Il futuro di Hong Kong semplicemente non c’è

Il giro di vite di Pechino su Hong Kong trova ormai sempre meno oppositori anche in città; gli attivisti avevano chiesto venerdì 22 che le persone scendessero nuovamente nelle strade contro i piani di Pechino di imporre la legislazione sulla sicurezza nazionale, temendo che potessero erodere ulteriormente le libertà tipiche dell’ex colonia. Ma la marcia proposta a mezzogiorno nel distretto finanziario centrale non si è materializzata dopo che le chiamate online sono state ascoltate solo da una manciata di attivisti e quando la polizia antisommossa ha reso visibile la sua presenza per le strade. Un insieme di paura per la repressione e disillusione sull’evolvere della situazione rende palpabile quale sarà il futuro di Hong Kong (da qui in poi: HK): un futuro normalizzato, soffocato nelle libertà civili, e sostanzialmente integrato economicamente come parte della grande Greater Bay Area, assieme a Shanghai, Macao e Canton.

L’Occidente protesta, ma sempre ambiguamente e occhiutamente. Ambiguamente perché – come vedremo – non poche responsabilità sono degli occidentali, e occhiutamente perché guarda alla Cina e HK – giustamente – e non altrove – ambiguamente; e anche perché alla fine questo accadrà: che in nome degli affari, del commercio, del libero scambio, della Via della Seta, la Cina si prenderà HK e le proteste occidentali, almeno quelle europee, passeranno in cavalleria (forse diverso per gli USA, come vedremo).

insomma: imparare dalla storia; guardare all’economia globale con occhio critico; capire i diversi punti di vista senza cedere ai cliché. 

In un interessantissimo articolo del premio Nobel per la pace Joshua Wong, vediamo  come l’inizio del rapporto fra abitanti di HK e Cina, dopo la restituzione britannica del 1997, era improntato a un diffuso sentimento filo-cinese; si sentivano cinesi, tifavano Cina alle olimpiadi, piangevano per i morti del terremoto del Sichuan nel 2008. Questo è molto interessante perché ci deve far concentrare su quale meccanismo, quale accidente, sia successo dopo, per portare la maggioranza della popolazione a diffidare della Cina Popolare e non sentirsi più “cinesi” in quel senso. È lo stesso Wong a fornirci alcuni indizi preziosi:

L’afflusso massiccio e sfrenato di visitatori transfrontalieri iniziò a intasare il traffico e la città gradualmente si trasformò in un gigantesco negozio duty-free per i continentali [i cinesi della Repubblica Popolare]. Gli affitti salirono alle stelle e gli amati ristoranti locali e negozi di famiglia lasciarono il posto a catene anonime per la cura della pelle e farmacie per attirare il dollaro rosso [lo Yuan]. Peggio ancora, Hong Kong è diventata un paradiso per uomini d’affari cinesi benestanti e funzionari di alto rango per nascondere le loro fortune alle autorità, facendo salire i prezzi degli immobili nel processo. Nel decennio precedente il Movimento degli ombrelli, i prezzi degli immobili residenziali sono più che raddoppiati e Hong Kong è stata la città più cara del mondo in cui acquistare una casa anno dopo anno.

Dalla presa del potere dell’attuale premier Xi JinPing (2013) le cose sono peggiorate con sempre più chiare repressioni dei movimenti liberali e giri di vite imposti all’autonomia locale, tanto da far concludere a Wong che

Hong Kong non ha mai perso il suo status di colonia. Siamo semplicemente passati da un padrone imperialista a un altro.

Ciò che è accaduto è che l’ingresso cinese nel WTO (dicembre 2001) ha enormemente rafforzato economicamente la Cina rendendo via via meno strategica Hong Kong; i massicci investimenti a Shanghai e nello Shenzhen hanno di fatto dirottato in queste aree grandi investimenti multinazionali. Conseguentemente il potere economico di HK è diminuito significativamente rispetto alla terraferma: il suo PIL è sceso dal 16% di quello cinese dopo la consegna nel 1997 a meno del 3% nel 2017.

Sempre citando Wong

Per la leadership comunista, Hong Kong non è più la proverbiale oca dalle uova d’oro. Quella che una volta era una porta di accesso alla Cina è ora percepita da Pechino come una fiorente base di sovversione. Sia la crisi del movimento degli ombrelli che la legge sull’estradizione sono considerate sfide aperte al dominio cinese. Se lasciato incontrollato, il dissenso a ruota libera può diffondersi sulla terraferma e minacciare la stabilità stessa del regime comunista. Secondo i calcoli di Pechino, la regione amministrativa speciale è più un problema di quanto non valga la pena, e l’unico modo per frenare ciò che la leadership considera un gruppo di bambini piagnucolosi filo-occidentali è di tenerli in uno stato di perpetua adolescenza, senza mai permettere loro di raggiungere la maturità politica.

Che ci piaccia o no, la faccia oscura del liberalismo che incita le coscienze alle libertà fondamentali e piange per HK, è il liberismo che guarda innanzitutto agli affari: business is business. I leader cinesi hanno da tempo scommesso sul fatto che le migliori aziende di HK scambieranno alcune libertà politiche per la prosperità economica che Pechino può offrire, e così faranno le grandi multinazionali. Il cuore arido e pragmatico degli affari ha infatti reagito ingoiando il rospo. Malgrado il momentaneo scossone della borsa e la fragilità dello statuto giuridico, ormai non più così autonomo della città, la stragrande maggioranza delle aziende straniere non ha pensato affatto di abbandonare HK, e gli stessi magnati cinesi della città (perlopiù aderenti al partito comunista) invitano alla calma e alla moderazione i manifestanti (occorre ricordare che oltre la metà delle esportazioni di HK sono dirette in Cina) e ugualmente la pensano le grandi compagnie americane che “potrebbero potenzialmente adattarsi all’incertezza politica” come ha affermato Kyle Sullivan, responsabile delle questioni cinesi presso il Crumpton Group, una società di business intelligence con sede a Washington. “Non c’è dubbio che lo hanno fatto nell’ultimo anno” (fonte).

C’è poi il peso americano sulla vicenda; a settembre il Congresso ha approvato una legge che toglierebbe ogni condizione di favore al commercio americano verso HK (sostanzialmente esenzioni da dazi, previsti invece per la Cina) qualora il regime cinese ne limitasse ulteriormente l’autonomia. La fine dello status speciale di Hong Kong sarebbe un duro colpo per le aziende statunitensi che operano nell’area. Secondo il Dipartimento di Stato, 85.000 cittadini statunitensi hanno vissuto a Hong Kong nel 2018 e più di 1.300 società statunitensi vi operano, tra cui quasi tutte le principali società finanziarie statunitensi. In termini assoluti, comunque, il ruolo economico di Hong Kong è irrisorio per l’intero sistema degli Stati Uniti (di 740 MdUSD scambiati nel 2018 con la Cina, solo 17 Md di importazioni e 50 di esportazioni hanno coinvolto HK). Colpire la Cina col pretesto di HK, quindi, potrebbe avere contraccolpi sopportabili per gli USA in termini economici ma premianti in termini politici, vista la perdita di consensi di Trump per la sua inadeguata gestione della crisi del coronavirus.

Queste manovre porterebbero solo a un reciproco innalzamento del clima da guerra fredda che il governo Trump ha avviato nei riguardi della Cina; “Se gli Stati Uniti insistono nel danneggiare gli interessi della Cina, la Cina dovrà prendere tutte le misure necessarie per contrastare questo atteggiamento”, ha detto ai giornalisti il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian. E non è che la potenza asiatica sia senza armi. Poiché viviamo in una società aperta, grosso modo i cinesi sanno cosa possono e vorranno fare gli americani, e viceversa. In un ponderoso studio di John Lee per lo United States Studies Centre si considerano le diverse compenetrazioni fra le due economie e si indica una strada per “separare le catene di approvvigionamento e valore fra Stati Uniti e Cina”; la cosa – per il prof. Lee – sembra fattibile nel medio periodo ma lo studio non considera le conseguenze diplomatiche, geopolitiche e infine – perché no? – militari, di azioni chiaramente aggressive come il tentativo di limitare l’accesso cinese al capitale, ai mercati, all’innovazione e al know-how (tutte misure indicate nel  rapporto come necessarie), anche in considerazione del fatto che oltre alla Cina non c’è la sola America come giocatrice, ma un complesso articolato di Paesi che hanno rapporti anche molto stretti con la potenza asiatica. E guarda caso lo studio punto il dito contro l’Europa, non in grado di garantire una strategia anti-cinese appropriata. Occorrerà capire quanto la pressione delle imprese americane sul volere politico potrà consentire questo disaccoppiamento…

Qual’è il punto di convergenza di questa escalation diplomatica e commerciale? Secondo Jonathan Hackenbroich, studioso del tema della coercizione economica presso l’ECFR, aumentare i livelli della crisi, da parte di USA e Cina, comporta la pressione, e infine la coercizione, su paesi terzi, per indurli a rafforzare le rispettive aree geo-economiche; Hackenbroich fa l’esempio dell’Australia: quando l’Australia ha chiesto un’inchiesta indipendente sull’epidemia Covid 19, la Cina ha minacciato un vasto boicottaggio di beni australiani, università e nel settore turistico, nonché tariffe punitive – e ora si è mossa per vietare la carne rossa australiana nel mercato cinese. 

L’amministrazione Trump potrebbe pensare in modo simile anche per gli europei e i loro dilemmi strategici: l’industria automobilistica in Germania è in gravi difficoltà, ad esempio. La minaccia delle tariffe automobilistiche contro l’Europa causerebbe un grande allarme tra i politici tedeschi. Quindi, da parte dell’amministrazione Trump, è possibile che aumentino le possibilità di coercizione economica che determinano cambiamenti nel comportamento (fonte).

Il conflitto USA-Cina, in realtà è assai più diversificato, e riguarda le reciproche operazioni di intelligence (disastrose per gli Stati Uniti in Cina, e in parte passate proprio attraverso HK), l’espansionismo cinese nel Pacifico, la sua egemonia in Africa, la ritrovata alleanza con la Russia putiniana e altro ancora.

Quello che stiamo vedendo quindi, è probabilmente l’ineluttabile arrivo al punto di rottura fra le due principali superpotenze mondiali che si sono sopportate fin quando hanno avuto una reciproca convenienza:

I legami della Cina con gli Stati Uniti per la maggior parte degli ultimi 40 anni sono stati fondati su un’equazione intrinsecamente instabile. Ciascuna parte era disposta a minimizzare le differenze ideologiche e le tensioni strategiche al fine di beneficiare della cooperazione economica. Per decenni, questo atteggiamento ha prodotto notevoli guadagni commerciali [a entrambi]. Molti a Pechino incolpano le tensioni sulle insicurezze di una superpotenza in declino: a Washington, temono la crescente fiducia di una grande potenza in aumento. (fonte)

Ma non capiremmo abbastanza la repressione cinese a HK se non la interpretassimo anche alla luce della storia degli ultimi due secoli. La storia di HK riguarda quello che per i cinesi è stato “il secolo delle umiliazioni”, ovvero il periodo 1839-1949 del colonialismo occidentale e giapponese in Cina. Poiché la Storia è sempre maestra, ancorché misconosciuta, se non partiamo da qui non potremo mai capire cosa sta succedendo a Hong Kong e quale potrà essere il futuro della città. HK è stata colonia britannica fino al 1997, divenendo poi “Regione amministrativa speciale” in base al principio proposto dall’astutissimo Deng Xiaoping, “un Paese, due sistemi”. In maniera certamente più intricata e sofferta, la storia di HK richiama quella di Shanghai, come hanno sottolineato James Carter e Jeffrey Wasserstrom, che anziché colonia in senso stretto divenne prima città internazionale grazie alle “concessioni” estorte dagli occidentali, poi lasciata decadere, poi risorta economicamente; prima città di intellettuali, poi abbandonata da questi a favore di HK, e insomma alla fine “normalizzata” ma ricca e fiorente.

C’è un elemento costante che, in maniera più o meno manifesta, compare di continuo nella attualità cinese ed è il riferimento, diretto o indiretto, a quello che viene definito il secolo delle umiliazioni. Un secolo, che va dalla prima guerra dell’Oppio (1839-1842) alla nascita della Repubblica popolare cinese, fatto di shock culturali, traumi, umiliazioni, devastazioni, smembramenti territoriali […] quello stesso trauma viene oggi fatto rivivere ad ogni occasione utile e costantemente inoculato nelle coscienze, sui banchi di scuola, nei media, nei musei. Quasi un memento costantemente ripetuto per ricordare un periodo nero della storia cinese ed evitare che accada nuovamente (Nunziante Mastrolia, fonte).

Il fortissimo senso nazionale cinese, del popolo cinese, e la straordinaria voglia di riscatto dopo il secolo delle umiliazioni e, in modo e per ragioni diverse, dal periodo terribile della rivoluzione culturale maoista, deve sempre essere attentamente considerato quando si ragiona di HK, di Tibet, della minoranza uigura. Per gli stessi motivi per i quali non capiremo mai la politica estera di Putin senza comprendere la forza unificatrice del panslavismo, alla base della guerra con l’Ucraina. Attenzione perché questa riflessione va ben oltre HK, e domani potrà riguardare anche Taiwan (e diamo per ormai archiviati i casi Tibet e Xinjiang).

Conclusioni. Può piacere oppure no, ma la situazione di HK è chiusa da quando è iniziata. HK è cinese e con le buone o con le cattive sarà normalizzata e i suoi manifestanti ridotti al silenzio, anche brutalmente. Esattamente come ha fatto e fa Putin coi ceceni, Erdogan coi curdi, l’Estonia coi russofoni e via enumerando situazioni che hanno coinvolto, nel passato, anche gli italiani e altri nostri vicini europei. Ciò non significa che si debba smettere di protestare per le brutalità e le privazioni di libertà a HK, significa che dobbiamo imparare a protestare per tutte le brutalità, evitando quindi di schierarci unilateralmente diventando anche noi europei parte del problema; se infatti l’Europa si schierasse pavidamente con Trump, semmai perché minacciata nei suoi interessi immediati, diverrebbe semplicemente una dépendance americana, utile alla bisogna oggi, e da tradire semmai domani.

C’è una conclusione anche più amara: le ambizioni cinesi non sono certo limitate alla piccola HK, che ha sì, ancora, una certa rilevanza economica, ma assolutamente non quella rilevanza strategica e di lungo periodo nella quale la leadership cinese si mostra sempre lungimirante. Come nel gioco del weiqi (più noto col nome giapponese go) i cinesi stanno piazzando, decennio dopo decennio, le loro “pietre” in giro per il mondo; i meno avveduti, quando si accorgeranno della disposizione delle pietre, saranno già stati circondati ed espulsi dal tavolo di gioco.

Fonti