad ogni latitudine nel mondo.
Onde la proposta provocatoria: anziché gestire direttamente i servizi pubblici, non potrebbe lo Stato più semplicemente “staccare un assegno” a tutti, e lasciare che i cittadini usino con quei soldi per pagarsi l’ospedale privato, la scuola privata etc.?
Dal punto di vista burocratico non c’è dubbio che si tratterebbe di una semplificazione drastica. Ogni sussidio riservato a persone che si trovino in determinate condizioni prevede che i beneficiari dimostrino di trovarsi nelle suddette condizioni. Generalmente questo implica il doversi recare in un apposito ufficio, esibire una documentazione che verrà poi esaminata da un burocrate etc. Inutile dire che tutto questo ha un costo. A cui si aggiunge, ovviamente, quello della sorveglianza sui beneficiari; individuare un falso invalido richiede mesi di appostamenti, prove documentarie, processi etc., e il massimo che lo Stato ottiene di solito è l’interruzione del beneficio.
Sotto questo aspetto, il reddito di cittadinanza voluto dal M5S rappresenta un caso da manuale di paternalismo di Stato misto a dirigismo e manie di sorveglianza di massa.
Una miriade di limiti e condizioni per accedervi, l’esigenza (conseguente) di ricorrere a massicce operazioni di sorveglianza contro i “furbetti”, e soprattutto l’ossessione di dimostrare che i beneficiari stiano “sudando” per ottenere quei soldi. Non solo una marea di “paletti” per poter accedere al sussidio, ma anche limitazioni su come e dove si può spendere il reddito (con la distinzione tra spese “morali” e “immorali”); perfino una definizione su quale lavoro è da ritenersi congruo. Così, quand’anche il beneficiario si dicesse disponibile a fare un “lavoraccio”, lo Stato glielo impedirebbe ex ante, non facendogli neanche pervenire la proposta.
E’ chiaro che tutto ciò non nasce dal nulla. La premessa ideologica di un provvedimento del genere è che il disoccupato (sia esso di lunga data o momentaneamente tale) si trova in condizione di difficoltà perché incapace di badare a sé stesso, e dunque lo Stato dovrà tenere con lui l’atteggiamento di un buon padre di famiglia: non può semplicemente dargli una paghetta, ma dovrà vigilare sull’uso che fa del proprio denaro. Non sia mai che spenda tutto in in alcool e droga, equivalenti di dolciumi e fumetti della vita adulta.
ESPERIMENTI INCORAGGIANTI NEL TERZO MONDO
Qualcuno, nel mondo, ha preso queste obiezioni molto sul serio. E ha provato a fare degli esperimenti per cercare di capire quanto fossero fondate. E’ il caso dell’ONG Give Directly, un’organizzazione che – come suggerisce il nome – da anni porta avanti esperimenti pilota di UBI nei luoghi più poveri al mondo: il progetto più ambizioso lo ha lanciato nel 2016 in alcuni villaggi del Kenya, i cui 6000 abitanti riceveranno un reddito di base incondizionato di 400$/anno (questo è il reddito medio annuo a quelle latitudini) fino al 2026.
Uno degli aspetti più pregevoli dell’attività dell’ONG è la produzione di paper scientifici che documentano, dati alla mano, i risultati dei test. Ciò che emerge è che non c’è stato un incremento di alcool/tabacco/droghe varie; al contrario, i beneficiari tendono a spendere il denaro per migliorare la propria condizione di vita materiale (riparare il tetto della casa, comprare un po’ più di cibo). Risultati analoghi erano arrivati nel 2014, in un analogo esperimento in India.
Sono report che fanno riflettere. Soprattutto se si pensa alla quantità di denaro che viene impegnata ogni anno in progetti di “aiuti” ai Paesi poveri da parte di quelli più benestanti; il FES (Fondo Europeo di Sviluppo) ha stanziato 30,5 mld/€ per il periodo 2014-2020; sarebbe interessante capire quale percentuale di questo denaro “se ne va” in burocrazia, spese di rappresentanza, pubblicità, stipendi del personale etc. E, una volta appurato ciò, sarebbe ancor più interessante calcolare quanti redditi di base (e per quanti anni) si potrebbero finanziare con 30 miliardi di euro, in Paesi dove milioni di persone campano con meno di 1000€ all’anno.
E NEL MONDO OCCIDENTALE?
Se tuttavia questo scenario può sembrare fattibile nei Paesi in via di sviluppo a causa del diverso costo della vita, all’interno di un Paese occidentale il discorso può farsi molto più complesso.
Eppure, anche in questo caso c’è chi ha fatto i conti. Matt Zwolinski, docente di filosofia all’Università di San Diego, in questo articolo spiega:
Secondo Michael Tanner, il governo federale degli Stati Uniti ha speso più di 668 miliardi di dollari in più di 126 programmi di lotta alla povertà, nel 2012. Se a questi si sommano altri 284 miliardi spesi dai governi ed Enti locali, si arriva ad un totale di $20,610 per ogni persona povera negli Stati Uniti.
Non era più semplice staccare loro un assegno?
Ora, è evidente che il presupposto ideologico di questa proposta è una fiducia cieca nelle dinamiche di mercato, e una complementare sfiducia totale nella possibilità di far funzionare i servizi pubblici; il sottinteso è che, se lo Stato garantisce a tutti i cittadini di non scendere al di sotto della soglia di povertà, questi avranno un potere d’acquisto stabile con cui scegliersi quale a operatore privato rivolgersi. La concorrenza tra privati migliorerebbe (almeno secondo la teoria) la qualità dei servizi, eliminando inefficienze e sprechi.
Apro una parentesi per far riflettere su un punto: un privato potrebbe non essere necessariamente for profit. L’Italia, da questo punto di vista, ha una lunga e positiva tradizione di associazionismo che, come ha fatto notare perfino il Presidente della Repubblica nel discorso di capodanno del 2019, spesso integra in modo decisivo proprio i servizi pubblici.
Peraltro, per quanto – detta così – la proposta possa sembrare utopica o distopica (a seconda dei punti di vista), ad un’analisi più attenta si può osservare che già oggi sono previsti rimborsi e agevolazioni fiscali per certi servizi forniti da privati . L’UBI non sarebbe altro che un’estensione all’estremo di questo principio.
I CONTI DELLA SERVA
La domanda delle domande, dunque è la sostenibilità finanziaria della proposta. Cioè, in termini estremamente semplici, “dove si trovano i soldi”. Intanto: quanto costerebbe un UBI in Italia? Ho realizzato questo semplice foglio di calcolo online in cui l’utente può sbizzarrirsi con varie ipotesi. Ho riportato nelle prime due colonne la popolazione italiana, suddivisa per fasce d’età, e nella casella D4 l’utente può inserire l’importo mensile individuale da assegnare a ogni beneficiario per vedere, nelle caselle D14 ed F14, quanto costerebbe in totale. Si tratta, come si può vedere, di una cifra che va da poco meno di 500 miliardi di euro/annui se riservata ai soli maggiorenni, ai quasi 600 miliardi se data a tutti.
La spesa pubblica italiana complessiva ammonta, nella legge di bilancio del 2019, a circa 870 mliardi di euro (per un’idea approfondita si può consultare il pregevolissimo progetto Budget.g0v, che mostra in forma grafica le varie voci di spesa e consente di filtrarle per Ministeri). Posto che esistono alcuni servizi che non possono, per loro intrinseca natura, essere gestiti da privati (forze dell’ordine, esercito, vigili del fuoco), e posto anche che una parte della spesa pubblica è costituita dagli interessi sul debito (ma non si arriva ai 100 miliardi di euro l’anno), resta il fatto che forse, disboscando l’intricatissima selva della spesa pubblica, l’impresa potrebbe non essere impossibile.
Naturalmente sappiamo bene che una società del genere sarebbe ben lungi dall’essere perfetta. La corruzione non è certo un’esclusiva del settore pubblico: su Internazionale di questo mese si può leggere un pezzo del vincitore del premio Pulitzer Daniel Golden, autore del libro The Price of Admission, in cui spiega come negli Stati Uniti le famiglie più ricche si assicurino l’ammissione dei propri figli alle università più prestigiose a suon di donazioni milionarie, con buona pace del mito della meritocrazia yankee.
Credo che il punto, tuttavia, sia un altro: lo scopo della politica (o almeno di quella seria) non dovrebbe essere cercare di costruire una società perfetta (Karl Popper una volta disse che coloro che ci promettono il paradiso in terra producono inevitabilmente l’inferno). Questo obiettivo è irrealizzabile. La corruzione, la diseguaglianza, il crimine, l’odio e la violenza sono fenomeni che nessun governo potrà mai azzerare, non importa quanto imponenti e invasive siano le misure di controllo e dirigismo che mette in campo. Ancor meno realistico è pensare di inculcare un’etica nel popolo, forgiandolo secondo i desiderata del governante di turno; quando ciò è avvenuto, sono nati regimi.
Si tratta, invece, di creare una società che garantisca ai cittadini libertà e responsabilità.