nulla si compie se non s’apre bocca.
(Euripide, Supplici)
In questo post vorrei sostenere che, a differenza del linguaggio ordinario, quello poetico non può mentire. Ciò significa, naturalmente, che quello ordinario può farlo, è adatto, è quasi programmato per la menzogna e la simulazione, e devo necessariamente prima argomentare quest’affermazione così radicale. Anche per discutere sulla mendacità del linguaggio dovrei spiegare molte cose su come funziona, e in particolare su quella che si chiama funzione perlocutoria, ma fortunatamente su questo ho già scritto diverse cose cui rinvio gli interessati:
- Le parole e il potere; come e perché il linguaggio può mentire e condizionare;
- Le parole sono pietre. Ma non è detto che siano chiare; tutte le ragioni per le quali il linguaggio confonde e inganna, con accenni alla pragmatica del linguaggio.
Anche se in questo modo costringo alcuni di voi a leggersi altri post, riuscirò a contenere il presente entro una lunghezza non esagerata. Chi non ha voglia vada avanti e basta…
Il linguaggio serve per mentire. È nell’esperienza di noi tutti la quantità di limiti del linguaggio ordinario: capire fischi per fiaschi – per utilizzare un detto popolare – capita di frequente. I limiti del linguaggio ordinario, il perché si capiscano sovente fischi per fiaschi, deve essere ben compreso prima di procedere nel ragionamento, e di questo ho parlato nel secondo dei post sopra citati.
Gli stupidi infatti di ogni cosa hanno ammirazione e amore
che scorgano nascondersi al di sotto delle parole,
e stabiliscono essere vere le cose che in modo carino possan toccare
l’udito, e siano imbellettate da suono grazioso.
(Lucrezio, De rerum natura)
Il linguaggio, ancorché indispensabile, è il veicolo degli errori, delle ambiguità, delle menzogne, degli equivoci di cui è costellata la nostra vita di animali sociali e comunicatori. Questa “imperfezione” del linguaggio appare via via più evidente man mano che da questioni semplici, operative, standardizzate, passiamo a problemi più complessi anche se ancora operativi (esempio: descrivere solo a parole come ci si allacciano le scarpe) e infine a questioni astratte, che riguardano concetti generali, sentimenti. Benché ci siano dimostrazioni empiriche interessantissime sull’ambiguità di termini banali come |sedia| (se ne avete voglia leggete questo bel libro di Marradi e Fobert Veutro, Sai dire cos’è una sedia?), credo meglio passare subito ai concetti “pesanti” come per esempio |amore|. Ma non vi spiego io l’ambiguità intrinseca di questa parola deliziosa e lascio esprimersi Ronald Laing, famoso psichiatra scozzese anticonvenzionale che si è divertito a scrivere delle “poesie” come questa, che si intitola, appunto, Mi ami?
LEI mi ami?
LUI sì ti amo
LEI più di tutto?
LUI sì più di tutto
LEI più di tutto al mondo?
LUI sì più di tutto al mondo
LEI ti piaccio?
LUI sì mi piaci
LEI ti piace stare vicino a me?
LUI sì mi piace stare vicino a te
LEI ti piace guardarmi?
LUI sì mi piace guardarti
LEI pensi che io sia stupida?
LUI no non penso che tu sia stupida
LEI pensi che io sia carina?
LUI sì penso che tu sia carina
LEI ti annoio?
LUI no non mi annoi
LEI ti piacciono le mie sopracciglia?
LUI si mi piacciono le tue sopracciglia
LEI molto?
LUI molto
LEI quale ti piace di più?
LUI se dico quale l’altra sarà gelosa
LEI lo devi dire
LUI sono tutt’e due squisite
LEI davvero?
LUI davvero
LEI ho delle belle ciglia?
LUI sì delle ciglia bellissime
LEI ti piace annusarmi?
LUI sì mi piace annusarti
LEI ti piace il mio profumo?
LUI sì mi piace il tuo profumo
LEI pensi che io abbia buon gusto?
LUI sì penso che tu abbia buon gusto
LEI pensi che abbia del talento?
LUI sì penso che tu abbia del talento
LEI non pensi che io sia pigra?
LUI no non penso che tu sia pigra
LEI ti piace toccarmi?
LUI sì mi piace toccarti
LEI pensi che io sia buffa?
LUI solo in un modo simpatico
LEI stai ridendo di me?
LUI no non sto ridendo di te
LEI mi ami davvero?
LUI sì ti amo davvero
LEI dì “TI AMO”
LUI ti amo
LEI hai voglia di abbracciarmi?
LUI sì ho voglia di abbracciarti, e stringerti, e coccolarti, e amoreggiare con te
LEI va tutto bene?
LUI sì va tutto bene
LEI giura che non mi lascerai mai?
LUI giuro che non ti lascerò mai, mi faccio una croce sul cuore e che possa morire se non dico la verità
(pausa)
LEI mi ami davvero?
A questo punto naturalmente è chiaro che quando dico che “Il linguaggio serve per mentire” non intendo dire che questo sia il suo scopo, ma che semplicemente è il suo limite, il limite del significato costretto alla vaghezza russelliana, il limite della denotazione che non riesce a trasmettere connotazione…
Il linguaggio poetico non mente. Mai. Il linguaggio ingloba due principali funzioni, una chiamata denotativa e una seconda connotativa. Denotazione e connotazione hanno ha che fare, rispettivamente, con significato e senso. Faccio un esempio: il significato di |amore| è quello che trovate su un dizionario e sulla Wikipedia, dalla quale traggo:
L’amore è un sentimento intenso e profondo di affetto, simpatia e adesione, rivolto verso una persona, un animale, un oggetto o verso un concetto, un ideale. Oppure, può venire definito sotto un altro punto di vista (scientifico), un impulso dei nostri sensi che ci spinge verso una determinata persona.
Non vi sognereste mai di declinare in questo modo il vostro amore all’amat*, giusto?
A lei/lui dite invece paroline dolci, cercate metafore, iperboli amorose… e finite nel dialogo precedente! Se cercate di spiegare il vostro amore, se cercate di definirlo, usate il registro denotativo che non vi aiuta affatto. Il “senso” di amore (l’elemento connotativo) è quello invece che ha a che fare con le vostre emozioni, con la sfera psico-affettiva. Quando lei/lui vi dice languidamente “Amore…” e percepite le farfalle nelle budella o – come descrive Hemingway in Per chi suona la campana – sentite tremare il mondo, non avete necessità di una definizione tecnica di |amore|, avete capito senza bisogno di dizionario. Anzi: se avete bisogno di una maggiore spiegazione, come la LEI del precedente dialogo, beh… vuole dire che le farfalle non le avete sentite, che forse non c’è tanto amore nell’aria…
Un esempio diverso: a volte il linguaggio ha bisogno di meno parole, e preferisce le allusioni, i riferimenti contestuali (deissi), le parafrasi, l’uso di strumenti retorici.
Parlavamo spesso di tori e toreri. Io scendevo al Montoya da parecchi anni. Non parlavamo mai molto a lungo. Era puramente il piacere di scoprire ciò che sentiva ciascuno di noi. […] mi fermai a parlare con Montoya.
“Be’, le sono piaciuti i tori?” domandò.
“Parecchio. Erano bei tori.”
“Sono discreti” – Montoya scosse il capo – “ma non sono molto bravi.”
“Cosa non le è piaciuto il loro?”
“Non so. E’ che non mi hanno dato la sensazione di essere tanto bravi.”
“Capisco cosa intende.”
“Ma sono discreti.”
“Sì. Sono discreti.”
(Hemingway, Fiesta)
Perché il linguaggio poetico dice sempre la verità? Perché è puramente connotativo. Il poeta (in senso lato: riguarda poesia, prosa, epica e si avvicina molto alla magia, alla religione… ma questo ci porterebbe troppo lontano) riesce ad esprimere (con le parole!) sentimenti profondi che toccano in noi delle corde sensibili. E – attenzione – a ognuno tocca corde diverse, a ognuno le sue (questa è una conseguenza della connotazione), e quindi non può mentire per definizione, perché la poesia dice a me qualcosa di profondo e vero per me, che può essere differente da ciò che dice a voi toccando nel profondo voi (ma questo non potremo saperlo mai con certezza matematica, altra proprietà del “senso” rispetto al “significato”!).
Il linguaggio poetico non “spiega” al nostro cervello (funzione denotativa, equivocabile per le ragione dette precedentemente) ma sollecita il nostro cuore, la nostra anima, dite come volete, apparendoci sempre “vero”.
E’ questo che differenzia una grande poesia da un esercizio adolescenziale, un grande romanzo da uno dozzinale. Possiamo benissimo leggere un romanzetto in treno, essere appassionati – che so? – di fantascienza o di thriller… ma il piacere che ci danno è mentale. Ci piace lo sviluppo, la trama, il colpo di scena finale… Non ci scuotono però nel profondo. Quando leggiamo, invece, La strada di McCarthy, non leggiamo solo “una storia” post apocalittica, ma viviamo un intensissimo sentimento padre-figlio, una disperazione struggente che ci coinvolge… La storia ci piace, certo, ma il coinvolgimento psicologico ed emotivo, indubbiamente diverso da lettore e lettore, riguarda il senso espresso dal linguaggio, e ha a che fare con la poesia, con la connotazione, con l’irripetibilità dei momenti.
Il linguaggio poetico è talmente svincolato dal significato (dalla razionalità, dalla necessità della spiegazione) che può anche non avere “senso” ma apparire bello, ispirato e fonte di ispirazione… Onestamente non so se questo racconto-poesia vi parrà bello, ma certamente è un esempio di espressione linguistica connotata che esprime ciò di cui sto parlando.
Quindi:
L’oggetto dell’artista è la creazione del bello. Che cosa sia il bello, è un altro problema (James Joyce, Dedalus: ritratto dell’artista da giovane)
(Testo – ricostruito e adattato – della conferenza da me tenuta il 1° Giugno 2013 a Bologna, nell’ambito del VI Raduno Nazionale Anobii)