Il merito nel lavoro

Molti anni fa (davvero molti, quindi non so dire come sono evoluti i tempi anche se, notoriamente, sono pessimista e credo pertanto che le cose non siano migliorate), molti anni fa – dicevo – lavoravo in una struttura pubblica particolare, ufficio periferico di un Ente molto articolato; un giorno “ci mandarono” (tipo pacco) un dipendente che aveva già girato numerosi precedenti uffici e che era stato mal sopportato e quindi rilocato via via altrove, finché questo rimpallarsi il tizio, che era un peso, non arrivò al suo scalino finale, giù in fondo, dove eravamo noi. Il tizio venne messo in una stanza già occupata da due o tre colleghi, ma con una scrivania libera. Passato un po’ di tempi questi colleghi andarono a lamentarsi dal nostro direttore, perché il tizio dormiva ma, specialmente, russava, e li distraeva. Allora si trovò una sistemazioncina niente male, una specie di sgabuzzino stretto dove però stava da solo a dormire tranquillamente come gli pareva. Il tizio arrivava alla mattina, timbrava, si faceva un riposino, leggeva le riviste regionali cui teneva molto, poi usciva (senza timbrare) si faceva una bella passeggiata, andava a fare la spesa, tornava in ufficio per riposare un altro po’ poi, all’orario stabilito, timbrava l’uscita e andava a casa. Il direttore – che non era un Cuor di Leone e gli era stato imposto “dall’alto” di sopportare – provò più volte a coinvolgerlo in piccolissime e futili attività interne, tanto per dare una vaghissima patina di normalità lavorativa alla totale indifferenza del tizio il quale rispondeva come Bartleby, o non rispondeva affatto, o si prestava così mal volentieri che era meglio lasciasse perdere. Quando un anno il direttore diede la valutazione a ognuno di noi (ricordo: legata a incentivi che nel Paese dei diritti acquisiti significava dire di tutti che erano stati bravini), osò darne una solo mediocre al tizio, che come una furia si precipitò nella sua stanza per fargli una piazzata clamorosa rivendicando anche per sé il diritto alla buona valutazione e al miserabile incentivo economico.

Quel tizio arrivò poi alla pensione, esattamente come altri colleghi che semmai, per tutta la vita, si erano spaccati in quattro per senso del dovere. Una vita da ignavo, da nullafacente, da isolato (ovviamente era schifato da tutti, e lui ricambiava cordialmente tale sentimento), da inutile e svogliato e indolente attraversatore di una vita vissuta col minimo sforzo. Uno che l’8 marzo aspettava le mimose già mezze sfiorite delle colleghe, lasciate semmai sul tavolo, per prenderle e farne dono alla moglie. Uno che non partecipava mai alle merende aziendali (quando c’era un compleanno, per esempio) per evitare di dovere, a sua volta, offrire qualcosa, un giorno… Avete capito il tizio.

Costui era un dipendente pubblico. Illicenziabile. Non sanzionabile. Protetto dal sindacato.

L’aneddoto è molto estremo e molto isolato, naturalmente, e tutti abbiamo fatto esperienza di pubblici dipendenti grandi lavoratori, con una spiccata vocazione pubblica e al servizio dei cittadini, come di pessimi imboscati pubblici (senza gli estremi del mio tizio) pacatamente impegnati a fare il minimo possibile, e semmai senza garbo coi cittadini. Quello che credo, comunque, sia un principio largamente accettato è quello del dovere del lavoro, e non solo il suo essere un diritto. Ogni persona ha il diritto a un lavoro dignitoso per sfamare sé e la famiglia, sì, ma ogni persona ha, contemporaneamente, il dovere di lavorare, con scienza e coscienza, come contributo alla collettività. Perché siamo “gente”, oltre che individui (famiglia, paese, popolo…) e abbiamo bisogno dello sforzo reciproco e solidale per sopravvivere e per prosperare.

Questo principio è talmente scolpito nella pietra (salvo per chi non lo vuole proprio leggere, come dirò) che 

chi non lavora non mangia

era scritto nella Costituzione dell’Unione Sovietica (1918); e deriva da San Paolo, e prima ancora da proverbi ebrei… Insomma, non è un motto liberista! È un’esortazione alla responsabilità e al dovere.

Nella nostra società iper complessa le cose sono ovviamente meno facili da descrivere apoditticamente: chi non è abile al lavoro, chi è troppo giovane o troppo anziano, chi è malato, le donne incinte o che allattano e molte altre categorie hanno diritto di mangiare senza lavorare; la collettività si prende cura di loro. Poi il mondo arcaico è scomparso e l’industria ne ha preso il posto, creando nuove occasioni di lavoro come di povertà; le aziende aprono e chiudono senza chiedere il permesso ai loro dipendenti; che fare se dall’oggi al domani rischiano di essere messi in mezzo a una strada? Nelle società occidentali si sono istituiti elaborati sistemi di sostegno (welfare) più o meno validi che in Italia, per esempio, si chiamano Cassa Integrazione, Reddito di cittadinanza e altro. Sul fatto che funzionino bene, benino o male non interverrò, non è oggetto di questa riflessione. Diciamo solo che una società attenta, un governo popolare, uno Stato paterno senza essere paternalista, provvede ai suoi cittadini senza lasciare nessuno nella disperazione, nella malattia, nella fame. Poi la realtà è molto più crudele…

A questo punto vorrei unire i pensieri qui raccolti: quello sul diritto e anche il dovere del lavoro, quello sulla collettività che provvede e quello del tizio che russava in ufficio e se ne infischiava di tutti.

Io la vedo in maniera molto semplice da dire e non altrettanto da realizzare: 1) dobbiamo certamente (cercare di) garantire un lavoro adeguato a tutti: ma tutti devono (imperativo) dare il massimo possibile in quell’occupazione. 2) Dobbiamo avere un sistema di reale valutazione dei meriti: sei bravo, ti impegni, concorri al benessere e allo sviluppo aziendale? Devi (imperativo) essere premiato; non ti dai da fare, sei un peso, crei un danno? Devi (imperativo) essere sanzionato. Questo vale nel pubblico e nel privato. Il lavoratore che arriva in orario e svolge con diligenza il compito assegnato non può avere lo stesso riconoscimento, anche in termini di reddito, del tizio che dorme e non partecipa in nulla. Se poi il lavoratore ha idee, cerca di innovare (quindi non è solo bravo “passivamente” ma anche attivamente) allora decisamente è prezioso per l’azienda e per la collettività e deve vedersi riconosciuto il merito.

Poiché gogna e fustigazione sulla pubblica piazza non vanno più di moda, le sanzioni possono riguardare riduzioni economiche, anche severe, e una sanzione sociale in termini di riprovazione. Guardate che questo secondo punto, nel Paese dei furbi, è fondamentale: chi froda sul cartellino per andare al bar non è un simpatico briccone, ma un delinquente che ruba il tempo, le funzioni necessarie, i soldi, a tutti noi, pur godendo dei vantaggi collettivi (quelli dovuti al fatto che le persone perbene lavorano e pagano le tasse, e ci fanno avere ospedali efficienti, scuole che aprono tutte le mattine, uffici che rispondono ai bisogni dei cittadini…). Così chi esce di nascosto per andare a fare la spesa, chi si imbosca, chi fa dopodomani quello che dovrebbe fare adesso, non merita il rispetto, il ringraziamento, e neppure la convinta premialità di coloro che sentono forte il senso del dovere, chi si sacrifica, chi innova, chi si sforza…

Poi, ovviamente, tutti siamo differenti. Non possiamo pretendere da un usciere l’innovazione e lo spirito di sacrificio di un dirigente. Non possiamo pretendere da una persona di scarsa capacità e limitata istruzione lo stesso slancio dello specializzato… Ma tutti devono sentire il richiamo del dovere, e chi lo sente ha diritto a un riconoscimento di merito. Cioè: lo avrebbe, lo dovrebbe avere…

Non credo che lascerei qualcuno morire di fame. Il tizio dell’aneddoto iniziale aveva moglie e figli, non dovevano certamente andare a dormire sotto i ponti. Anche l’ignavia e l’assoluta rarefazione della morale sono una specie di malattia e come tale possiamo sopportarla in alcuni individui…

Accade che Renato Brunetta, nel cinquantesimo dello Statuto dei lavoratori, rilancia una sua vecchia proposta sul merito che vi sintetizzo con le sue medesime parole:

Nella società capitalistica (quella che fa da sfondo allo “Statuto”) vige, infatti, un equilibrio infelice. Il salario è certo, l’occupazione incerta. Il salario è fisso, sia che l’economia tiri, sia che vada male. Se va bene, cresce l’occupazione, ma la busta paga resta quella. Se va giù l’economia, aumenta la disoccupazione. Non si tagliano i salari, ma si licenzia. Si accetta come normale la disoccupazione tipica delle crisi, che provoca invece costi umani spaventosi e costi del welfare insostenibili. Ribaltiamo la prospettiva. Invece di tener fisso il salario di chi ha lavoro, e mobile il rapporto tra occupati e disoccupati, invertiamo le priorità. Puntiamo alla piena occupazione come bene pubblico inderogabile. E lasciamo che la remunerazione del lavoro sia flessibile. Il salario è un prodotto ottocentesco e novecentesco delle rivoluzioni industriali. Ma ha fatto il suo tempo. Cominciamo a difendere i lavoratori facendoli valere come capitale patrimoniale. Che partecipano a pieno titolo ai successi e agli insuccessi della loro azienda. Che può fallire, ovvio, ma da altre parti si generano nuove risposte ai bisogni e dunque nuovo lavoro. 

L’idea della flessibilità del salario, legato al merito, ha almeno questi due enormi problemi:

  1. occorre una piena occupazione o qualcosa che le somigli; è l’idea del libero mercato anche nel lavoro, molto americana, per la quale se ti chiude l’azienda pazienza, c’è sicuramente un’altra azienda simile che ha bisogno di te, e nel breve intervallo fra l’una e l’altra lo Stato provvede amorevolmente con un sostegno al reddito; questa premessa, bellissima e veramente utopistica, non è realizzabile in Italia, non lo sarebbe comunque in tempi brevi, sarebbe comunque in difficilissimo equilibrio in un sistema aperto e interdipendente e così via;
  2. occorre una seria valutazione del merito, assolutamente terza e indipendente, autorevole, certa, di modo che le valutazioni non siano oggetto di contestazione e insoddisfazione e conflitto.

La piena occupazione è una chimera per alcune ragioni generali già richiamate. La nostra classe industriale è raramente all’altezza; il lavoro nero una piaga che vede la complicità di lavoratore e datore di lavoro; l’iperburocrazia e la fiscalità italiane sono due enormi macigni per chi vuole fare impresa in Italia; tutte, ma proprio tutte, le politiche attive del lavoro sperimentate nei decenni sono state fallimentari in modo pressoché totale… Se la piena occupazione è una premessa dirimente, una clausola sine qua non, possiamo già chiudere il discorso.

Ma…

Ma non è bello, forse, immaginare un sistema-paese finalmente armonico, scorrevole, sburocratizzato, capace di premiare chi vuole intraprendere? Allora, se non prendiamo proprio alla lettera la precondizione di Brunetta, non potremmo intenderla come una sfida, come un orizzonte? Come una tensione positiva di popolo, di paese, di classe politica, tutti volti a misure concrete, non assistenzialiste, non ideologiche, di governo del mercato del lavoro?

Purtroppo anche la seria valutazione è una chimera. Avendo lavorato per una vita nella valutazione delle politiche italiane (anche del lavoro), ne so qualche cosa. Anche se la valutazione del merito individuale è qualcosa di molto diverso, che non ho mai praticato, posso dire con assoluta certezza che in Italia la valutazione non la vuole nessuno, e che salvo rarissimi casi la valutazione praticata non è terza, men che meno quella chiamata – con enorme eccesso di sfrontatezza – “indipendente”, che dovrebbe valutare come le Regioni spendono i soldi della Commissione Europea. La valutazione in Italia è puro dovere burocratico, adempimento, oppure retorica, tentazione narcisistica, o se proprio va bene è compiacimento, propaganda. E guardate che il problema assolutamente non è tecnico, perché si potrebbe benissimo valutare tutto, e bene, e seriamente, e con solidi dati e argomenti; anche il merito individuale. Se solo lo si volesse.

Anche qui, quindi, una precondizione che ci taglia le gambe ma, anche qui, un monito, un suggerimento, una tensione positiva: si potrebbe fare, diamine! ed è solo la nostra straordinarietà italica che ce lo impedisce.

Tutto sommato, in Italia, tutti tengono famiglia e non possono mica essere rovinati; tutti son figli di qualcuno, e devono pur mangiare; tutti hanno bisogni, e bisogni, e specialmente diritti, come la clamorosa balla del diritto al lavoro inteso come “qualcuno mi deve garantire un reddito, meglio se pubblico”. E figuratevi poi essere sottoposti a una valutazione, un giudizio, una specie di esame… E chi sarebbe costui che pretende di valutare proprio me? E costui, poi, da chi sarebbe valutato? E via discorrendo di egoistica banalità in particolaristica scemenza. 

L’Italia è il paese che continua a buttare soldi per l’Alitalia per evitare decisioni difficili. È il paese che spreca miliardi di euro europei distribuendoli inutilmente per clientele locali. È il paese che fa il sovranista su Facebook e il pietoso mendicante a Bruxelles (il riferimento è a Salvini). È il paese dove le tasse le pagano i coglioni (io sono fra quelli) ma gli ospedali devono curarmi, e subito, e bene, se no via di denuncia! È il paese che ha dovuto ingoiare i pasticci del reddito di cittadinanza e del decreto dignità, e i loro artefici fanfaroni stanno ancora al governo…

Nessun merito quindi, tranne che per coloro che ci credono e son premio di loro stessi. Persone che sentono il senso del dovere, che si sacrificano, che lottano, semmai con pochi mezzi e scarsi riconoscimenti. Questi sì, sono eroi italiani.