Dell’ingloriosa fine del M5S avete letto, immagino, più o meno tutto, di quelle poche miserie in corso. Alcuni parlamentari grillini che non versano più l’obolo a padron Casaleggio, il quale sospende i servizi della piattaforma Rousseau e scrive sul blog il suo sdegno, il M5S che insorge, lui che replica… in una contorsione di logiche e ragioni difficili da dipanare. Anzi: non dipanabili politicamente, che la questione – vedrete – si risolverà in un’aula di tribunale, perché al dunque la questione è la seguente: di chi è il Movimento? Certamente non degli elettori, e neppure degli iscritti, che non hanno mai potuto votare in un’assemblea democratica, non Grillo che ha ceduto il marchio a Casaleggio, non questi che gestirebbe “solo” i servizi per il Movimento… Vi ricordate l’epoca felice del non partito col non statuto? Ecco: ha prodotto un ciclo storico assai breve del quale l’alfa e l’omega sono stati – pensate un po’ – il Vaffa Day (era il 2007) e il reddito di cittadinanza, del cui totale fallimento abbiamo parlato qualche giorno fa.
Temendo profondamente l’anima nera del populismo, e disprezzandone apertamente la forma materiale del M5S, sono abbastanza contento del loro veloce tracollo, e lo sarei di più se non sapessi che la loro fine sarà solo portatrice di strascichi da penosi a pericolosi: innanzitutto il fatto che l’eventuale scomparsa (più probabilmente: forte ridimensionamento) dei grillini non significherà in alcun modo la scomparsa del populismo; gli elettori populisti hanno ormai ampia scelta per riposizionarsi: Lega, Fratelli d’Italia e adesso anche Partito Democratico. Prima stavano in gran parte nello stesso canestro (grillino = populista = protofascista da combattere con tutte le forze) e rendevano più facile il confronto; ora ruscellano ovunque, confondendo molte brave persone e rendendo l’offerta politica sempre meno interessante. Poi ci saranno conseguenze pesanti sul governo: la loro forza parlamentare è consistente, e faranno di tutto per giocarsela con proposte e ricatti scellerati per cercare di accattivarsi qualche simpatia dal loro elettorato. E abbiamo la pandemia, il Paese alla canna del gas e il Recovery Fund (se e quando arriverà) da spendere assennatamente (i nostri dubbi in merito sono stati espressi QUI).
Comunque sia avremmo una lezione da imparare da tutto questo, se ci fosse ancora voglia, da parte di qualcuno, di soffermarsi per imparare dalla storia, dalla valutazione dei fatti, dall’agone politico. Quello che ci sarebbe da imparare è quanto segue: niente è semplice nel mondo caotico della complessità sociale, dell’interdipendenza globale e della società gassosa (no, non è più nemmeno liquida…). Tutto è complicato, da cogliere sistemicamente, da interpretare prospetticamente. L’abolizione della povertà non si ottiene con una leggina che interviene (con colpevole ingenuità) su pochi punti marginali di ciò che le menti semplici di Di Maio, Toninelli & Co. immaginavano essere “la povertà”; la corruzione non si toglie di mezzo con un decretino veloce solo perché lo si è chiamato “Spazzacorrotti”; il potere della casta (qualunque cosa significhi) non si sconfigge “tagliando le poltrone”. Anzi, muovendosi così, su singole questioni affrontate in maniera vagamente lineare-deduttiva, certamente ipersemplificata, si creano (e si sono create effettivamente) quelle che i valutatori di politiche pubbliche chiamano conseguenze inattese. I bravi valutatori, per la verità, sanno bene che le ‘conseguenze inattese’ sono, nove volte su dieci, frettolosità del programmatore, ingenuità del progettista. I valutatori distinguono quindi fra logica del programma e logica dell’implementazione, per potere imputare gli elementi negativi riscontrati in sede di valutazione nel Programma in sé (sbagliato forse a immaginare certi problemi, o a immaginare che a quei problemi si desse soluzione con quelle misure) o nel modo in cui è stato realizzato. Le politiche populiste di questi anni (quelle grilline e quelle leghiste) soffrono sia di errori nelle logiche del programma (ingenua rappresentazione dei problemi, esile individuazione delle soluzioni) che di quelle nell’implementazione (pensate al reddito di cittadinanza affidato a storicamente inefficienti servizi pubblici per l’impiego, e alla fesseria dei navigator!).
Qualunque cose pensiate della politica, qualunque sia la vostra area di riferimento, dovreste pretendere che i vostri leader smettano di inventarsi soluzioni miracolose a problemi di cui non capiscono un’acca; soluzioni certamente facili da comunicare, roboanti, di facile presa emotiva; dovreste pretendere che i vostri leader, accompagnanti da bravi, da ottimi professionisti e scienziati, sappiano sviluppare delle logiche di programma (di politiche) capaci di leggere la complessità, di limitare le conseguenze inattese (che studiando un pochino si posso tranquillamente immaginare prima, e quindi evitare), di monitorare e valutare l’implementazione. Certo, queste politiche impiegheranno molti mesi, o più probabilmente anni, per sviluppare i loro effetti, e quindi i frutti degli sforzi dei politici di oggi li raccoglieranno i politici di domani. Niente balconi ai quali affacciarsi, quindi. E questo è fare politica.
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