Veronesi, lo Strega, le Olimpiadi e il romanzo borghese

Quando, nel corso della lunga serata dedicata al Premio Strega 2020, il conduttore Giorgio Zanchini ha chiesto a Sandro Veronesi, non ancora proclamato vincitore ma chiaramente destinato al successo, se trovasse offensivo definire Il colibrì un romanzo borghese, lo scrittore ha risposto, a mio avviso molto correttamente, che non poteva davvero offendersene, perché «il romanzo nasce borghese», e perché «è borghese spesso il contesto che si racconta, ma è borghese l’atto di leggere e scrivere romanzi». Questo breve scambio di battute ha poi ispirato qualche commento, e qualche approfondimento da parte dello stesso Veronesi, che evidentemente non era troppo entusiasta di apparire come uno scrittore “di classe”, e in un’intervista immediatamente successiva ha aggiunto che dalla nascita del romanzo certamente molto è cambiato, e che all’epoca «dire romanzo borghese voleva dire che si cominciava a parlare della gente comune. Essere borghese era un passo avanti verso il popolo». Il romanzo, insomma, reca le stimmate di un passaggio epocale di democratizzazione, dalla letteratura degli aristocratici a quella della classe lavoratrice benestante ed emergente, che trova il modo di parlare finalmente di sé.

Ora, confesso che qui non mi interessa molto collocare Veronesi socio-politicamente, né analizzare le sorti della borghesia come classe sociale più o meno in sfaldamento. Quello su cui in questo articolo vorrei riflettere è la frase «è borghese l’atto di leggere e scrivere romanzi», perché a mio avviso si riferisce a una verità ancora più sostanziale di quanto lo stesso Veronesi intendesse. Proverò a spiegarmi.

Chi ci segue, avrà notato che ogni tanto torno sul tema del romanzo contemporaneo. Intendiamoci, non tanto da un punto di vista tecnico-letterario, ma prevalentemente dal punto di vista “industriale”. In un recente post, sostenevo che scrivere non è più una professione, ed è tristemente vero, ammesso che lo sia mai stata. Fatta eccezione per pochissimi, scrivere romanzi non dà da vivere; anzi, nella maggioranza dei casi è un’attività sostanzialmente in perdita, se si considera anche la quantità di tempo che uno scrittore deve dedicare a tutto ciò che non è scrivere. Per questo, spesso gli scrittori che hanno successo approfittano del po’ di notorietà e di reputazione che ottengono per trovare un’altra attività, più redditizia, magari sempre nel campo dei media (la conduzione di un programma radiofonico o televisivo, ad esempio) o addirittura in quello della politica. Oppure, se avevano già una professione con cui sostenersi, la continuano, con l’accresciuto prestigio derivante dalla “laurea” letteraria.

Insomma: scrivere è, sempre più, un’attività amatoriale. Tolte forse dieci persone in Italia, chiunque s’apprestasse a scrivere un romanzo con l’idea di ottenerne un guadagno commisurato alle ore di lavoro che dovrà dedicargli sarebbe un pazzo. La grande maggioranza non ne ricaverà alcun guadagno; una cospicua parte di questa maggioranza ci rimetterà soldi, oltre al tempo, e tra costoro non rientrano solo i velleitari aspiranti scrittori che in realtà farebbero meglio a dedicare le loro fatiche al giardinaggio e che (diciamolo) svolgono spesso la funzione di parco buoi per finanziare il settore editoriale in senso lato, ma anche molti che sono considerati da tutti, oltre che da loro stessi, scrittori veri e propri. Di questo abbiamo già parlato, e rinvierei chi fosse interessato agli articoli già pubblicati, a partire da quello in cui ci interrogavamo sul destino del romanzo in Italia. Ora vorrei invece ragionare sulle conseguenze di questa amatorialità dello scrivere narrativa, partendo da un insolito parallelo.

Ricordate il film Momenti di gloria? Ambientato al tempo delle Olimpiadi del 1924, raffigura il mondo dell’atletica leggera britannica ai tempi del dilettantismo puro. Gli atleti all’epoca si formavano nelle grandi università, come Cambridge e Oxford, correvano in un abbigliamento che oggi sembra una pubblicità di intimo maschile vintage, e ovviamente appartenevano all’aristocrazia o comunque alla classe dominante. Nel film, tuttavia, uno degli aspiranti campioni di atletica leggera è Harold Abrahams, un ebreo figlio di immigrati polacchi divenuti ricchi grazie alla finanza, iscritto a Cambridge ma certamente non appartenente all’élite di un’Inghilterra ancora imperiale, nella quale i risultati nello sport sono meno importanti del nobile stile di comportamento che caratterizzava quella classe sociale. Proprio per questo, è appunto Abrahams il primo, tra la disapprovazione dei decani di Cambridge, a ingaggiare un allenatore professionista per prepararsi alle Olimpiadi. Nel film, insomma, accanto ad altri temi, si raffigura l’inizio del passaggio dallo sport amatoriale a quello professionistico; un passaggio decisivo non solo per arrivare a livelli di prestazioni difficilmente ottenibili con un approccio amatoriale, ma soprattutto per aprire la pratica dello sport di alto livello a tutte le classi sociali e a tutti i paesi, perché se un’attività è amatoriale, solo chi può permettersi di spendere tempo in attività “improduttive” sarà in grado di svolgerla adeguatamente. Il professionismo è democratico, questo è il punto, e la storia dello sport ce lo insegna, anzi ci lascia pensare che una volta create le condizioni per il professionismo non si possa più tornare indietro.

Davvero non si può tornare indietro? Non ne sarei così sicuro. Il professionismo si regge sul mercato, e le condizioni di mercato non fanno regali a nessuno; se è vero che in Italia scrivere romanzi non è mai stata una professione “industriale” come nei paesi anglosassoni, a me pare che stiamo assistendo a un’ulteriore amatorializzazione della figura del romanziere, causata anche dall’inflazione di aspiranti autori; in un certo senso, è un fenomeno paradossale, perché questo status amatoriale riguarda un prodotto “maturo” come il romanzo, ma in un altro senso si inscrive in una tendenza più ampia, ossia quella che potremmo chiamare la narrazione diffusa. Si può dire che siamo diventati tutti narratori più o meno improvvisati, abbiamo tutti (o pensiamo di avere) la necessità e la capacità di raccontare delle storie, sul lavoro, nel privato, in quegli spazi ibridi e largamente patologici che sono i Social; e in questo mondo di narratori, colui che s’impegna nella scrittura di un vero e proprio romanzo è innanzitutto uno che se lo può permettere. Questo è, forse oltre le intenzioni di Sandro Veronesi, oggi il significato di una frase come «scrivere romanzi è un atto borghese». È borghese perché i borghesi più di altri possono permettersi il lusso di dedicare a un’attività amatoriale tempo ed energie degne di un vero e proprio lavoro; ed è borghese perché, laddove il profitto è scarso per tutti, a definire le gerarchie è il consenso dell’ambiente, in questo caso del mondo della cultura e della grande editoria, ancora saldamente borghese. Certamente non sono solo borghesi a scrivere, ma scrivere è un “atto borghese”.

Naturalmente, può andare benissimo così: potremo continuare a leggere (o non leggere) romanzi espressione di autori, situazioni, aspirazioni e valori borghesi, perché non c’è niente di male, così come non c’è motivo di criticare Veronesi per rientrare in questa categoria. Anche i velocisti in mutandoni di inizio Novecento compivano imprese ammirevoli, e suscitavano giusti entusiasmi tra il pubblico, no? Ogni tanto vedremo emergere un autore outsider, e può andar bene anche così.
Ma se vogliamo che in finale alle Olimpiadi, oltre agli studenti di Cambridge, possa arrivare anche il figlio di un sarto di Barletta, allora secondo me più che scuole di scrittura e agenzie serve una mezza rivoluzione, che trasformi lo scrittore da forza lavoro a costo zero a libero imprenditore in proprio; una rivoluzione che in qualche modo dovrà coinvolgere anche noi lettori.