L’Italia non spende i soldi europei. Vi spiego perché

La Corte dei Conti UE ci informa che l’Italia è il fanalino di coda europeo nell’utilizzo dei fondi strutturali assegnatici; spendiamo solo il 30% di quanto abbiamo disponibile. Come scrive, preoccupato, Nicola Saldutti, questo spreco

Vuol dire perdere o non investire il 70% dei fondi messi a disposizione. Perché? Adesso che il Paese sta mettendo a punto il suo piano di riforme e di interventi per poter impiegare i 209 miliardi previsti da Recovery fund, è necessario un salto di qualità.

Mi dispiace dirlo, ma questo salto di qualità non ci sarà, per una ragione abbastanza semplice da dire: l’incapacità italiana, su questo terreno, è strutturale. Intendo dire che non si tratta, per esempio, di spiegare meglio a qualcuno come si fanno i progetti europei, oppure di sostituire i responsabili con migliori progettisti. Se non siete del mestiere non immaginate quante strutture, quanti strumenti, quanti sostegni siano previsti, sia a livello dell’Unione che nazionale, al fine di sostenere la progettazione dei fondi strutturali, e la spesa efficace dei soldi disponibili. Ci sono innumerevoli persone che vivono (abbastanza ben pagate con soldi pubblici) per spiegare cosa sono i Fondi strutturali, per stimolarne l’uso, per affiancare chi progetta interventi, per monitorarne lo sviluppo… Ci sono associazioni nazionali ed europee, siti web a profusione, specie europei, anche ben fatti, cattedre universitarie, riviste… Funzionari europei girano costantemente le regioni per controllare, mostrare, suggerire… Il governo italiano ha appositi uffici che fanno più o meno lo stesso… È prevista la figura del “valutatore indipendente” (sic) che si deve impicciare di cosa ogni Regione fa o non fa, misurandone gli effetti…

Ma il ritardo italiano è strutturale, e adesso vi spiego perché.

1 – Prima regola, non scontentare nessuno: questa cosa è così italiana! Ma vi pare che, con tutti i soldi che arrivano, non se ne debba dare un po’ a tutti? La Confindustria ha le sue idee e, perbacco! è la Confindustria! E gli artigiani? E che, volete trascurare gli artigiani? E gli agricoltori? E i commercianti, non sono forse, anche loro, figli di Dio? E poi c’è quel progetto che sta tanto a cuore dell’Assessore; quel territorio che si lamenta di essere stato trascurato al precedente giro distributivo; quella grandissima cagata pseudo-culturale che sta sempre sui giornali e rompe i cabbasisi, ma adesso gli finanziamo il progetto così finalmente si calmano; e poi c’è Coso, là, mi hai inteso, e il Presidente ha detto che il suo progetto ha la priorità… Ecco, avete capito. Non è possibile una programmazione vera, attenta, ben articolata, cui far seguire delle progettazioni pertinenti, efficaci, mirate; in Italia si fanno, sì, delle articolate programmazioni (anche perché devono essere sottoposte al vaglio di Bruxelles, quindi, almeno a un certo livello, devono essere almeno decenti), che sono cornici retoriche sostanzialmente svincolate dai progetti. Non da tutti i progetti, certo; e “grosso modo” tutti sono in qualche modo riconducibili al programma generale, come qualunque elemento specifico non può non avere a che fare con concetti generali e vaghi. Ma lo spezzettamento delle risorse, la frammentazione di idee, fa sì che il valore aggiunto dei progetti, già intrinsecamente scarso, si diluisca ancora di più, perda ogni forza rispetto ai cambiamenti auspicati. Questo modo di procedere non è casuale; non si rimedia con un corso formativo; è strutturale. Ne ha parlato non molto tempo fa anche Filippo Ottonieri, a proposito della pessima programmazione preliminare del Recovery fund; come dire: è proprio così che facciamo le cose, in Italia.

2 – Seconda regola, il mondo è dei burocrati: ciò detto, con questi vincoli pazzeschi, pressioni, circostanze, modi di fare, politica di bassa lega, chi è che, materialmente, redige un progetto per il quale richiedere un finanziamento? E chi è tenuto a capire se quel progetto è ammissibile? Qui si gioca una bellissima partita, a somma positiva (vincono tutti) fra una pletora di professionisti che campano di progettazione, e uno stuolo di burocrati che non capiscono la materia della quale si occupano, se non in termini strettamente giuridici e amministrativi (ne ho parlato da poco QUI). Le cose funzionano così: data la polverizzazione dei fondi, e l’ansia dei dirigenti regionali di spendere ad ogni costo (un’ansia poco costruttiva, perché come abbiamo detto non riescono comunque a farlo), sono finanziabili ideone e ideine, progetti utili e progetti proposti per scherzo, e moltissima gente vive girando per le aziende – per esempio – promettendo di far accedere a fondi gratuiti; il professionista guadagna solo se il progetto viene poi finanziato e l’azienda non rischia nulla… Perché non provare? Notate: spesso non c’è un reale bisogno, per quell’azienda, di quei fondi, e mai avrebbe proposto quel determinato progetto; ma se arrivano soldi ben vengano. Altre volte l’azienda aveva già in mente di realizzare il progetto con soldi propri, ma se invece arrivano soldi pubblici è meglio, no? Così questi professionisti (i progettisti) hanno imparato il lessico e la sintassi burocratica, quella che fa vincere i bandi, a metà fra la “giusta” risposta ai quesiti dei vari formulari da compilare e la conoscenza dei loro polli, quei funzionari e dirigenti pubblici che poi, applicando qualche criterio sommario, decideranno dei progetti da ammettere a finanziamento. Capito? In questo modo una discreta quantità di progetti finanziati sono minuzie, cose di importanza marginale, buchi tappati qui e là, soldi gentilmente dati a patto che i requisiti formali siano adempiuti e che la rendicontazione (invero puntigliosa) sia rigorosa.

3 – Terza regola, si muore di certificati, di dichiarazioni, di carte: cantierabilità, antimafia, congruità prezzi… i procedimenti si dilatano. Molti imprenditori (limitandosi a considerare quella parte di Fondi che riguarda le imprese) preferiscono rinunciare in partenza; sanno che dovranno fare una fatica enorme, perdendo tempo prezioso, per ottenere, eventualmente, i contributi quando già per loro è troppo tardi; oppure che saranno, poi, subissati da richieste e controlli farraginosi e, a volte, capziosi, o apparentemente tali. Io ne ho incontrati a decine, in tutta Italia, che non ne vogliono sapere per queste ragioni, o che raccontano di essersi pentiti amaramente di essersi infilati nel tunnel dei tempi e delle procedure regionali.

4 – Quarta regola: la valutazione dell’efficacia è una chimera: benché la Commissione Europea insista da decenni sulla valutazione, deve essere chiaro che, per come promossa ed attuata, assume un connotato farsesco. Sono le Regioni che emanano i bandi per il loro valutatore, in base – anche qui – a linee guida redatte da Bruxelles per assicurarsi due numeri e rispondere a domande di valutazione standard. In tale contesto buone valutazioni non si possono fare. Il valutatore è troppo spesso tiranneggiato da schemi ingegneristici che pongono l’accento solo sulla stima di indicatori numerici, bassa è la sensibilità verso risposte che entrino nel merito dei meccanismi attivati dai programmi. Nei famigerati Comitati di sorveglianza (uno in ogni Regione) composti guarda caso da tutte le rappresentanze degli attori sociali interessati, il ruolo del valutatore è relegato a quello del contabile che snocciola cifre e illustra analisi arzigogolate che mirano vanamente a comprendere come i programmi incidono sugli indicatori di contesto.

La valutazione diventa così una ricerca finalizzata alla stima di indicatori legati al contesto, “arricchita” da qualche focus group per sostenere le conclusioni e raccomandazioni del valutatore.

E’ il totale che fa la somma: è questa non è una regola ma la conclusione. Perché la miriade di progettini messi in piedi non solo hanno scarsissima efficacia e impatto quasi nullo, ma costano una fatica amministrativa enorme, incommensurabilmente di più della fatica che richiederebbero pochi progetti di vasta portata, ben coordinati e condotti ed enormemente più efficaci per cambiare la qualità di un territorio, di un comparto produttivo, di una fascia di popolazione.

Sui Fondi strutturali campano poi migliaia di persone: i già nominati progettisti; i monitori, i rendicontatori e i valutatori; legioni di funzionari e burocrati, ciascuno specializzato in un micro settore (rimasi sconvolto, molti anni fa, ad apprendere che nella mia Regione c’era un funzionario che si occupava, esclusivamente, di recinti per ungulati – daini e simili – per i quali c’era una specifica linea di finanziamento; quel tipo, in pratica, sapeva tutto di detti recinti, e null’altro); imprese e impresine, cooperative, associazioni, tutte desiderose di ciucciare qualcosina, tutte col loro bravo responsabile, progettista, tutor, coordinatore…

Se domani chiudessero i rubinetti, il tasso di disoccupazione in Italia crescerebbe immediatamente di alcuni punti.

Questa matassa ingarbugliata è un peso che rende la macchina della programmazione economica e territoriale incerta, lenta, farraginosa, tardiva nella ricerca di soluzioni, male organizzata nella divisione del lavoro come nella disponibilità di tecnologie adatte. La conclusione non è solo che spendiamo poco; quel 30% citato all’inizio è, per la maggior parte, speso male.

(Fabrizio Tenna ha letto alcune parti di questo testo in prima bozza, fornendo preziosi suggerimenti; tutti gli errori e le sciocchezze restano opera mia).