Il problema della democrazia ha natura epistemologica.
Per spiegarvelo vi propongo un parallelo molto coinvolgente ma privo di risvolti politici, privo di preoccupazioni per l’insulsaggine del governo Conte o per l’esito – che attendiamo in queste ore – delle elezioni americane: parliamo quindi di amore.
Di |amore| è talmente pieno il mondo che non sappiamo più dove metterlo: tutte le religioni ne parlano e straparlano, tutti i poeti, un’enorme quantità di romanzi, molta cronaca dei quotidiani e una fetta importante di lavoro per avvocati e tribunali. Oltre che notti insonni di adolescenti, studi di psicologi e psicoanalisti (e cartomanti), case farmaceutiche produttrici di ansiolitici, cantautori, Hollywood – stavo per dimenticare Hollywood! – e i milioni di dollari che fa girare, wedding planner e relativo codazzo di trasmissioni televisive… Insomma: siete d’accordo che non è un tema di nicchia? Siete d’accordo che il concetto di ‘amore’ è universale, comune, raccontato e cantato in tutte le salse fin dalla notte dei tempi? Bene; sarete parimenti d’accordo che continua a essere scivoloso, opaco, sfaccettato, inafferrabile, privo di soddisfacenti definizioni lessicali, diversamente inteso da ciascuno dei 100 miliardi di persone nate, in tutti i tempi, sul pianeta. ‘Amore’ non è affatto quella cosa che dice il dizionario, ma un insieme di sentimenti, sogni, umori, dispiaceri, relazioni, fluidi, sudate, litigate, viaggi, testate sui muri e una bella altra fetta di cose, di gesti inconsulti, tempo delizioso e tempo sprecato, prese e lasciate, corse affannose e riposi. Non possiamo “parlare” di amore, a meno di non essere poeti, lo possiamo solo praticare, e ognuno, ovviamente, a modo suo, nei tempi suoi.
Il problema dei concetti astratti è appunto questo: hanno moltissima intensione, vale a dire una quantità impressionante di cose, all’interno, che li connotano. E ciascuno cerca, e trova, e vede, quegli elementi verso i quali è portato, oppure quelli che gli servono in quel momento, o anche semplicemente quelli sui quali distrattamente inciampa. E in questa caleidoscopica varietà di elementi, costitutivi dei concetti astratti (come ‘amore’, ma anche come ‘democrazia’), c’è spazio per l’incongruenza, la contraddizione, la vaghezza. Non usciamo tutti pazzi da questa situazione (oddio, forse nel caso dell’amore sì, un pochino pazzi) per una potente conseguenza fattuale e pragmatica; vale a dire: quando siamo innamorati non abbiamo bisogno di darle/dargli la nostra definizione lessicale, né scriverle/gli un trattato di semiotica: amiamo e basta. Lo possiamo fare appassionatamente o goffamente, timidamente o spiritosamente; possiamo mostrare un amore più carnale o più poetico ma, senza tanti preamboli filosofici, amiamo come sappiamo fare, con quella persona, in quel momento.
Con la democrazia è più o meno lo stesso. Ci sono meno complicazioni umorali, forse; ce ne sono di più con riferimento alla complessità sociale, perché l’amore, solitamente, coinvolge due individui, mentre la democrazia milioni.
Per questa ragione la democrazia ha bisogno di testi. Una Costituzione fondamentale, leggi adeguate, e organismi più o meno “supremi” a vigilare che tutto fili liscio.
E qui accade l’inghippo. Mentre l’amore si pratica e basta, la democrazia si deve necessariamente definire (per esempio con una Costituzione), per poi praticarla secondo tale definizione; ma le definizioni sono linguistiche, e quindi sintattiche; l’interpretazione (dei giudici) può essere semantica (ciò che si chiama lo spirito della legge, il suo senso), mentre la gran parte del comportamento dei cittadini è pragmatico; ciò significa che ciascuno di noi agisce entro una conoscenza tutto sommato generica delle leggi e dei principi costitutivi del nostro Stato di diritto; agiamo in realtà in base a principi, valori, credenze accumulate principalmente nel corso della nostra educazione, e confermate o adattate in tutta la nostra vita. Ed essendo parte di un insieme sociale grosso modo omogeneo, probabilmente il nostro sentire può non essere così difforme da quello di almeno alcuni vicini e conoscenti (traendo da ciò conferma). E quindi ci sentiamo legittimati, forti, consapevoli nelle nostre azioni quotidiane, e accettiamo molto malamente lezioni avverse, tendiamo a rifiutare che lontano, da qualche parte, in una qualche legge per come stabilita da qualche burocrate, ci sia scritto che ci sbagliamo. Questa è una bella fetta di spiegazione – per fare un esempio – dei comportamenti dei negazionisti e riduzionisti del Covid, e del loro reagire con tale veemenza ai giornalisti provocatori, ai vili che mettono la mascherina, ai pecoroni tutti…
Torniamo alla democrazia. In queste ore si stanno contando i voti americani e sapete che c’è un grandissimo timore: timore che vinca di nuovo Trump, per quello che significherebbero altri 4 anni di sua presidenza; timore che perda di misura e che si scatenino violenze da parte delle numerose milizie paramilitari di destra. E allora vi faccio una domanda: è democrazia, questa? È democrazia quella che porta Trump (o Bolsonaro, o Erdogan, o Orban…) al potere? Ci sono due risposte; la prima è: sì, ovvio, secondo un punto di vista formale. Posto che non si osservino brogli palesi e diffusi, anche Putin è stato eletto democraticamente, figuratevi Trump! Quindi – sotto questo profilo – perché ci stiamo preoccupando? Evviva le elezioni americane, festa della democrazia, e vinca chi vincerà! A proposito: ciò vale anche per l’Italia; togliere con manovre di palazzo la poltrona a Salvini non è stata un’operazione democratica ma il suo contrario, perché Salvini era uno dei vincitori delle elezioni democratiche italiane. Se non siete d’accordo fin qui, vi propongo la seconda risposta.
La seconda risposta è: no, non è democrazia questa – se non sotto un profilo formale, ovvero sintattico – perché ne tradisce il senso (ovvero il livello semantico). La democrazia non è banalmente, piattamente, scioccamente, “il governo della maggioranza”, perché questa è definibile anche come dittatura, un’idea ben presente nei Padri fondatori americani quando scrissero la Costituzione. La democrazia implica (implicava, implicherebbe…) partecipazione, responsabilità, consapevolezza, dialogo, confronto… in seguito ai quali sì, si prende una decisione a maggioranza. La democrazia nasce come idea dialogica, plurima, discorsiva; e per qualche sprazzo, breve e non chiarissimo, la si è vista all’opera, nel’America dell’Ottocento, nell’Occidente di metà del Novecento.
Poi sono successe cose che hanno stravolto il mondo: le tecnologie dell’informazione, la globalizzazione, la Cina… Non semplicemente “fatti”, ma significati che hanno impregnato le nostre coscienze, hanno cambiato le culture, hanno cambiato le pragmatiche. Ci sono state molte conseguenze e innumerevoli conseguenze di conseguenze, ma al dunque, oggi, in America come in Italia e nel mondo (dove più e dove meno) della democrazia è rimasto un simulacro formale e ideologico; quello formale sono le Costituzioni e le leggi e gli strumenti chiamati a sorvegliarle; quello ideologico è il costrutto intessuto attorno a queste, la sacralizzazione della Costituzione svuotata di contenuti, la giustizia che non vede le ingiustizie, gli apparati che si fanno arbitri e, assieme, giocatori, stravolgendo nei fatti le regole originarie.
Non è affatto ‘democrazia’ il poter votare; non c’è niente di democratico nell’andare a votare Trump, o Bolsonaro, o Erdogan. O Salvini. La democrazia riguarda l’assicurazione che tutti i cittadini-elettori (o almeno la stragrande maggioranza) possano votare con consapevolezza, conoscendo ciò per cui votano, sapendone valutare le conseguenze. Una cosa possibile, ancora, 50 anni fa; in parte almeno. Perché il mondo era “più piccolo”, più semplice, più facilmente descrivibile sintatticamente. Oggi il mondo è esploso, la complessità sociale è semplicemente ingovernabile (ne ho parlato QUI), la cacofonia informativa equivale a nessuna informazione affidabile, il necessario iperspecialismo non è alla portata del cittadino… In poche parole: sono venuti a mancare, in pochi decenni, i presupposti fondamentali per definire “democratica” la democrazia.
Quindi, cari lettori, questa è la conclusione: se non ci nascondiamo dietro una vuota sintassi, di democratico l’elezione di Trump ha poco; ne ha pochissimo quella di Erdogan e di Putin; ne ha avuto pochissimo il voto britannico sulla Brexit e il referendum costituzionale di Renzi; non è democratico Salvini ed era poco democratico il suo governo. Tutte le regole, nessuna esclusa, sono state rispettate, ma attenti! Quelle regole, a suo tempo garanzia di imparzialità e “democraticità”, oggi sono diventate strumenti a doppio taglio utilizzati da chi, di democratico, esprime poco o nulla.